La reazione ad Hegel
I punti essenziali del
pensiero di Hegel
L’eredità di
Hegel al pensiero occidentale contemporaneo è concentrata in una sua frase, per
altro poco conosciuta, ma che anticipa di quasi un secolo quello che dirà poi Friedrich Nietzsche e cioè:
“il
grande Pan è morto”.
“il
grande Pan è morto”
Hegel con questa
frase afferma che è finita con lui l’idea che ci sia qualcosa di immutabile, di
stabile, di eterno, esiste solo il
divenire.
Esiste
solo il divenire
L’assoluto stesso è
concepito da Hegel come un soggetto. “Nella
mia filosofia tutto consiste nel concepire l’assoluto non come una sostanza ma
come un soggetto” così scrive nella sua opera più importante “Fenomenologia
dello spirito” che ricordiamo è la
storia romanzata della coscienza che via via si riconosce come spirito.
“Nella
mia filosofia tutto consiste nel concepire l’assoluto non come una sostanza ma
come un soggetto”
Quindi se l’assoluto, l’unica realtà
esistente, il tutto è un soggetto che diviene, vuol dire che c’è solo il
divenire. Di fronte al divenire non si contrappone più qualcosa di immutabile
che dà senso al divenire. Mai nella storia del pensiero occidentale era stato
detto che l’assoluto è diveniente, anzi si era sempre detto che l’assoluto è
l’immutabile. Nella tradizione giudaica cristiana l’assoluto (Dio) “è colui che è”. Hegel invece afferma
che esiste solo il divenire perché l’assoluto
stesso (Dio), questa unica realtà, è diveniente. Non c’è nulla di
immutabile.
Non c’è nulla di immutabile
L’essere è soggetto alla temporalità,
l’essere diviene, non c’è più l’eternità, c’è solo il tempo, come affermerà poi
Heidegger nella sua opera più importante “Essere e tempo”. Questa idea dominerà
tutto l’800 e il ‘900. Anche i detrattori di Hegel che ora vedremo, si
muoveranno comunque in questa prospettiva.
Un’altra dottrina fondamentale di
Hegel è quella dell’identità fra reale e razionale.
Identità di reale e razionale
Dio assoluto è l’unica realtà
esistente (monismo idealista). Questa unica realtà esistente è la ragione che
poi si estranea da sé e si fa storia.
L’unica realtà esistente è la
ragione
Tutto ciò che è reale, che ci sembra
essere la realtà, è una manifestazione di quest’unica ragione assoluta, di
quest’unica razionalità. Quindi tutto ciò che esiste essendo manifestazione di
Dio, essendo manifestazione dell’assoluto, essendo anzi l’assoluto che si è
estraniato da sé, è come deve essere. Non c’è più la distinzione fra l’essere e
il dover essere, ma tutto ciò che è, è come è, e non può essere diverso da come
è.
Tutto ciò che è, è come è, e non
può essere diverso da come è
Come quando io vedo la mia immagine
nello specchio, tutto della mia immagine, essendo una manifestazione di me, è
come deve essere.
Compito delle filosofia è quello
di
giustificare la realtà:
tutto ciò che esiste è come deve
essere
Il compito delle filosofia è per Hegel
quello di giustificare la realtà, perché se la realtà è Dio stesso, è una
manifestazione di Dio, significa che tutto ciò che esiste è come deve essere. A
questo si contrapporrà radicalmente Schopenhauer.
Ultimo concetto del pensiero hegeliano
è che “Il finito si risolve nell’infinito.
Il finito si risolve
nell’infinito
Per Hegel esiste solo Dio, l’unica
vera realtà è l’assoluto. Tutto ciò che esiste è parte di questa unità, è
manifestazione di questo unico soggetto che è l’assoluto. È come quando sogniamo,
di fatto produciamo una realtà, nel sogno. Tutto ciò che rappresentiamo nel
sogno è una manifestazione del pensiero. Se tutta la realtà è una
manifestazione di Dio, tutta la realtà è l’assoluto ed è solo apparentemente
reale. Ha senso solo nell’assoluto. Il finito, cioè i singoli, in realtà non
esistono, sono tutti strumenti nelle mani dell’assoluto che si serve di noi e
della storia per potersi autoriconoscere.
Arthur Schopenhauer (1788 – 1860)
Schopenhauer filosofo e aforista tedesco, uno dei maggiori
pensatori del XIX secolo, nonché di tutta la filosofia
occidentale moderna.
Arthur Schopenhauer nasce a Danzica da
Heinrich Floris, banchiere, e Johanna Henriette Trosiener, scrittrice. Alla
morte del padre avvenuta nel 1805 si stabilisce a Weimar con la madre. Viaggia
in Francia, Inghilterra, studia a Göttingen con Schulze e a Berlino con Fichte.
Nel 1811 si era trasferito a Berlino per frequentare i
corsi di filosofia. Persona dell'ingegno molteplice, sempre interessato ai più
diversi aspetti del sapere umano - dalla matematica alla chimica, dal
magnetismo all'anatomia fino alla fisiologia - consegue la laurea a Jena con
una tesi "Sulla quadruplice radice del principio di ragion
sufficiente". Pubblica nel 1818 la sua opera più importante, "Il
mondo come volontà e rappresentazione", che ha però scarsissimo successo. Ottiene
la libera docenza nel 1820 ma Schopenhauer è il filosofo antiaccademico per
eccellenza. Le sue lezioni sono seguite da pochi fedelissimi e talvolta l'aula
rimane deserta: c'è l'astro di Hegel che
oscura tutto e tutti. Da qui derivano il rancore e le velenose critiche per
quello che Schopenhauer definisce "grande ciarlatano".
Preferisce allora viaggiare sulle orme di Goethe, a Roma e
Napoli. Il successo gli arriderà solo a partire dal 1845.
La vera affermazione di questo pensatore si avrà dal
1851, con la pubblicazione del volume "Parerga
e paralipomena", inizialmente pensato come un completamento della
trattazione più complessa de "Il mondo come volontà e
rappresentazione", ma che verrà accolto come un'opera a sé stante, uno
scritto forse più facile per stile e approccio e che, come rovescio della
medaglia, avrà quello di far conoscere al grande pubblico anche le opere
precedenti di Schopenhauer.
Negli ultimi anni della sua esistenza è
circondato da una fedelissima cerchia di devoti tra i quali v'è il compositore Richard
Wagner. Tra gli altri che saranno
influenzati dal pensiero del tedesco vi sono Kierkegaard, Nietzsche,
Spengler, Bergson, Jaspers, Heidegger,
Horkeimer, Mann e Freud. Arthur Schopenhauer muore a causa di una pleurite il
21 settembre 1860 a Francoforte.
Reazione di Schopenhauer ad Hegel
Prima contrapposizione a Hegel è il
ricupero di Kant. L’idealismo infatti nasceva contrapponendosi a Kant e
Schopenhauer lo riprende. In particolare recupera il dualismo Fenomeno –
Noumeno e il mondo come mia rappresentazione.
Un
conto è la realtà come appare a noi “Fenomeno”, un conto è la realtà in sé
“Noumeno”. Per Kant tutte le volte che il pensiero o la ragione vuole andare oltre
i limiti dell’esperienza fa metafisica e con la metafisica non si può avere
scienza. Kant diceva poi che le cose esistono, che la realtà esiste, non è
riconoscibile, ma esiste. Non c’è solo il pensiero, ma ci sono anche le cose,
che noi non conosciamo in se stesse (noumeno), ma come appaiono a noi
(fenomeno). Il mondo quindi è una nostra rappresentazione. “Il
mondo come volontà e rappresentazione” è infatti l’opera maggiore di Schopenhauer.
Non utilizza le 12 categorie kantiane, ma solo lo spazio, il tempo e la casualità. L’impostazione di fondo è
comunque pienamente kantiana.
Schopenhauer
si contrappone all’idealismo che vede il mondo come prodotto del pensiero e
ripropone l’esistenza della realtà al di fuori di noi, c’è l’essere e il
pensiero è ricettivo, riceviamo i fenomeni del mondo, ma al contempo ripropone
e rintroduce nel pensiero occidentale molto del
pensiero orientale. Elementi del buddismo e dell’induismo sono presenti
nel suo pensiero anche in contrapposizione al cristianesimo. Infatti se per
Kant la nostra rappresentazione era causata dalle cose, che non conosciamo, ma
che esistono, per Schopenhauer le cose esistono ma sono come coperte da un velo
che ci rende difficile conoscerle veramente: il velo di Maya.
Nei Veda con il termine māyā si indica il potere da
cui ha origine il mondo materiale. In altre parole il mondo come ci appare è
come coperto da un velo che non ci permette di vederlo come davvero è.
Per Schopenhauer
esiste l’interrogativo: è possibile squarciare questo velo e vedere come il
mondo è davvero? Per Kant questo è impossibile, ma per Schopenhauer noi
possediamo una chiave d’accesso che ci permette di vedere al di là di questo
velo di Maya e vedere come il mondo è. Questa chiave d’accesso è il nostro
corpo. Il nostro corpo noi lo vediamo come vediamo un fenomeno, cioè come una
rappresentazione, come un oggetto fra gli altri oggetti. Noi però abbiamo il
privilegio di poter vivere il nostro corpo anche dal di dentro e cioè ne
percepiamo anche il noumeno “la cosa in sé”. Scopriamo allora che la vera
essenza di tutto il nostro essere è la volontà, la volontà di vivere. Una
manifestazione fisica di una volontà di vita. Questa volontà di vivere è poi di
fatto l’essenza di tutto il mondo. Tutta la realtà è in fondo una
concretizzazione fenomenica di una volontà di vita che procede inesorabilmente.
La
volontà di vivere è l’essenza di tutto il mondo
Il
mondo quindi è sì una rappresentazione, ma grazie al nostro corpo abbiamo
capito che tutta la realtà in verità è la manifestazione della vita che va
avanti. Tutto ciò che esiste è una manifestazione di volontà di vita.
Quali caratteristiche ha questa volontà che è la verità del
mondo? È inconscia, è una specie di energia vitale che procede e che va avanti
sempre comunque e inesorabilmente, ma lei non sa che esiste, non ne è
consapevole. Inoltre è unica e cieca, cioè non va da nessuna parte, non ha uno
scopo, non ha nessun senso, è irrazionale.
La
volontà di vivere è come un fiume in piena che procede inesorabilmente e
irrazionalmente. L’esatto contrario di Hegel che afferma che tutto ciò che è
reale è razionale, mentre per Schopenhauer
tutto ciò che è reale è in verità una volontà di vivere del tutto cieca e irrazionale e senza scopo.
Quali
conseguenze ci sono per la vita? La vita è dolore, la vita è sofferenza, l’uomo
prende consapevolezza di questo e soffre ancora di più. È la presa di coscienza
che la vita è dolore senza senso, che
l’essenza del mondo, la vera verità del mondo, è una volontà cieca,
irrazionale, senza senso, senza scopo.
Esiste
solo il divenire. “il grande Pan è morto”. La verità immutabile che può dare un
senso al divenire non c’è. Di fronte all’uomo c’è solo il divenire cieco e
irrazionale. La vita è essenzialmente dolore, perché manifestazione di una
volontà inappagata e che procede inesorabilmente senza senso, senza scopo,
senza meta, senza direzione, senza un perché. Si sente qui l’influenza del
buddismo che afferma le stesse cose e che predica il distacco dal mondo e dalle
sue passioni, desideri e affezioni per non soffrire inutilmente.
Schopenhauer
e Giacomo Leopardi
Schopenhauer è il filosofo che più ha
influenzato il grande Giacomo Leopardi come è più che mai evidente ne:
"Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia" (1829-1830)
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
[…]
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
[…]
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.
La
meta della vita per Schopenauer come per Leopardi è un abisso orrido dove
dimentichiamo tutto. La vita non ha un punto di arrivo, “il grande Pan è
morto”, non c’è quindi più direzione, non c’è più un “immutabile” che si contrappone
al divenire, c’è solo il divenire. Se il divenire è il tutto, se non esiste nient’altro
che il divenire, allora l’essenza, il nocciolo, il noumeno, la cosa in sé
deve venire inesorabilmente e inevitabilmente concepita come mancanza, bisogno,
insoddisfazione e c’è tendenza a colmare la mancanza e a soddisfare il bisogno,
ma questi non saranno mai appagati, il nulla non può appagare proprio niente.
La tendenza alla soddisfazione è inappagata, perché ogni ostacolo superato
scopre un nuovo ostacolo. La tendenza alla soddisfazione è continuamente
ostacolata anche perché ogni eventuale soddisfazione è comunque precaria, non
duratura (non definitiva). La vita è “una malattia mortale” come dimostra
l’ultima strofa della poesia del Leopardi. Se
allora la vita è dolore e sofferenza bisogna trovare dei farmaci, una salvezza,
una liberazione.
Il pessimismo storico di Leopardi
Dal secondo dopoguerra, il
pensiero di Leopardi assume una rilevanza filosofica.
La sua prima riflessione filosofica (1817-18) è influenzata dall'Illuminismo e da Rousseau. Leopardi affronta il suo tema centrale dell'infelicità umana. In questa prima fase, la natura è considerata un'entità positiva, non perchè essa dia all'uomo una condizione davvero felice, ma perchè produce delle illusioni. La civiltà però ha distrutto tali illusioni. L'infelicità non è un dato ontologico ma storico: si parla così di pessimismo storico. Per recuperare tali illusioni, occorrono azione ed eroismo.
La sua prima riflessione filosofica (1817-18) è influenzata dall'Illuminismo e da Rousseau. Leopardi affronta il suo tema centrale dell'infelicità umana. In questa prima fase, la natura è considerata un'entità positiva, non perchè essa dia all'uomo una condizione davvero felice, ma perchè produce delle illusioni. La civiltà però ha distrutto tali illusioni. L'infelicità non è un dato ontologico ma storico: si parla così di pessimismo storico. Per recuperare tali illusioni, occorrono azione ed eroismo.
La noia
Se finora si è rintracciata una
sostanziale analogia fra la filosofia leopardiana e quella schopenaueriana, le
due linee di pensiero divergono a proposito della concezione della noia. Per
Leopardi, infatti, la noia è prova della grandezza e della nobiltà dell’uomo,
in quanto segno di sproporzione tra la
nullità e l’insufficienza delle cose terrene e la grandezza del nostro
desiderio.
Le vie di liberazione
dal dolore
Liberarsi dal dolore vuol dire
liberarsi dalla vita e dalla sua condanna a soffrire e faticare per nulla fino
alla morte senza senso. Un primo farmaco semplice è quello che ci può dare
l’Arte.
L’Arte: quando noi contempliamo le opere d’arte ci eleviamo da
questa volontà di vivere ceca e irrazionale perché contempliamo delle essenze,
siamo elevati dal divenire. Questo farmaco è provvisorio e dura per il tempo in
cui dura la contemplazione.
La Pietà, cioè la solidarietà
con tutti gli esseri umani che soffrono, può dare un senso alla nostra vita, ma certo
non ci allontana dalla vita e dal suo nonsenso.
L’Ascesi è invece per Schopenauer il vero rimedio. Vivere in attesa della morte
cercando di soffrire il meno possibile, evitando cioè tutto ciò che la vita
offre di apparentemente positivo: passioni, affetti, desideri, procreazione, impegni
di qualsiasi genere ecc. e fermare questa vita senza senso quasi come un’opera
di “carità” nei confronti di chi, non nascendo, non soffrirà, quasi che la vita
fosse di fatto un inganno, un crimine che cerca di perpetuarsi all’infinito
(grazie alla Voluntas). La vita invece va troncata, fermata, bloccata perché è
l’essenza del dolore e il cui unico rimedio è la Noluntas, il non volere più
niente. Solo l’estraniazione totale dalla vita è la vera e propria cura.
Il
risultato di tutto questo ragionamento sembra inevitabilmente essere un invito
al suicidio. Non è questo quello che vuole Schopenauer, per lui il suicidio non
vuol dire rompere con la volontà di vivere, ma non accettare quel tipo di vita
che gli è toccata perché non l’ha soddisfatto e desiderarne un’altra così
fortemente da rischiare di non trovarla nemmeno dopo. Il pensiero di
Schopenauer è solo quello di troncare radicalmente con la volontà di vivere,
cieca e irrazionale e che è l’essenza del mondo.
Siamo
quindi completamente distanti o fuori da Hegel, ma di fatto anche Schopenauer (seppur
anti hegeliano) si muove dentro l’orizzonte di pensiero che Hegel ha aperto.
Tutta la contemporaneità non farà altro che muoversi dentro il concetto che
l’immutabile non c’è. Quando Nietzche dirà “Dio è morto” dirà una cosa che il
“cattivo maestro” Hegel aveva già detto settant’anni prima.
Søren Aabye Kierkegaard (Copenaghen, 1813–1855)
Questo filosofo, teologo e scrittore danese, il cui pensiero è da alcuni studiosi considerato punto
di avvio dell'esistenzialismo, è allo stesso tempo un ironico e un ammiratore ed avversario di
Socrate. Messosi sotto il doppio segno dell'eccezione e del paradosso ed
iscrivendosi in una rete complessa di corrispondenze sottili, il suo pensiero
inaugura nel XIX secolo un modo d'espressione paradossale e
altamente figurato, fino ad allora nuovo.
Nato
a Copenaghen nel 1813, era il beniamino di una famiglia di sette bambini; suo
padre aveva accumulato una fortuna immensa ma, temendo Dio, che aveva
precedentemente rinnegato, educò i suoi bambini nel terrore religioso.
Tuttavia, Kierkegaard condusse inizialmente una vita dissoluta, prima di
incontrare, nel 1837, Regina Olsen, che fu sua fidanzata fino al 1841.
Questa vicenda sentimentale divenne lo spartiacque della vita di
Kierkegaard e segnò un solco indelebile nella sua interiorità. Lo stesso anno,
prenderà la laurea in filosofia e, potendo godere delle rendite paterne,
si consegnerà a un combattimento senza requie contro la Chiesa ufficiale danese.
Il 20 ottobre 1855, s’accasciò per strada. Trasportato all'ospedale, morì l'11
novembre, in piena rottura con la religione stabilita. Non aveva che
quarantadue anni.
Un'opera
paradossale
La morte di Hegel, nel 1831, apre la via
a due tipi di contestazione della sua filosofia che nel frattempo è diventata
ufficiale. In effetti, dieci anni più tardi, nel 1841, due pensatori
d'eccezione sostenevano la loro tesi di dottorato in filosofia: Karl Marx, a Iena, sulla Differenza della filosofia della
natura da Democrito ed Epicuro, e Søren Kierkegaard, a Copenaghen, sul Concetto
d'ironia costantemente
riportato a Socrate.
Questi due pensatori così radicalmente
diversi avevano sottotraccia lo stesso riferimento, Hegel, e lo stesso
obiettivo: l'inversione critica del sistema hegeliano. Ma, mentre l'opera di
Marx, diretta contro l'idealismo di Hegel, in nome “del materialismo storico”,
andava a dare nascita alle diverse forme di marxismo, quella di Kierkegaard,
che fronteggiava, facendo perno sull’irriducibilità soggettiva dell’esistenza,
il razionalismo e l'oggettività di Hegel, doveva restare, sotto
ogni riguardo, totalmente eccezionale e marginale, almeno fino
all’avvento dell'esistenzialismo del secolo successivo.
Kierkegaard
è un autore isolato e deliberatamente paradossale,
nel senso più forte di questo termine. Tutta centrata sull'esistenza del
soggetto singolare ed unico, l'opera di Kierkegaard è consegnata dal suo autore
ad una folla di anonimi firmatari. Eccetto la sua tesi di dottorato ed alcuni
discorsi pubblici, il filosofo danese non ha firmato col suo nome alcuno dei
suoi testi principali, per i quali inventa una serie di pseudonimi. Ciascuno di
questi personaggi fittizi, diversi ed a volte opposti, rappresenta un aspetto
di Kierkegaard.
Il pensiero di
Kierkegaard
Kierkegaard è collocato di diritto fra gli antihegeliani, anche
se il clima in cui lui si forma è prettamente hegeliano, perché la sua
filosofia è un attacco a questa filosofia hegeliana che tutto comprende e che
tutto annienta. Questa dialettica che di fatto fa evaporare il soggetto, che
dipinge la realtà del singolo come un semplice ingranaggio di un meccanismo
efficiente che va avanti indipendentemente dalla nostra volontà e dentro il
quale non siamo affatto liberi, non piace proprio a Kierkegaard.
Egli vuole invece ribadire che l’unica categoria vera
dell’esistenza è il singolo. È l’unica categoria attraverso la quale si
realizza la storia, l’umanità, quella irriducibile specificità di cui ogni
individuo è fatto.
L’unica categoria vera dell’esistenza è
il singolo
Hegel viene attaccato perché in lui si riconosce una specie
di retaggio pagano nel quale si ritiene che in fondo ogni uomo è come un
animale. Nel regno degli animali è la specie che è superiore al singolo
individuo, ma nel regno umano è il singolo che è superiore alla specie, è
superiore all’umanità tutta intera. L’uomo coglie la verità interiormente,
soggettivamente. La ricerca della verità è un processo soggettivo. È il singolo
che si rapporta con la verità.
Attenzione,
però, non siamo di fronte ad un banale relativismo nel quale ognuno ha la sua
versione del bene e il diritto a perseguirla. Ma siamo di fronte alla
constatazione che la verità è qualcosa che io godo dentro di me, è un processo
soggettivo, del singolo. Il singolo si rapporta alla verità, il singolo si
rapporta a Dio. A Dio ci si rapporta da soli, non si va insieme a Dio. C’è
solitudine quando si parla di Dio.
Questa
esaltazione del singolo si realizza nella nostra possibilità di essere, di
esistere. Che cos’è l’esistenza se non la possibilità di essere, di scegliere
di essere qualcosa.
Kant
a questo proposito diceva che la possibilità era la nostra piena realizzazione,
sempre ovviamente nel recinto che gli illuministi avevano posto a salvaguardia
di solo ciò che poteva essere dimostrato scientificamente.
Kierkegaard prende il concetto di possibilità in senso negativo. Nella vita esiste sì
la possibilità che essa si realizzi, ma esiste altresì la possibilità che non
si realizzi, la possibilità del fallimento, cioè che la nostra esistenza non si
realizzi per niente. Questa possibilità del fallimento, questa possibilità di non
farcela, che non si realizzi la nostra esistenza è di fatto la minaccia del
“nulla”.
La nostra vita personale, cioè del singolo, la si vive
nell’esistenza. Siamo sempre di fronte a delle scelte, ma non è facile
scegliere. Questa sorta di vertigine che io provo di fronte ad una scelta, è un
sentimento dice Kierkegaard, un sentimento fondamentale che chiama l’angoscia.
L’angoscia comunque è un sentimento nobile, più l’angoscia è grande, più l’uomo
è profondo. L’angoscia è qualcosa che ci spinge, in questo paradosso che è la
nostra vita nella quale non sappiamo cosa scegliere, ma dobbiamo scegliere.
Questo è il punto zero dal quale dobbiamo partire. L’angoscia è diversa dalla
paura, l’angoscia ci stimola, la paura ci blocca. “Si ha sempre paura di qualcosa
ci si angoscia per nulla” dice Kierkegaard. Dobbiamo allora imparare
da questa angoscia che ci fa muovere e ci obbliga a fare delle scelte e non ci
lascia fermi, ma che non ci blocca. Entriamo così negli “stadi dell’esistenza”.
Essi sono dei modo di vivere, sono scelte della mia vita in cui io cerco di
vivere in un certo modo.
Stadi dell’Esistenza
Questi stadi non sono stadi
evolutivi, uno conseguente all’altro, ma stadi senza connessione fra di loro,
anzi fra di loro c’è un abisso. Si può passare da uno stadio all’altro solo
negando il precedente, saltando cioè l’abisso che li separa. L’opera nella
quale Kierkegaard parla di
questo si intitola “Aut-Aut” o questo
o quello, uno esclude l’altro, nessuna continuità fra gli stadi.
Il primo stadio è simboleggiato dal don Giovanni (l’esteta),
il secondo dal buon padre di famiglia, ed infine il terzo il patriarca Abramo.
Lo stadio estetico. Chi è colui che vive nello stadio estetico? È colui che
vive la vita nella sua immediatezza, nel suo carattere fuggevole,
nell’irripetibilità dell’attimo, che bandisce dalla sua vita la banalità, la
meschinità, ciò che non è interessante, che vive la vita ad un livello
eccezionale, che non si accontenta di piaceri smodati, ma che è sempre alla
ricerca di bisogni e di desideri appaganti e sempre più forti e senza fermarsi
mai di fronte a niente. Coloro cioè che vivono la loro esistenza nella ricerca
di un piacere sempre nuovo, come nel “diario
di un seduttore”: il don Giovanni.
Come se ne esce, se se ne esce?
Nella constatazione dell’impossibilità pratica di soddisfare desideri sempre
più nuovi e autentici e nella corrispettiva impossibilità di trovare un senso alla
propria vita veramente appagante. L’esteta infatti è chi si rifiuta di fare
scelte stabili, definitive, durature. Questo porta l’esteta a fare l’esperienza
di un sentimento che si chiama “disperazione”, che è una malattia mortale, che
è vivere la morte dell’io, cioè il rendersi conto che non siamo
autosufficienti, che la nostra vita non ha senso, che la nostra vita è un
fallimento.
Lo Stadio Etico. Kierkegaart afferma
che a questo punto l’uomo “sceglie di disperarsi” e di saltare direttamente
dalla parte opposta dello stadio in cui è, lo stadio etico. Questo stadio etico
è rappresentato dal padre di famiglia che sceglie una vita stabile e continua,
che assume su di sé la responsabilità della sua vita e di quelli dalla cui vita
dipendono, che riafferma la fedeltà di se stesso, che accetta di sottomettersi
ad uno schema universale, che rifiuta il desiderio di essere stupefacente, che
sceglie la via della normalità. Lo stadio etico è quello normale, quello di
tutti, è quello della vita dell’uomo che riafferma se stesso.
Ma per Kierkegaard non basta essere persone rette, all’uomo
che vive nello stadio etico manca una cosa: manca la sua realizzazione piena e
profonda, manca la realizzazione di quell’ansia di infinito, di quella tensione
verso Dio. Dio che è l’unica scelta nella quale l’uomo può trovare la sua
realizzazione.
Di fatto sia lo stadio estetico che
quello etico, portano alla disperazione perché manca ad entrambi il senso della
propria esistenza.
Lo Stadio Religioso. Serve allora fare un ulteriore salto verso lo
stadio religioso, che è un vero salto, non è una conseguenza cronologica, non
c’è continuità, ma è un salto a piè pari che può venire anche da uno stato
estetico. Il salto nella fede è un salto che rifiuta l’idea rassicurante della
ragione. Kierkegaard non sopportava di Hegel la presunzione di far diventare la
filosofia una scienza.
La filosofia rassicurante che ci spiega la realtà, l’èpisteme, ciò che
scopro della realtà, ciò che spiega la realtà. Kierkegaard
rifiuta ogni schema, anche se ben costruito, entro il quale ci si vuol fare
entrare. Rifiuta anche decisamente la teologia razionale della religione
cristiana, che chiamava la “cristianità costituita” o stabilita. Il
cattolicesimo è visto come una forma di cristianità che è come un contenitore
entro il quale ci si accomodava, ci si adeguava e ci si rassicurava. Ma la vita
di per sé non è rassicurante, è insicurezza, angoscia. Nasce qui il rifiuto che
l’uomo possa controllare con la ragione la realtà e quindi controllare e conoscere
Dio. La ragione non serve per fondare la mia fede. Serve allora la totale
fiducia del rischioso salto verso Dio.
Lo stadio religioso è l’incontro con
l’Assoluto. Incontro però nell’intimità privata. Da Dio non ci si va in coro o
in gruppo. Da Dio ci si va da soli. La fede viene definita come il dominio
della solitudine. Siamo di fronte al rifiuto di tutto ciò che è razionale.
Tutto viene da Dio, anche la possibilità di conoscere Dio, viene da Dio, la
nostra fede viene da Dio, noi non possiamo nulla. Siamo davanti al paradosso
che dovremmo scegliere, ma in fondo non possiamo. Di Dio ci salva solo la
Grazia. Questo non ci salva dall’angoscia, anzi l’angoscia è la misura della
nostra fede. La fede è una certezza angosciosa, cioè non ci fa superare
l’angoscia. Nella fede c’è proprio l’idea del paradosso, dello scandalo. Lo
scandalo di Dio che si fa uomo per farsi uccidere dall’uomo che Lui viene a
salvare. Il paradosso di un Dio che vince il male morendo in mezzo a mille
dolori. Il paradosso che Dio manifesti la sua gloria crocifisso come uno
schiavo ribelle su di una croce. Tutto il cristianesimo è un paradosso e
rispecchia perfettamente la nostra esistenza. Quale immagine migliore, se non
l’immagine di Abramo, per spiegare che lui non sceglie la rassicurante via
della ragione, non sceglie la altrettanto rassicurante via dell’etica. La
religione è un uscire fuori dallo stadio dell’etica perché Dio fa fare cose che
contrastano con l’etica, che non sono morali. La fede è un salto cieco, non c’è
continuità tra l’etica e Dio.
Il nostro incontro con Dio, la vita
nella fede, l’incontro assoluto con l’Assoluto, rappresenta la forma autentica
dell’esistenza finita. L’unica forma che abbiamo, la più vera, la più autentica.
Ma è una scelta rischiosa, la fede è un rischio, la fede è una certezza
angosciosa. Siamo rimessi totalmente nelle mani di Dio.
C’è un evidente distacco dalla
tradizione cristiana, Kierkegaart
va al di là di quanto concepito tradizionalmente, cioè la teologia razionale. Non ci sono vie di accesso o vie di
dimostrazione di Dio, ed è per questo che Dio non è più evidente a chi lo ha
conosciuto, per esempio agli apostoli. Dio è sempre evidente perché l’evidenza
non dipende dalla mia mente, non dipende dalla ragione, dipende dalla mia
angoscia, dal desiderio che ho di scegliere la mia strada, la mia strada più
autentica, quella che mi permette di trovare un senso. Il senso me lo può dare
solo Colui dal quale provengo.
Commento
di don Claudio Crescimanno
La prima grande,
evidente e drammatica contraddizione di questi pensatori tedeschi è che per affermare
un assoluto nuovo, utilizzano il primato del divenire sull’essere, uccidendo
sul nascere l’assoluto che vogliono affermare. L’assoluto che si vuole
affermare e al quale si vuole dare, già a partire da Hegel, argomenti per
aprire una nuova era di pensiero, viene subito violentemente divorato dal divenire
che si vuole considerare come l’unica e vera realtà esistente.
Affermazione e
contemporanea contraddizione tutta tedesca che galleggia in una mentalità che
non conosce l’autoironia e che gli altri non prendono sul serio accorgendosi
poi troppo tardi delle tremende conseguenze.
Il secondo
grande paradosso è il primato del soggetto che domina la realtà, anzi che
produce la realtà. Non esiste nulla se non ciò che è percepito, sentito,
capito, visto dal soggetto. Ma come si risolve poi questo se non in una
concentrazione autoreferenziale, continuamente autoreferenziale, sul problema della
conoscenza. In realtà non esiste né il soggetto né l’oggetto. Tutto il problema
è un problema gnoseologico, cioè un problema conoscitivo. In altre parole la
metodologia fa un solo boccone dei due termini, cioè rimane l’incontro, ma non
gli elementi di questo incontro. Esiste solo la metodologia.
Certamente il
passaggio dal mondo antico classico medioevale, frutto di più di duemila anni
di costruzione appassionata, ad un mondo nuovo che si tenta di costruire è
certamente ancora in alto mare. Hegel ha dato una sua ricetta, un complesso
immenso e affascinante del pensiero al quale sono succeduti discepoli e
contestatori, ma resta il fatto che la nuova ricostruzione del pensiero
occidentale è ancora molto lontana dall’essere compiuta.
Appendice
Nel 1969 – quando era
ancora cardinale – Joseph Ratzinger scrisse un libro dal titolo “Introduzione al cristianesimo” (ed. Queriniana),
divenuto in brevissimo tempo un bestseller per la teologia contemporanea. Tra
le prime pagine di questo testo-capolavoro (giunto oggi alla diciannovesima
ristampa e tradotto in 17 lingue) Ratzinger racconta un celebre apologo di S.
Kierkegaard che vale la pena di rileggere.
“La storiella è
interessante. Narra come un circo viaggiante in Danimarca fosse un giorno
caduto in preda ad un incendio. Ancora mentre da esso si levavano le fiamme, il
direttore mandò il clown già abbigliato per la recita a chiamare aiuto nel
villaggio vicino, oltretutto anche perché c’era pericolo che il fuoco,
propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi aridi, s’appiccasse
anche al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando i
paesani ad accorrere al circo in fiamme, per dare una mano a spegnere
l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un
astutissimo trucco del mestiere, tendente ad attrarre la più gran quantità
possibile di gente alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino
alle lacrime. Il povero clown aveva più voglia di piangere che di ridere; e
tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non
si trattava affatto d’una finzione, d’un trucco, bensì d’una amara realtà,
giacché il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro
che intensificare le risate: si trovava che egli recitava la sua parte in
maniera stupenda… La commedia continuò così, finche il fuoco s’appiccò
realmente al villaggio, ed ogni aiuto giunse troppo tardi: sicché villaggio e
circo andarono entrambi distrutti dalle fiamme”.
Questo racconto, e
l’immagine che esso propone, è ancora oggi di grandissima attualità. Il
cristiano, infatti, chiamato a testimoniare il Vangelo di Cristo, rimane spesso
inascoltato perché, come nel caso del clown, egli risulta – agli occhi del
mondo – “incapace di portare il suo messaggio ad essere veramente ascoltato
dagli uomini […]. Anche lui infatti paludato com’è nei suoi abiti da pagliaccio
tramandatigli dal medioevo o da chissà quale passato, non viene mai preso sul
serio. Può dire quello che vuole, ma è come avesse appiccicata addosso
un’etichetta, come fosse inquadrato nella sua parte di commediante. Comunque si
comporti, qualsiasi gesto faccia per presentare la serietà del caso, tutti
sanno già in partenza che egli è appunto solo un povero clown. Si sa già di che
cosa parli, si conosce già in partenza che offre solo una rappresentazione
fantastica, la quale ha poco o nulla da spartire con la realtà. Lo si può
quindi ascoltare con animo sollevato, senza esser obbligati ad inquietarsi
seriamente per quello che dice”.
Vi è un lavoro anche
in questo: bisogna spezzare i luoghi comuni dei nostri parametri mentali,
rendere il messaggio cristiano fruibile a tutti e, soprattutto, accompagnarlo
con una adeguata, coerente e corrispondente testimonianza di vita! ( Michelangelo Nasca16 aprile 2013)
Non di solo “benessere” vive l’uomo – J. Ratzinger
L’unica realtà esistente è la ragione dice Hegel
E allora ragioniamo.
Forse c’è bisogno di sperimentare
fino in fondo lo sfacelo causato dall’ateismo per poter di nuovo scoprire per
davvero quanto sia inestirpabile e irrinunciabile il grido che dall’uomo sale
verso Dio; per accorgersi infine nuovamente che l’uomo non vive affatto di solo
pane, e che egli non è ancora sufficientemente redento per il fatto di godere
d’uno stipendio, che gli permetta di possedere tutto ciò che desidera, e di una
libertà che gli consente di fare tutto ciò che vuole.
Solo allora egli si accorgerà che
di per sé sola, la libertà non rende “liberi”: e che con il “possedere”
incomincia il vero problema, quello dell’”essere”. E noterà anche che egli ha
bisogno di qualcosa che il capitalismo occidentale è in grado di offrirgli
tanto poco quanto il marxismo, che solo apparentemente prospetta una meta più
alta e contenuti più validi, ma che alla fine non realizza altro che la
promessa di una comune uguaglianza nel benessere, distribuendo a tutti il pane;
e però abbandonando l’uomo a se stesso, proprio là dove inizierebbe la sua vera
umanità.
No, la Fede non può divenire
“superflua”. Essa resta necessaria tanto quanto il pane quotidiano. Perciò per
i cristiani valgono allo stesso modo sia l’imperativo di “moltiplicare” il pane
(“Date loro da mangiare” dice Gesù
nel Vangelo), sia l’affermazione “non di
solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”, con
la quale il Signore respinge la tentazione diabolica di ridurre il
cristianesimo in una dimensione sociale, politica o economica facendone un
“ente assistenziale”. (Tratto da un articolo dell’Arcivescovo di Monaco di
Baviera J. Ratzinger “Die Situation der
Kirche heute. Hoffnungen und Gefahren – 1977)
La
rete di protezione della società civile –
J. Ratzinger
La rete di cui parla il vangelo è
in primo luogo immagine del regno di Dio, gettato nel “mare” del tempo e della
storia per sollevare l’uomo dall’abisso del silenzio, dell’oscurità,
dell’inutilità, aprendogli un’altra dimensione, cioè “il regno della giustizia,
dell’amore e della pace”. Questo “regno” è già qui, come una “rete che ci
raccoglie insieme; ma è, in un certo senso, “prima” ancora che atto di pura e
semplice raccolta, come un movimento, un gesto che ci solleva verso l’alto e ci
inonda di luce.
Anche la Chiesa “è una rete”:
essa ha “per filo lo Spirito Santo, per trama la missione apostolica”; ed è
“efficace in virtù dell’unità della fede, della vita e dell’amore”. Questa
espressione del Santo Padre (Giovanni Paolo II) è davvero molto bella e
luminosa. Proseguendo egli ha fissato lo sguardo sulla più piccola, e al tempo
stesso insostituibile porzione della Chiesa che è la famiglia; dice la
tradizione: la “chiesa domestica”, la Chiesa in miniatura. Il papa ci ha
ricordato che anche la famiglia “è una rete”: che “custodisce e unisce”, e
“strappa alle correnti degli abissi”.
Poi da lui è venuto un appello
accorato: “non permettiamo che questa rete si strappi!”. Sono parole che
volentieri vorrei richiamare come orientamento e guida per quest’anno, perché
risuonino forti e giorno dopo giorno si facciano sentire nelle nostre case,
nella società e nelle istituzioni: “non permettiamo che questa rete si
strappi!”. (Tratto dall’articolo di J. Ratzinger: “Zeitfragen und christlicher
Glaube” 1983)
La
rete si sta strappando e costringe Joseph Ratzinger in data 2 giugno 2003, a redigere e
sottoscrivere, nella sua qualità di Prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede, un documento intitolato “Considerazioni circa i
progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali” del
quale riportiamo il punto 10.
«Se tutti i fedeli sono tenuti ad opporsi al
riconoscimento legale delle unioni omosessuali, i politici cattolici lo sono in
particolare, nella linea della responsabilità che è loro propria. In presenza
di progetti di legge favorevoli alle unioni omosessuali, sono da tener presenti
le seguenti indicazioni etiche.
Nel caso in cui si proponga per la prima volta
all'Assemblea legislativa un progetto di legge favorevole al riconoscimento
legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale
di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il
progetto di legge. Concedere il suffragio del proprio voto ad un testo
legislativo così nocivo per il bene comune della società è un atto
gravemente immorale.
Nel caso in cui il parlamentare cattolico si
trovi in presenza di una legge favorevole alle unioni omosessuali già in
vigore, egli deve opporsi nei modi a lui
possibili e rendere nota la sua opposizione: si tratta di un doveroso atto di
testimonianza della verità. Se non fosse possibile abrogare completamente una
legge di questo genere, egli, richiamandosi alle indicazioni espresse
nell'Enciclica Evangelium vitae, “potrebbe lecitamente offrire il proprio
sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne
gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica”, a
condizione che sia “chiara e a tutti nota” la sua “personale assoluta
opposizione” a leggi siffatte e che sia evitato il pericolo di scandalo.
Ciò non significa che in questa materia una legge più restrittiva possa essere considerata come una legge giusta o almeno accettabile; bensì si tratta piuttosto del tentativo legittimo e doveroso di procedere all'abrogazione almeno parziale di una legge ingiusta quando l'abrogazione totale non è possibile per il momento».
Ciò non significa che in questa materia una legge più restrittiva possa essere considerata come una legge giusta o almeno accettabile; bensì si tratta piuttosto del tentativo legittimo e doveroso di procedere all'abrogazione almeno parziale di una legge ingiusta quando l'abrogazione totale non è possibile per il momento».
Una volta caduta la linea Maginot del
riconoscimento legale delle unioni civili omosex, il resto è inevitabile: uteri
in affitto, fecondazione extracorporea, adozione per coppie gay, teorie Gender
propinate ai nostri figli a scuola, ecc. cioè distruzione della famiglia, e del suo legame principale l’amore, e sua
sostituzione con l’egoistico soddisfacimento dei propri desideri più scellerati,
per non parlare dell’aborto e dell’eutanasia.
La Dottrina sociale della Chiesa e la Politica
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista a monsignor Gianpaolo
Crepaldi, arcivescovo di Trieste e presidente dell'Osservatorio Van Thuan sulla
Dottrina sociale della Chiesa, apparsa sul numero di Febbraio 2016 del mensile
Il Timone (www.iltimone.org).
Eccellenza, c’è chi dice che i cattolici
in politica non ci siano più? È anche lei di questo parere?
Non sono di questo parere, però è vero
che, se ci sono, si vedono poco e in modo confuso. La visibilità cattolica in
politica può essere di due tipi: personale, quando si sa che quel politico è
cattolico, egli stesso lo dichiara e mantiene evidenti rapporti con la Chiesa;
comunitaria, quando i cattolici agiscono uniti ed elaborano, nella loro
autonomia di laici, strategie politiche che partano da una visione cattolica
delle cose.
Può spiegare la distinzione iniziale tra
visibilità individuale e visibilità comunitaria?
Una volta stabilito che i cattolici impegnati in politica devono vedersi, perché altrimenti la loro non sarebbe testimonianza di fede, bisogna riconoscere che senza una visibilità comunitaria anche quella individuale tende a ridursi solo a coerenza morale personale. Abbiamo così politici che, pur coerenti con la loro morale personale, fanno scelte politiche che contrastano con la dottrina della Chiesa e, non di rado, con la stessa legge morale naturale. Il bene comune lo si fa in comune, ossia strettamente uniti sui principi fondamentali dell’impegno politico che la Chiesa ha sempre insegnato, soprattutto da quando ha cominciato ad elaborare una organica Dottrina sociale.
Una volta stabilito che i cattolici impegnati in politica devono vedersi, perché altrimenti la loro non sarebbe testimonianza di fede, bisogna riconoscere che senza una visibilità comunitaria anche quella individuale tende a ridursi solo a coerenza morale personale. Abbiamo così politici che, pur coerenti con la loro morale personale, fanno scelte politiche che contrastano con la dottrina della Chiesa e, non di rado, con la stessa legge morale naturale. Il bene comune lo si fa in comune, ossia strettamente uniti sui principi fondamentali dell’impegno politico che la Chiesa ha sempre insegnato, soprattutto da quando ha cominciato ad elaborare una organica Dottrina sociale.
A proposito dei cattolici presenti in
Parlamento, si è pensato a lungo che essi potessero militare in tutti i
partiti, per poi convergere uniti su leggi ad alta rilevanza etica, come quelle
riguardanti la famiglia e la vita. Ritiene ancora valido questo schema?
Credo che questo schema, se mai sia
esistito come paradigma strategico piuttosto che come adeguamento non voluto
alla realtà dei fatti, non sia oggi più agibile. Non perché quella convergenza
non sia auspicabile, ma perché i fatti ci dimostrano che non viene mai attuata.
Le recenti prese di posizione sul disegno di legge Cirinnà lo ha ulteriormente
dimostrato. Questa legge sembrava essere, a detta di molti degli stessi
parlamentari sedicenti cattolici, il limite non oltrepassabile ed invece è
stata oltrepassata.
Si tratta solo di tattica politica o
anche di carenza di visione?
I numeri in politica contano molto.
Deputati dichiaratamente cattolici ce ne sono pochi in questo Parlamento e, tra
costoro, molti dicono di esserlo ma si riservano poi un’ampia discrezionalità
di scelte senza troppo farsi condizionare dalle indicazioni della morale
cattolica o della dottrina sociale della Chiesa o degli appelli del magistero.
Una piccola pattuglia può fare certamente ben poco. Però credo che il problema
non sia solo quantitativo. C’è una buona dose di confusione di pensiero. Certi
cedimenti alla legge Cirinnà, anche su punti profondamente in contrasto con la dignità
della persona umana, hanno evidenziato una carenza di pensiero e, soprattutto,
l’idea che la fede cattolica non possa – pena diventare ideologia – produrre
una visione organica e coerente, una vera e propria cultura sociale e politica.
Essa produrrebbe solo istanze moraleggianti, spinte verso una testimonianza di
carità non ben precisata, ma non un sistema di pensiero e una coerente visione
dei nostri doveri verso il bene comune. Si pensa che Dio dia solo consigli o
proponga solo ideali
Oggi, la dottrina sociale della Chiesa
che momento sta vivendo nella nostra Chiesa e nel nostro Paese?
Il pastoralismo a cui ho accennato e che
avrebbe bisogno di ben altri approfondimenti, la mette in difficoltà. Perché
per esso tutto ciò che sa di dottrinale, di culturale, di teorico impedisce
l’incontro pastorale col bisognoso. Come se la fede fosse solo un agire e non
anche un pensare. Mi chiedo, però: come discernere i bisogni veri da quelli
falsi, senza una visione delle cose che nasce dalla fede e dalla ragione? Con
buone intenzioni spesso i cattolici, nell’ansia pastorale di incontrare i
bisognosi, operano per cause sbagliate e fanno danni, creando nuovi disagi.
Inoltre vengono distolti dai problemi di struttura e di buona organizzazione
della vita pubblica per concentrarsi solo su forme corte di solidarietà. Si fa
del bene anche impegnandosi per leggi giuste o politiche adeguate, ma come
farlo senza una visione complessiva delle cose che la dottrina sociale della
Chiesa offre?
Opere
sociali non cattoliche
Opere sociali e benefiche per pura
filantropia (o per mascherare interessi politici) ce ne sono molte e si distinguono
da quelle della Chiesa Cattolica perché non sono “opere di Misericordia” fatte
per amore di Dio e dei fratelli più bisognosi, cioè da credenti che
testimoniano così la loro fede in Dio e nella sua Provvidenza. Un classico
esempio è Madre Teresa di Calcutta che, come altri santi fondatori di opere di
misericordia, rendono il messaggio cristiano fruibile a tutti proprio perchè
accompagnato con una adeguata, coerente e corrispondente testimonianza di vita! Testimonianza di vita che non deriva tanto
dal fare o dal predicare, ma da ogni parola che esce dalla bocca di Dio, cioè
dalla meditazione del Vangelo e dalla intensa e umile preghiera e sobrietà di
vita che rende il fare, cioè le opere, vera testimonianza dell’amore di Dio per
gli uomini, cosa per la quale siamo stati creati e messi nel mondo.
Queste che seguono sono opere molto
note, ma non tutti sanno che sono di matrice massonica e che sono sì dignitose
ed encomiabili in tutto ciò che appare alla luce del sole, ma che nel buio
della gestione del potere sperimentano farmaci su bambini e malati dei loro
ospedali, diffondono mezzi contraccettivi ed abortivi, decidono autonomamente
l’eliminazione di feti sospetti, sperimentano manipolazioni genetiche, ecc.
Dal sito: http://www.loggiagiordanobruno.com/opere-umanitarie-e-sociali-della-massoneria
ne ricaviamo alcune fra le più finanziate dai governi e quindi più influenzanti
i gruppi di potere che di fatto governano le moderne democrazie:
L’O.N.U.: Nel 1917 a Parigi si adunarono le Massonerie di tutte le nazioni
alleate, e fondarono la Società delle
Nazioni, il cui scopo era di sostituire alla logica del cannone quella del
dialogo. Nel secondo dopoguerra questa istituzione fu rifondata col nome di
O.N.U. e da essa derivarono importanti e costose istituzioni, con lo stesso
spirito (non certo lo Spirito Santo) quello massonico: lotta alla fame (FAO)
mai risolto, lotta alla disoccupazione (Bit) mai risolto, lotta all’analfabetismo
(UNESCO) mai risolto, protezione dell’infanzia (UNICEF) mai
risolto, pro distensione atomica (AICA), interventi in difesa degli
oppressi, dei perseguitati dei profughi (AMNESTY) mai risolto, anzi
oggi ha di fatto abbandonato questa sua “mission” dedicandosi ai così detti
“diritti civili” che sarebbe più logico chiamarli “incivili”. .
Il Rotary Club, associazione di uomini di affari e professionisti, fu
fondato nel 1905 dall’avvocato statunitense Paul P. Harrys,
massone. Scopo del Rotary è di farsi promotore di una nuova moralità che si
collochi al di sopra e al di fuori di ogni concezione religiosa, e non sia
dipendente da alcun partito ed abbia carattere universale, ma che fornisca una
solida protezione agli affari dei consociati.
I Lions Internazional, associazione fondata a Dallas nel 1917, da Melvin
Jones, massone, membro della Garden City Lodge N.141, Chicago, Illinois: ha
per scopo di creare e stimolare uno spirito di comprensione fra i popoli del
mondo; promuovere i principi di buon governo e di buona cittadinanza; prendere
attivo interesse al bene civico, culturale, sociale e morale della comunità e
salvaguardare gli interessi dei consociati.
Per chi volesse approfondire questo argomento può consultare
il sito:
http://www.quieuropa.it/massoneria-profetica-maledizione-di-don-bosco-del-1855-e-visione-di-padre-pio-del-1913/ e il libro di Massimo
Introvigne: “La Massoneria” Elle Di Ci, Leumann 1997.
Articolo
apparso su L'Osservatore Romano del 23 febbraio 1985
Il 26 novembre 1983 la
Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicava una dichiarazione sulle associazioni massoniche
(cfr AAS LXXVI [1984] 300).
A poco più di un anno di distanza dalla sua pubblicazione può essere utile illustrare brevemente il significato di questo documento.
A poco più di un anno di distanza dalla sua pubblicazione può essere utile illustrare brevemente il significato di questo documento.
Da quando la Chiesa ha
iniziato a pronunciarsi nei riguardi della massoneria il suo giudizio negativo
è stato ispirato da molteplici ragioni, pratiche e dottrinali. Essa non ha
giudicato la massoneria responsabile soltanto di attività sovversiva nei suoi
confronti, ma fin dai primi documenti pontifici in materia e in particolare
nella Enciclica "Humanum Genus" di Leone XIII (20 aprile
1884), il Magistero della Chiesa ha denunciato nella Massoneria idee
filosofiche e concezioni morali opposte alla dottrina cattolica. Per Leone XIII
esse si riconducevano essenzialmente a un naturalismo razionalista, ispiratore
dei suoi piani e delle sue attività contro la Chiesa. Nella sua Lettera al
Popolo Italiano "Custodi" (8 dicembre 1892) egli scriveva:
"Ricordiamoci che il cristianesimo e la massoneria sono essenzialmente inconciliabili,
così che iscriversi all’una significa separarsi dall’altra".
Non si poteva pertanto
tralasciare di prendere in considerazione le posizioni della Massoneria dal
punto di vista dottrinale, quando negli anni 1970-1980 la S. Congregazione era
in corrispondenza con alcune Conferenze Episcopali particolarmente interessate
a questo problema, a motivo del dialogo intrapreso da parte di personalità
cattoliche con rappresentanti di alcune logge che si dichiaravano non ostili o
perfino favorevoli alla Chiesa.
Ora lo studio più
approfondito ha condotto la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede a
confermarsi nella convinzione dell’inconciliabilità di fondo fra i principi
della massoneria e quelli della fede cristiana.
Prescindendo pertanto
dalla considerazione dell’atteggiamento pratico delle diverse logge, di
ostilità o meno nei confronti della Chiesa, la Sacra Congregazione per la
Dottrina della Fede, con la sua dichiarazione del 26.11.83, ha inteso
collocarsi al livello più profondo e d’altra parte essenziale del problema: sul
piano cioè dell’inconciliabilità dei principi, il che significa sul piano della
fede e delle sue esigenze morali.
A partire da questo
punto di vista dottrinale, in continuità del resto con la posizione
tradizionale della Chiesa, come testimoniano i documenti sopra citati di Leone
XIII, derivano poi le necessarie conseguenze pratiche, che valgono per tutti
quei fedeli che fossero eventualmente iscritti alla massoneria.
A proposito
dell’affermazione sull’inconciliabilità dei principi tuttavia si va ora da
qualche parte obiettando che essenziale della massoneria sarebbe proprio il
fatto di non imporre alcun "principio", nel senso di una posizione
filosofica o religiosa che sia vincolante per tutti i suoi aderenti, ma
piuttosto di raccogliere insieme, al di là dei confini delle diverse religioni
e visioni del mondo, uomini di buona volontà sulla base di valori umanistici
comprensibili e accettabili da tutti.
La massoneria
costituirebbe un elemento di coesione per tutti coloro che credono nell’Architetto
dell’Universo e si sentono impegnati nei confronti di quegli orientamenti
morali fondamentali che sono definiti ad esempio nel Decalogo; essa non
allontanerebbe nessuno dalla sua religione, ma al contrario costituirebbe un
incentivo ad aderirvi maggiormente.
In questa sede non
possono essere discussi i molteplici problemi storici e filosofici che si
nascondono in tali affermazioni. Che anche la Chiesa cattolica spinga nel senso
di una collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, non è certamente
necessario sottolinearlo dopo il Concilio Vaticano II. L’associarsi nella
massoneria va tuttavia decisamente oltre questa legittima collaborazione e ha
un significato ben più rilevante e determinante di questo.
Innanzi tutto si deve
ricordare che la comunità dei "liberi muratori" e le sue obbligazioni
morali si presentano come un sistema progressivo di simboli dal carattere
estremamente impegnativo. La rigida disciplina dell’arcano che vi domina
rafforza ulteriormente il peso dell’interazione di segni e di idee. Questo
clima di segretezza comporta, oltre tutto, per gli iscritti il rischio di
divenire strumento di strategie ad essi ignote.
Anche se si afferma che
il relativismo non viene assunto come dogma, tuttavia si propone di fatto una
concezione simbolica relativistica, e pertanto il valore relativizzante di una
tale comunità morale-rituale lungi dal poter essere eliminato, risulta al
contrario determinante.
In tale contesto, le
diverse comunità religiose, cui appartengono i singoli membri delle Logge, non
possono essere considerate se non come semplici istituzionalizzazioni di una
verità più ampia e inafferrabile. Il valore di queste istituzionalizzazioni
appare, quindi, inevitabilmente relativo, rispetto a questa verità più ampia,
la quale si manifesta invece piuttosto nella comunità della buona volontà, cioè
nella fraternità massonica.
Per un cristiano
cattolico, tuttavia, non è possibile vivere la sua relazione con Dio in una
duplice modalità, scindendola cioè in una forma umanitaria - sovraconfessionale
e in una forma interna - cristiana. Egli non può coltivare relazioni di due
specie con Dio, né esprimere il suo rapporto con il Creatore attraverso forme
simboliche di due specie. Ciò sarebbe qualcosa di completamente diverso da
quella collaborazione, che per lui è ovvia, con tutti coloro che sono impegnati
nel compimento del bene, anche se a partire da principi diversi. D’altronde un
cristiano cattolico non può nello stesso tempo partecipare alla piena comunione
della fraternità cristiana e, d’altra parte, guardare al suo fratello
cristiano, a partire dalla prospettiva massonica, come a un
"profano".
Anche quando, come già
si è detto, non vi fosse un’obbligazione esplicita di professare il relativismo
come dottrina, tuttavia la forza relativizzante di una tale fraternità, per la
sua stessa logica intrinseca ha in sé la capacità di trasformare la struttura
dell’atto di fede in modo così radicale da non essere accettabile da parte di
un cristiano, "al quale cara è la sua fede" (Leone XIII).
Questo stravolgimento
nella struttura fondamentale dell’atto di fede si compie, inoltre, per lo più,
in modo morbido e senza essere avvertito: la salda adesione alla verità di Dio,
rivelata nella Chiesa, diviene semplice appartenenza a un’istituzione,
considerata come una forma espressiva particolare accanto ad altre forme
espressive, più o meno altrettanto possibili e valide, dell’orientarsi
dell’uomo all’eterno.
La tentazione ad andare
in questa direzione è oggi tanto più forte, in quanto essa corrisponde
pienamente a certe convinzioni prevalenti nella mentalità contemporanea.
L’opinione che la verità non possa essere conosciuta è caratteristica tipica
della nostra epoca e, nello stesso tempo, elemento essenziale della sua crisi
generale.
Proprio considerando
tutti questi elementi la Dichiarazione della S. Congregazione afferma che la
Iscrizione alle associazioni massoniche "rimane proibita dalla
Chiesa" e i fedeli che vi si iscrivono "sono in stato di peccato
grave e non possono accedere alla Santa Comunione".
Con questa ultima
espressione, la S. Congregazione indica ai fedeli che tale iscrizione
costituisce obiettivamente un peccato grave e, precisando che gli aderenti a
una associazione massonica non possono accedere alla Santa Comunione, essa
vuole illuminare la coscienza dei fedeli su di una grave conseguenza che essi
devono trarre dalla loro adesione a una loggia massonica.
La S. Congregazione
dichiara infine che "non compete alle autorità ecclesiastiche locali di
pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche, con un giudizio che
implichi deroga a quanto sopra stabilito". A questo proposito il testo fa
anche riferimento alla Dichiarazione del 17 febbraio 1981, la quale già
riservava alla Sede Apostolica ogni pronunciamento sulla natura di queste associazioni
che avesse implicato deroghe alla legge canonica allora in vigore (can. 2335).
Allo stesso modo il
nuovo documento, emesso dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede
nel novembre 1983, esprime identiche intenzioni di riserva relativamente a pronunciamenti
che divergessero dal giudizio qui formulato sulla inconciliabilità dei principi
della massoneria con la fede cattolica, sulla gravità dell’atto di iscriversi a
una loggia e sulla conseguenza che ne deriva per l’accesso alla Santa
Comunione. Questa disposizione indica che, malgrado la diversità che può
sussistere fra le obbedienze massoniche, in particolare nel loro atteggiamento
dichiarato verso la Chiesa, la Sede Apostolica vi riscontra alcuni principi
comuni, che richiedono una medesima valutazione da parte di tutte le autorità
ecclesiastiche.
Nel fare questa
Dichiarazione, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede non ha inteso
disconoscere gli sforzi compiuti da coloro che, con la debita autorizzazione di
questo Dicastero, hanno cercato di stabilire un dialogo con rappresentanti
della Massoneria. Ma, dal momento che vi era la possibilità che si diffondesse
fra i fedeli l’errata opinione secondo cui ormai la adesione a una loggia
massonica era lecita, essa ha ritenuto suo dovere far loro conoscere il
pensiero autentico della Chiesa in proposito e metterli in guardia nei
confronti di un’appartenenza incompatibile con la fede cattolica.
Solo Gesù Cristo è,
infatti, il Maestro della Verità e solo in Lui i cristiani possono trovare la
luce e la forza per vivere secondo il disegno di Dio, lavorando al vero bene
dei loro fratelli.
© Osservatore Romano del
23-2-1985
A proposito di Carità (da "Caritas veritatis" cap. 59)
"Le società tecnologicamente avanzate non devono
confondere il proprio sviluppo tecnologico con una presunta superiorità
culturale, ma devono riscoprire in se stesse virtù talvolta dimenticate, che le
hanno fatte fiorire lungo la storia. Le società in crescita devono rimanere
fedeli a quanto di veramente umano c'è nelle loro tradizioni, evitando di
sovrapporvi automaticamente i meccanismi della civiltà tecnologica
globalizzata. In tutte le culture ci sono singolari e molteplici convergenze
etiche, espressione della medesima natura umana, voluta dal Creatore, e che la
sapienza etica dell'umanità chiama legge naturale [140]. Una tale legge morale universale è saldo
fondamento di ogni dialogo culturale, religioso e politico e consente al
multiforme pluralismo delle varie culture di non staccarsi dalla comune ricerca
del vero, del bene e di Dio. L'adesione a quella legge scritta nei cuori,
pertanto, è il presupposto di ogni costruttiva collaborazione sociale. In tutte
le culture vi sono pesantezze da cui liberarsi, ombre a cui sottrarsi. La fede
cristiana, che si incarna nelle culture trascendendole, può aiutarle a crescere
nella convivialità e nella solidarietà universali a vantaggio dello sviluppo
comunitario e planetario".
PROGRAMMA incontri della
quarta tappa:
l'eclissi della ragione
- 4t-1-La reazione a Hegel: Schopenhauer e Kierkegaa...
- 4t-2-La sinistra hegeliana: Feuerbach e Marx
- 4t-3-Positivismo e Darwinismo
- 4t-4-Spiritualismo e Psicanalisi
- 4t-5-Nietzsche: la morte di Dio
- 4t-6-Nietzsche: l'oltreuomo
- 4t-7-La Fenomenologia di Husserl
- 4t-8-Heidegger e l'esistenzialismo
- 4t-9-Idealismo italiano
- 4t-10-Neopositivismo e Pragmatismo americano
- 4t-11-La Scuola di Francoforte e Popper
- 4t-12-L'Ermeneutica di Gadamer e Benedetto XVI
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