giovedì 25 maggio 2017

4t-1-La reazione a Hegel: Schopenhauer e Kierkegaard

Le slides e la Dispensa
































La reazione ad Hegel


I punti essenziali del pensiero di Hegel


L’eredità di Hegel al pensiero occidentale contemporaneo è concentrata in una sua frase, per altro poco conosciuta, ma che anticipa di quasi un secolo quello che dirà poi Friedrich Nietzsche e cioè: “il grande Pan è morto”.
“il grande Pan è morto”
Hegel con questa frase afferma che è finita con lui l’idea che ci sia qualcosa di immutabile, di stabile, di eterno, esiste solo il divenire.
Esiste solo il divenire
L’assoluto stesso è concepito da Hegel come un soggetto. “Nella mia filosofia tutto consiste nel concepire l’assoluto non come una sostanza ma come un soggetto” così scrive nella sua opera più importante “Fenomenologia dello spirito” che ricordiamo è  la storia romanzata della coscienza che via via si riconosce come spirito.
“Nella mia filosofia tutto consiste nel concepire l’assoluto non come una sostanza ma come un soggetto”
Quindi se l’assoluto, l’unica realtà esistente, il tutto è un soggetto che diviene, vuol dire che c’è solo il divenire. Di fronte al divenire non si contrappone più qualcosa di immutabile che dà senso al divenire. Mai nella storia del pensiero occidentale era stato detto che l’assoluto è diveniente, anzi si era sempre detto che l’assoluto è l’immutabile. Nella tradizione giudaica cristiana l’assoluto (Dio) “è colui che è”. Hegel invece afferma che esiste solo il divenire perché  l’assoluto stesso (Dio), questa unica realtà, è diveniente. Non c’è nulla di immutabile.
Non c’è nulla di immutabile
L’essere è soggetto alla temporalità, l’essere diviene, non c’è più l’eternità, c’è solo il tempo, come affermerà poi Heidegger nella sua opera più importante “Essere e tempo”. Questa idea dominerà tutto l’800 e il ‘900. Anche i detrattori di Hegel che ora vedremo, si muoveranno comunque in questa prospettiva.
Un’altra dottrina fondamentale di Hegel è quella dell’identità fra reale e razionale.
Identità di reale e razionale
Dio assoluto è l’unica realtà esistente (monismo idealista). Questa unica realtà esistente è la ragione che poi si estranea da sé e si fa storia.
L’unica realtà esistente è la ragione
Tutto ciò che è reale, che ci sembra essere la realtà, è una manifestazione di quest’unica ragione assoluta, di quest’unica razionalità. Quindi tutto ciò che esiste essendo manifestazione di Dio, essendo manifestazione dell’assoluto, essendo anzi l’assoluto che si è estraniato da sé, è come deve essere. Non c’è più la distinzione fra l’essere e il dover essere, ma tutto ciò che è, è come è, e non può essere diverso da come è.
Tutto ciò che è, è come è, e non può essere diverso da come è
Come quando io vedo la mia immagine nello specchio, tutto della mia immagine, essendo una manifestazione di me, è come deve essere.

Compito delle filosofia è quello di
giustificare la realtà:
tutto ciò che esiste è come deve essere

Il compito delle filosofia è per Hegel quello di giustificare la realtà, perché se la realtà è Dio stesso, è una manifestazione di Dio, significa che tutto ciò che esiste è come deve essere. A questo si contrapporrà radicalmente Schopenhauer.
Ultimo concetto del pensiero hegeliano è che “Il finito si risolve nell’infinito.

Il finito si risolve nell’infinito
Per Hegel esiste solo Dio, l’unica vera realtà è l’assoluto. Tutto ciò che esiste è parte di questa unità, è manifestazione di questo unico soggetto che è l’assoluto. È come quando sogniamo, di fatto produciamo una realtà, nel sogno. Tutto ciò che rappresentiamo nel sogno è una manifestazione del pensiero. Se tutta la realtà è una manifestazione di Dio, tutta la realtà è l’assoluto ed è solo apparentemente reale. Ha senso solo nell’assoluto. Il finito, cioè i singoli, in realtà non esistono, sono tutti strumenti nelle mani dell’assoluto che si serve di noi e della storia per potersi autoriconoscere.

Arthur Schopenhauer (1788  1860)  


Schopenhauer filosofo e aforista tedesco,  uno dei maggiori pensatori del XIX secolo, nonché di tutta la filosofia occidentale moderna.
Arthur Schopenhauer nasce a Danzica da Heinrich Floris, banchiere, e Johanna Henriette Trosiener, scrittrice. Alla morte del padre avvenuta nel 1805 si stabilisce a Weimar con la madre. Viaggia in Francia, Inghilterra, studia a Göttingen con Schulze e a Berlino con Fichte.
Nel 1811 si era trasferito a Berlino per frequentare i corsi di filosofia. Persona dell'ingegno molteplice, sempre interessato ai più diversi aspetti del sapere umano - dalla matematica alla chimica, dal magnetismo all'anatomia fino alla fisiologia - consegue la laurea a Jena con una tesi "Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente". Pubblica nel 1818 la sua opera più importante, "Il mondo come volontà e rappresentazione", che ha però scarsissimo successo. Ottiene la libera docenza nel 1820 ma Schopenhauer è il filosofo antiaccademico per eccellenza. Le sue lezioni sono seguite da pochi fedelissimi e talvolta l'aula rimane deserta: c'è l'astro di Hegel che oscura tutto e tutti. Da qui derivano il rancore e le velenose critiche per quello che Schopenhauer definisce "grande ciarlatano".
Preferisce allora viaggiare sulle orme di Goethe, a Roma e Napoli. Il successo gli arriderà solo a partire dal 1845.
La vera affermazione di questo pensatore si avrà dal 1851, con la pubblicazione del volume "Parerga e paralipomena", inizialmente pensato come un completamento della trattazione più complessa de "Il mondo come volontà e rappresentazione", ma che verrà accolto come un'opera a sé stante, uno scritto forse più facile per stile e approccio e che, come rovescio della medaglia, avrà quello di far conoscere al grande pubblico anche le opere precedenti di Schopenhauer.
Negli ultimi anni della sua esistenza è circondato da una fedelissima cerchia di devoti tra i quali v'è il compositore Richard Wagner. Tra gli altri che saranno influenzati dal pensiero del tedesco vi sono Kierkegaard, Nietzsche, Spengler, Bergson, Jaspers, Heidegger, Horkeimer, Mann e Freud. Arthur Schopenhauer muore a causa di una pleurite il 21 settembre 1860 a Francoforte.

Reazione di Schopenhauer ad Hegel


Prima contrapposizione a Hegel è il ricupero di Kant. L’idealismo infatti nasceva contrapponendosi a Kant e Schopenhauer lo riprende. In particolare recupera il dualismo Fenomeno – Noumeno e il mondo come mia rappresentazione.
      
Un conto è la realtà come appare a noi “Fenomeno”, un conto è la realtà in sé “Noumeno”. Per Kant tutte le volte che il pensiero o la ragione vuole andare oltre i limiti dell’esperienza fa metafisica e con la metafisica non si può avere scienza. Kant diceva poi che le cose esistono, che la realtà esiste, non è riconoscibile, ma esiste. Non c’è solo il pensiero, ma ci sono anche le cose, che noi non conosciamo in se stesse (noumeno), ma come appaiono a noi (fenomeno). Il mondo quindi è una nostra rappresentazione.  “Il mondo come volontà e rappresentazione” è infatti l’opera maggiore di Schopenhauer. Non utilizza le 12 categorie kantiane, ma solo lo spazio, il tempo e la casualità. L’impostazione di fondo è comunque pienamente kantiana.
Schopenhauer si contrappone all’idealismo che vede il mondo come prodotto del pensiero e ripropone l’esistenza della realtà al di fuori di noi, c’è l’essere e il pensiero è ricettivo, riceviamo i fenomeni del mondo, ma al contempo ripropone e rintroduce nel pensiero occidentale molto del  pensiero orientale. Elementi del buddismo e dell’induismo sono presenti nel suo pensiero anche in contrapposizione al cristianesimo. Infatti se per Kant la nostra rappresentazione era causata dalle cose, che non conosciamo, ma che esistono, per Schopenhauer le cose esistono ma sono come coperte da un velo che ci rende difficile conoscerle veramente: il velo di Maya.      
Nei Veda con il termine māyā si indica il potere da cui ha origine il mondo materiale. In altre parole il mondo come ci appare è come coperto da un velo che non ci permette di vederlo come davvero è.
Per Schopenhauer esiste l’interrogativo: è possibile squarciare questo velo e vedere come il mondo è davvero? Per Kant questo è impossibile, ma per Schopenhauer noi possediamo una chiave d’accesso che ci permette di vedere al di là di questo velo di Maya e vedere come il mondo è. Questa chiave d’accesso è il nostro corpo. Il nostro corpo noi lo vediamo come vediamo un fenomeno, cioè come una rappresentazione, come un oggetto fra gli altri oggetti. Noi però abbiamo il privilegio di poter vivere il nostro corpo anche dal di dentro e cioè ne percepiamo anche il noumeno “la cosa in sé”. Scopriamo allora che la vera essenza di tutto il nostro essere è la volontà, la volontà di vivere. Una manifestazione fisica di una volontà di vita. Questa volontà di vivere è poi di fatto l’essenza di tutto il mondo. Tutta la realtà è in fondo una concretizzazione fenomenica di una volontà di vita che procede inesorabilmente.
La volontà di vivere è l’essenza di tutto il mondo
Il mondo quindi è sì una rappresentazione, ma grazie al nostro corpo abbiamo capito che tutta la realtà in verità è la manifestazione della vita che va avanti. Tutto ciò che esiste è una manifestazione di volontà di vita.
Quali caratteristiche ha questa volontà che è la verità del mondo? È inconscia, è una specie di energia vitale che procede e che va avanti sempre comunque e inesorabilmente, ma lei non sa che esiste, non ne è consapevole. Inoltre è unica e cieca, cioè non va da nessuna parte, non ha uno scopo, non ha nessun senso, è irrazionale.
La volontà di vivere è come un fiume in piena che procede inesorabilmente e irrazionalmente. L’esatto contrario di Hegel che afferma che tutto ciò che è reale è razionale, mentre per Schopenhauer tutto ciò che è reale è in verità una volontà di vivere del tutto cieca e irrazionale e senza scopo.
Quali conseguenze ci sono per la vita? La vita è dolore, la vita è sofferenza, l’uomo prende consapevolezza di questo e soffre ancora di più. È la presa di coscienza che la vita è dolore senza senso,  che l’essenza del mondo, la vera verità del mondo, è una volontà cieca, irrazionale, senza senso, senza scopo.
Esiste solo il divenire. “il grande Pan è morto”. La verità immutabile che può dare un senso al divenire non c’è. Di fronte all’uomo c’è solo il divenire cieco e irrazionale. La vita è essenzialmente dolore, perché manifestazione di una volontà inappagata e che procede inesorabilmente senza senso, senza scopo, senza meta, senza direzione, senza un perché. Si sente qui l’influenza del buddismo che afferma le stesse cose e che predica il distacco dal mondo e dalle sue passioni, desideri e affezioni per non soffrire inutilmente.

Schopenhauer e Giacomo Leopardi


Schopenhauer è il filosofo che più ha influenzato il grande Giacomo Leopardi come è più che mai evidente ne:

"Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" (1829-1830)


Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
[…]
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.


La meta della vita per Schopenauer come per Leopardi è un abisso orrido dove dimentichiamo tutto. La vita non ha un punto di arrivo, “il grande Pan è morto”, non c’è quindi più direzione, non c’è più un “immutabile” che si contrappone al divenire, c’è solo il divenire. Se il divenire è il tutto, se non esiste nient’altro che il divenire, allora l’essenza, il nocciolo, il noumeno, la cosa in sé deve venire inesorabilmente e inevitabilmente concepita come mancanza, bisogno, insoddisfazione e c’è tendenza a colmare la mancanza e a soddisfare il bisogno, ma questi non saranno mai appagati, il nulla non può appagare proprio niente. La tendenza alla soddisfazione è inappagata, perché ogni ostacolo superato scopre un nuovo ostacolo. La tendenza alla soddisfazione è continuamente ostacolata anche perché ogni eventuale soddisfazione è comunque precaria, non duratura (non definitiva). La vita è “una malattia mortale” come dimostra l’ultima strofa della poesia del Leopardi. Se allora la vita è dolore e sofferenza bisogna trovare dei farmaci, una salvezza, una liberazione.

Il pessimismo storico di Leopardi


Dal secondo dopoguerra, il pensiero di Leopardi assume una rilevanza filosofica.
La sua prima riflessione filosofica (1817-18) è influenzata dall'Illuminismo e da Rousseau. Leopardi affronta il suo tema centrale dell'infelicità umana. In questa prima fase, la natura è considerata un'entità positiva, non perchè essa dia all'uomo una condizione davvero felice, ma perchè produce delle illusioni. La civiltà però ha distrutto tali illusioni. L'infelicità non è un dato ontologico ma storico: si parla così di pessimismo storico. Per recuperare tali illusioni, occorrono azione ed eroismo.

La noia


Se finora si è rintracciata una sostanziale analogia fra la filosofia leopardiana e quella schopenaueriana, le due linee di pensiero divergono a proposito della concezione della noia. Per Leopardi, infatti, la noia è prova della grandezza e della nobiltà dell’uomo, in quanto segno di sproporzione  tra la nullità e l’insufficienza delle cose terrene e la grandezza del nostro desiderio.

Le vie di liberazione dal dolore

Liberarsi dal dolore vuol dire liberarsi dalla vita e dalla sua condanna a soffrire e faticare per nulla fino alla morte senza senso. Un primo farmaco semplice è quello che ci può dare l’Arte.

L’Arte: quando noi contempliamo le opere d’arte ci eleviamo da questa volontà di vivere ceca e irrazionale perché contempliamo delle essenze, siamo elevati dal divenire. Questo farmaco è provvisorio e dura per il tempo in cui dura la contemplazione.
La Pietà, cioè la solidarietà con tutti gli esseri umani che soffrono,  può dare un senso alla nostra vita, ma certo non ci allontana dalla vita e dal suo nonsenso.
L’Ascesi è invece per Schopenauer il vero rimedio. Vivere in attesa della morte cercando di soffrire il meno possibile, evitando cioè tutto ciò che la vita offre di apparentemente positivo: passioni, affetti, desideri, procreazione, impegni di qualsiasi genere ecc. e fermare questa vita senza senso quasi come un’opera di “carità” nei confronti di chi, non nascendo, non soffrirà, quasi che la vita fosse di fatto un inganno, un crimine che cerca di perpetuarsi all’infinito (grazie alla Voluntas). La vita invece va troncata, fermata, bloccata perché è l’essenza del dolore e il cui unico rimedio è la Noluntas, il non volere più niente. Solo l’estraniazione totale dalla vita è la vera e propria cura.
Il risultato di tutto questo ragionamento sembra inevitabilmente essere un invito al suicidio. Non è questo quello che vuole Schopenauer, per lui il suicidio non vuol dire rompere con la volontà di vivere, ma non accettare quel tipo di vita che gli è toccata perché non l’ha soddisfatto e desiderarne un’altra così fortemente da rischiare di non trovarla nemmeno dopo. Il pensiero di Schopenauer è solo quello di troncare radicalmente con la volontà di vivere, cieca e irrazionale e che è l’essenza del mondo.
Siamo quindi completamente distanti o fuori da Hegel, ma di fatto anche Schopenauer (seppur anti hegeliano) si muove dentro l’orizzonte di pensiero che Hegel ha aperto. Tutta la contemporaneità non farà altro che muoversi dentro il concetto che l’immutabile non c’è. Quando Nietzche dirà “Dio è morto” dirà una cosa che il “cattivo maestro” Hegel aveva già detto settant’anni prima.

Søren Aabye Kierkegaard (Copenaghen,  1813–1855)


Questo filosofo, teologo e scrittore danese, il cui pensiero è da alcuni studiosi considerato punto di avvio dell'esistenzialismo, è allo stesso tempo un ironico e un ammiratore ed avversario di Socrate. Messosi sotto il doppio segno dell'eccezione e del paradosso ed iscrivendosi in una rete complessa di corrispondenze sottili, il suo pensiero inaugura nel XIX  secolo un modo d'espressione paradossale e  altamente figurato, fino ad allora nuovo.  
Nato a Copenaghen nel 1813, era il beniamino di una famiglia di sette bambini; suo padre aveva accumulato una fortuna immensa ma, temendo Dio, che aveva precedentemente rinnegato, educò i suoi bambini nel terrore religioso. Tuttavia, Kierkegaard condusse inizialmente una vita dissoluta, prima di incontrare, nel 1837, Regina Olsen, che fu  sua fidanzata fino al 1841. Questa vicenda sentimentale divenne  lo spartiacque della vita di Kierkegaard e segnò un solco indelebile nella sua interiorità. Lo stesso anno, prenderà la laurea  in filosofia e, potendo godere delle rendite paterne, si consegnerà a un combattimento senza requie contro la Chiesa ufficiale danese. Il 20 ottobre 1855, s’accasciò per strada. Trasportato all'ospedale, morì l'11 novembre, in piena rottura con  la religione stabilita. Non aveva che quarantadue anni. 

 

Un'opera paradossale 


La morte di Hegel, nel 1831, apre la via a due tipi di contestazione della sua filosofia che nel frattempo è diventata ufficiale. In effetti, dieci anni più tardi, nel 1841, due pensatori d'eccezione sostenevano la loro tesi di dottorato in filosofia: Karl Marx, a Iena, sulla Differenza della filosofia della natura da Democrito ed Epicuro, e Søren Kierkegaard, a Copenaghen, sul Concetto d'ironia costantemente riportato a Socrate.
Questi due pensatori così radicalmente diversi avevano sottotraccia  lo stesso riferimento, Hegel, e lo stesso obiettivo: l'inversione critica del sistema hegeliano. Ma, mentre l'opera di Marx, diretta contro l'idealismo di Hegel, in nome “del materialismo storico”, andava a dare nascita alle diverse forme di marxismo, quella di Kierkegaard, che fronteggiava, facendo perno sull’irriducibilità soggettiva dell’esistenza, il razionalismo e  l'oggettività di Hegel, doveva restare, sotto ogni  riguardo, totalmente eccezionale e marginale, almeno fino all’avvento dell'esistenzialismo del secolo successivo.   

Kierkegaard è un autore isolato e deliberatamente paradossale, nel senso più forte di questo termine. Tutta  centrata sull'esistenza del soggetto singolare ed unico, l'opera di Kierkegaard è consegnata dal suo autore ad una folla di anonimi firmatari. Eccetto la sua tesi di dottorato ed alcuni discorsi pubblici, il filosofo danese non ha firmato col suo nome alcuno dei suoi testi principali, per i quali inventa una serie di pseudonimi. Ciascuno di questi personaggi fittizi, diversi ed a volte opposti, rappresenta un aspetto di Kierkegaard.

Il pensiero di Kierkegaard


Kierkegaard è collocato di diritto fra gli antihegeliani, anche se il clima in cui lui si forma è prettamente hegeliano, perché la sua filosofia è un attacco a questa filosofia hegeliana che tutto comprende e che tutto annienta. Questa dialettica che di fatto fa evaporare il soggetto, che dipinge la realtà del singolo come un semplice ingranaggio di un meccanismo efficiente che va avanti indipendentemente dalla nostra volontà e dentro il quale non siamo affatto liberi, non piace proprio a Kierkegaard.
Egli vuole invece ribadire che l’unica categoria vera dell’esistenza è il singolo. È l’unica categoria attraverso la quale si realizza la storia, l’umanità, quella irriducibile specificità di cui ogni individuo è fatto.
L’unica categoria vera dell’esistenza è il singolo
Hegel viene attaccato perché in lui si riconosce una specie di retaggio pagano nel quale si ritiene che in fondo ogni uomo è come un animale. Nel regno degli animali è la specie che è superiore al singolo individuo, ma nel regno umano è il singolo che è superiore alla specie, è superiore all’umanità tutta intera. L’uomo coglie la verità interiormente, soggettivamente. La ricerca della verità è un processo soggettivo. È il singolo che si rapporta con la verità.

Attenzione, però, non siamo di fronte ad un banale relativismo nel quale ognuno ha la sua versione del bene e il diritto a perseguirla. Ma siamo di fronte alla constatazione che la verità è qualcosa che io godo dentro di me, è un processo soggettivo, del singolo. Il singolo si rapporta alla verità, il singolo si rapporta a Dio. A Dio ci si rapporta da soli, non si va insieme a Dio. C’è solitudine quando si parla di Dio.
Questa esaltazione del singolo si realizza nella nostra possibilità di essere, di esistere. Che cos’è l’esistenza se non la possibilità di essere, di scegliere di essere qualcosa.
Kant a questo proposito diceva che la possibilità era la nostra piena realizzazione, sempre ovviamente nel recinto che gli illuministi avevano posto a salvaguardia di solo ciò che poteva essere dimostrato scientificamente.
Kierkegaard prende il concetto di possibilità in senso negativo. Nella vita esiste sì la possibilità che essa si realizzi, ma esiste altresì la possibilità che non si realizzi, la possibilità del fallimento, cioè che la nostra esistenza non si realizzi per niente. Questa possibilità del fallimento, questa possibilità di non farcela, che non si realizzi la nostra esistenza è di fatto la minaccia del “nulla”.
La nostra vita personale, cioè del singolo, la si vive nell’esistenza. Siamo sempre di fronte a delle scelte, ma non è facile scegliere. Questa sorta di vertigine che io provo di fronte ad una scelta, è un sentimento dice Kierkegaard, un sentimento fondamentale che chiama l’angoscia. L’angoscia comunque è un sentimento nobile, più l’angoscia è grande, più l’uomo è profondo. L’angoscia è qualcosa che ci spinge, in questo paradosso che è la nostra vita nella quale non sappiamo cosa scegliere, ma dobbiamo scegliere. Questo è il punto zero dal quale dobbiamo partire. L’angoscia è diversa dalla paura, l’angoscia ci stimola, la paura ci blocca. “Si ha sempre paura di qualcosa  ci si angoscia per nulla” dice Kierkegaard. Dobbiamo allora imparare da questa angoscia che ci fa muovere e ci obbliga a fare delle scelte e non ci lascia fermi, ma che non ci blocca. Entriamo così negli “stadi dell’esistenza”. Essi sono dei modo di vivere, sono scelte della mia vita in cui io cerco di vivere in un certo modo.

Stadi dell’Esistenza


Questi stadi non sono stadi evolutivi, uno conseguente all’altro, ma stadi senza connessione fra di loro, anzi fra di loro c’è un abisso. Si può passare da uno stadio all’altro solo negando il precedente, saltando cioè l’abisso che li separa. L’opera nella quale Kierkegaard parla di questo si intitola “Aut-Aut” o questo o quello, uno esclude l’altro, nessuna continuità fra gli stadi.
Il primo stadio è simboleggiato dal don Giovanni (l’esteta), il secondo dal buon padre di famiglia, ed infine il terzo il patriarca Abramo.
Lo stadio estetico. Chi è colui che vive nello stadio estetico? È colui che vive la vita nella sua immediatezza, nel suo carattere fuggevole, nell’irripetibilità dell’attimo, che bandisce dalla sua vita la banalità, la meschinità, ciò che non è interessante, che vive la vita ad un livello eccezionale, che non si accontenta di piaceri smodati, ma che è sempre alla ricerca di bisogni e di desideri appaganti e sempre più forti e senza fermarsi mai di fronte a niente. Coloro cioè che vivono la loro esistenza nella ricerca di un piacere sempre nuovo, come nel “diario di un seduttore”: il don Giovanni.
Come se ne esce, se se ne esce? Nella constatazione dell’impossibilità pratica di soddisfare desideri sempre più nuovi e autentici e nella corrispettiva impossibilità di trovare un senso alla propria vita veramente appagante. L’esteta infatti è chi si rifiuta di fare scelte stabili, definitive, durature. Questo porta l’esteta a fare l’esperienza di un sentimento che si chiama “disperazione”, che è una malattia mortale, che è vivere la morte dell’io, cioè il rendersi conto che non siamo autosufficienti, che la nostra vita non ha senso, che la nostra vita è un fallimento.

Lo Stadio Etico. Kierkegaart afferma che a questo punto l’uomo “sceglie di disperarsi” e di saltare direttamente dalla parte opposta dello stadio in cui è, lo stadio etico. Questo stadio etico è rappresentato dal padre di famiglia che sceglie una vita stabile e continua, che assume su di sé la responsabilità della sua vita e di quelli dalla cui vita dipendono, che riafferma la fedeltà di se stesso, che accetta di sottomettersi ad uno schema universale, che rifiuta il desiderio di essere stupefacente, che sceglie la via della normalità. Lo stadio etico è quello normale, quello di tutti, è quello della vita dell’uomo che riafferma se stesso.
Ma per Kierkegaard non basta essere persone rette, all’uomo che vive nello stadio etico manca una cosa: manca la sua realizzazione piena e profonda, manca la realizzazione di quell’ansia di infinito, di quella tensione verso Dio. Dio che è l’unica scelta nella quale l’uomo può trovare la sua realizzazione.
Di fatto sia lo stadio estetico che quello etico, portano alla disperazione perché manca ad entrambi il senso della propria esistenza.
Lo Stadio Religioso. Serve allora fare un ulteriore salto verso lo stadio religioso, che è un vero salto, non è una conseguenza cronologica, non c’è continuità, ma è un salto a piè pari che può venire anche da uno stato estetico. Il salto nella fede è un salto che rifiuta l’idea rassicurante della ragione. Kierkegaard non sopportava di Hegel la presunzione di far diventare la filosofia una scienza.
La filosofia rassicurante che ci spiega la realtà, l’èpisteme, ciò che scopro della realtà, ciò che spiega la realtà. Kierkegaard rifiuta ogni schema, anche se ben costruito, entro il quale ci si vuol fare entrare. Rifiuta anche decisamente la teologia razionale della religione cristiana, che chiamava la “cristianità costituita” o stabilita. Il cattolicesimo è visto come una forma di cristianità che è come un contenitore entro il quale ci si accomodava, ci si adeguava e ci si rassicurava. Ma la vita di per sé non è rassicurante, è insicurezza, angoscia. Nasce qui il rifiuto che l’uomo possa controllare con la ragione la realtà e quindi controllare e conoscere Dio. La ragione non serve per fondare la mia fede. Serve allora la totale fiducia del rischioso salto verso Dio.
Lo stadio religioso è l’incontro con l’Assoluto. Incontro però nell’intimità privata. Da Dio non ci si va in coro o in gruppo. Da Dio ci si va da soli. La fede viene definita come il dominio della solitudine. Siamo di fronte al rifiuto di tutto ciò che è razionale. Tutto viene da Dio, anche la possibilità di conoscere Dio, viene da Dio, la nostra fede viene da Dio, noi non possiamo nulla. Siamo davanti al paradosso che dovremmo scegliere, ma in fondo non possiamo. Di Dio ci salva solo la Grazia. Questo non ci salva dall’angoscia, anzi l’angoscia è la misura della nostra fede. La fede è una certezza angosciosa, cioè non ci fa superare l’angoscia. Nella fede c’è proprio l’idea del paradosso, dello scandalo. Lo scandalo di Dio che si fa uomo per farsi uccidere dall’uomo che Lui viene a salvare. Il paradosso di un Dio che vince il male morendo in mezzo a mille dolori. Il paradosso che Dio manifesti la sua gloria crocifisso come uno schiavo ribelle su di una croce. Tutto il cristianesimo è un paradosso e rispecchia perfettamente la nostra esistenza. Quale immagine migliore, se non l’immagine di Abramo, per spiegare che lui non sceglie la rassicurante via della ragione, non sceglie la altrettanto rassicurante via dell’etica. La religione è un uscire fuori dallo stadio dell’etica perché Dio fa fare cose che contrastano con l’etica, che non sono morali. La fede è un salto cieco, non c’è continuità tra l’etica e Dio.
Il nostro incontro con Dio, la vita nella fede, l’incontro assoluto con l’Assoluto, rappresenta la forma autentica dell’esistenza finita. L’unica forma che abbiamo, la più vera, la più autentica. Ma è una scelta rischiosa, la fede è un rischio, la fede è una certezza angosciosa. Siamo rimessi totalmente nelle mani di Dio.
C’è un evidente distacco dalla tradizione cristiana, Kierkegaart va al di là di quanto concepito tradizionalmente, cioè la teologia razionale. Non ci sono vie di accesso o vie di dimostrazione di Dio, ed è per questo che Dio non è più evidente a chi lo ha conosciuto, per esempio agli apostoli. Dio è sempre evidente perché l’evidenza non dipende dalla mia mente, non dipende dalla ragione, dipende dalla mia angoscia, dal desiderio che ho di scegliere la mia strada, la mia strada più autentica, quella che mi permette di trovare un senso. Il senso me lo può dare solo Colui dal quale provengo.

Commento di don Claudio Crescimanno


La prima grande, evidente e drammatica contraddizione di questi pensatori tedeschi è che per affermare un assoluto nuovo, utilizzano il primato del divenire sull’essere, uccidendo sul nascere l’assoluto che vogliono affermare. L’assoluto che si vuole affermare e al quale si vuole dare, già a partire da Hegel, argomenti per aprire una nuova era di pensiero, viene subito violentemente divorato dal divenire che si vuole considerare come l’unica e vera realtà esistente.
Affermazione e contemporanea contraddizione tutta tedesca che galleggia in una mentalità che non conosce l’autoironia e che gli altri non prendono sul serio accorgendosi poi troppo tardi delle tremende conseguenze.
Il secondo grande paradosso è il primato del soggetto che domina la realtà, anzi che produce la realtà. Non esiste nulla se non ciò che è percepito, sentito, capito, visto dal soggetto. Ma come si risolve poi questo se non in una concentrazione autoreferenziale, continuamente autoreferenziale, sul problema della conoscenza. In realtà non esiste né il soggetto né l’oggetto. Tutto il problema è un problema gnoseologico, cioè un problema conoscitivo. In altre parole la metodologia fa un solo boccone dei due termini, cioè rimane l’incontro, ma non gli elementi di questo incontro. Esiste solo la metodologia.
Certamente il passaggio dal mondo antico classico medioevale, frutto di più di duemila anni di costruzione appassionata, ad un mondo nuovo che si tenta di costruire è certamente ancora in alto mare. Hegel ha dato una sua ricetta, un complesso immenso e affascinante del pensiero al quale sono succeduti discepoli e contestatori, ma resta il fatto che la nuova ricostruzione del pensiero occidentale è ancora molto lontana dall’essere compiuta.

Appendice

J. Ratzinger racconta l’apologo di Kierkegaard (di Nasca)

Nel 1969 – quando era ancora cardinale – Joseph Ratzinger scrisse un libro dal titolo “Introduzione al cristianesimo” (ed. Queriniana), divenuto in brevissimo tempo un bestseller per la teologia contemporanea. Tra le prime pagine di questo testo-capolavoro (giunto oggi alla diciannovesima ristampa e tradotto in 17 lingue) Ratzinger racconta un celebre apologo di S. Kierkegaard che vale la pena di rileggere.
“La storiella è interessante. Narra come un circo viaggiante in Danimarca fosse un giorno caduto in preda ad un incendio. Ancora mentre da esso si levavano le fiamme, il direttore mandò il clown già abbigliato per la recita a chiamare aiuto nel villaggio vicino, oltretutto anche perché c’era pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi aridi, s’appiccasse anche al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando i paesani ad accorrere al circo in fiamme, per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere, tendente ad attrarre la più gran quantità possibile di gente alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clown aveva più voglia di piangere che di ridere; e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto d’una finzione, d’un trucco, bensì d’una amara realtà, giacché il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: si trovava che egli recitava la sua parte in maniera stupenda… La commedia continuò così, finche il fuoco s’appiccò realmente al villaggio, ed ogni aiuto giunse troppo tardi: sicché villaggio e circo andarono entrambi distrutti dalle fiamme”.
Questo racconto, e l’immagine che esso propone, è ancora oggi di grandissima attualità. Il cristiano, infatti, chiamato a testimoniare il Vangelo di Cristo, rimane spesso inascoltato perché, come nel caso del clown, egli risulta – agli occhi del mondo – “incapace di portare il suo messaggio ad essere veramente ascoltato dagli uomini […]. Anche lui infatti paludato com’è nei suoi abiti da pagliaccio tramandatigli dal medioevo o da chissà quale passato, non viene mai preso sul serio. Può dire quello che vuole, ma è come avesse appiccicata addosso un’etichetta, come fosse inquadrato nella sua parte di commediante. Comunque si comporti, qualsiasi gesto faccia per presentare la serietà del caso, tutti sanno già in partenza che egli è appunto solo un povero clown. Si sa già di che cosa parli, si conosce già in partenza che offre solo una rappresentazione fantastica, la quale ha poco o nulla da spartire con la realtà. Lo si può quindi ascoltare con animo sollevato, senza esser obbligati ad inquietarsi seriamente per quello che dice”.
Vi è un lavoro anche in questo: bisogna spezzare i luoghi comuni dei nostri parametri mentali, rendere il messaggio cristiano fruibile a tutti e, soprattutto, accompagnarlo con una adeguata, coerente e corrispondente testimonianza di vita! (Articolo di Michelangelo Nasca - 16 aprile 2013)


Non di solo “benessere” vive l’uomo – J. Ratzinger

L’unica realtà esistente è la ragione dice Hegel
E allora ragioniamo.
Forse c’è bisogno di sperimentare fino in fondo lo sfacelo causato dall’ateismo per poter di nuovo scoprire per davvero quanto sia inestirpabile e irrinunciabile il grido che dall’uomo sale verso Dio; per accorgersi infine nuovamente che l’uomo non vive affatto di solo pane, e che egli non è ancora sufficientemente redento per il fatto di godere d’uno stipendio, che gli permetta di possedere tutto ciò che desidera, e di una libertà che gli consente di fare tutto ciò che vuole.
Solo allora egli si accorgerà che di per sé sola, la libertà non rende “liberi”: e che con il “possedere” incomincia il vero problema, quello dell’”essere”. E noterà anche che egli ha bisogno di qualcosa che il capitalismo occidentale è in grado di offrirgli tanto poco quanto il marxismo, che solo apparentemente prospetta una meta più alta e contenuti più validi, ma che alla fine non realizza altro che la promessa di una comune uguaglianza nel benessere, distribuendo a tutti il pane; e però abbandonando l’uomo a se stesso, proprio là dove inizierebbe la sua vera umanità.
No, la Fede non può divenire “superflua”. Essa resta necessaria tanto quanto il pane quotidiano. Perciò per i cristiani valgono allo stesso modo sia l’imperativo di “moltiplicare” il pane (“Date loro da mangiare” dice Gesù nel Vangelo), sia l’affermazione “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”, con la quale il Signore respinge la tentazione diabolica di ridurre il cristianesimo in una dimensione sociale, politica o economica facendone un “ente assistenziale”. (Tratto da un articolo dell’Arcivescovo di Monaco di Baviera J. Ratzinger “Die Situation der Kirche heute. Hoffnungen und Gefahren – 1977)

La rete di protezione della società civile – J. Ratzinger

La rete di cui parla il vangelo è in primo luogo immagine del regno di Dio, gettato nel “mare” del tempo e della storia per sollevare l’uomo dall’abisso del silenzio, dell’oscurità, dell’inutilità, aprendogli un’altra dimensione, cioè “il regno della giustizia, dell’amore e della pace”. Questo “regno” è già qui, come una “rete che ci raccoglie insieme; ma è, in un certo senso, “prima” ancora che atto di pura e semplice raccolta, come un movimento, un gesto che ci solleva verso l’alto e ci inonda di luce.
Anche la Chiesa “è una rete”: essa ha “per filo lo Spirito Santo, per trama la missione apostolica”; ed è “efficace in virtù dell’unità della fede, della vita e dell’amore”. Questa espressione del Santo Padre (Giovanni Paolo II) è davvero molto bella e luminosa. Proseguendo egli ha fissato lo sguardo sulla più piccola, e al tempo stesso insostituibile porzione della Chiesa che è la famiglia; dice la tradizione: la “chiesa domestica”, la Chiesa in miniatura. Il papa ci ha ricordato che anche la famiglia “è una rete”: che “custodisce e unisce”, e “strappa alle correnti degli abissi”.
Poi da lui è venuto un appello accorato: “non permettiamo che questa rete si strappi!”. Sono parole che volentieri vorrei richiamare come orientamento e guida per quest’anno, perché risuonino forti e giorno dopo giorno si facciano sentire nelle nostre case, nella società e nelle istituzioni: “non permettiamo che questa rete si strappi!”. (Tratto dall’articolo di J. Ratzinger: “Zeitfragen und christlicher Glaube” 1983)
La rete si sta strappando e costringe Joseph Ratzinger in data 2 giugno 2003, a redigere e sottoscrivere, nella sua qualità di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, un documento intitolato “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali” del quale riportiamo il punto 10.
«Se tutti i fedeli sono tenuti ad opporsi al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, i politici cattolici lo sono in particolare, nella linea della responsabilità che è loro propria. In presenza di progetti di legge favorevoli alle unioni omosessuali, sono da tener presenti le seguenti indicazioni etiche.
Nel caso in cui si proponga per la prima volta all'Assemblea legislativa un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge. Concedere il suffragio del proprio voto ad un testo legislativo così nocivo per il bene comune della società è un atto gravemente immorale.
Nel caso in cui il parlamentare cattolico si trovi in presenza di una legge favorevole alle unioni omosessuali già in vigore, egli deve opporsi nei modi a lui possibili e rendere nota la sua opposizione: si tratta di un doveroso atto di testimonianza della verità. Se non fosse possibile abrogare completamente una legge di questo genere, egli, richiamandosi alle indicazioni espresse nell'Enciclica Evangelium vitae, “potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica”, a condizione che sia “chiara e a tutti nota” la sua “personale assoluta opposizione” a leggi siffatte e che sia evitato il pericolo di scandalo.
Ciò non significa che in questa materia una legge più restrittiva possa essere considerata come una legge giusta o almeno accettabile; bensì si tratta piuttosto del tentativo legittimo e doveroso di procedere all'abrogazione almeno parziale di una legge ingiusta quando l'abrogazione totale non è possibile per il momento».
Una volta caduta la linea Maginot del riconoscimento legale delle unioni civili omosex, il resto è inevitabile: uteri in affitto, fecondazione extracorporea, adozione per coppie gay, teorie Gender propinate ai nostri figli a scuola, ecc. cioè distruzione della famiglia,  e del suo legame principale l’amore, e sua sostituzione con l’egoistico soddisfacimento dei propri desideri più scellerati, per non parlare dell’aborto e dell’eutanasia.

La Dottrina sociale della Chiesa e la Politica


Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista a monsignor Gianpaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste e presidente dell'Osservatorio Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa, apparsa sul numero di Febbraio 2016 del mensile Il Timone (www.iltimone.org).

Eccellenza, c’è chi dice che i cattolici in politica non ci siano più? È anche lei di questo parere?
Non sono di questo parere, però è vero che, se ci sono, si vedono poco e in modo confuso. La visibilità cattolica in politica può essere di due tipi: personale, quando si sa che quel politico è cattolico, egli stesso lo dichiara e mantiene evidenti rapporti con la Chiesa; comunitaria, quando i cattolici agiscono uniti ed elaborano, nella loro autonomia di laici, strategie politiche che partano da una visione cattolica delle cose. 
Può spiegare la distinzione iniziale tra visibilità individuale e visibilità comunitaria? 
Una volta stabilito che i cattolici impegnati in politica devono vedersi, perché altrimenti la loro non sarebbe testimonianza di fede, bisogna riconoscere che senza una visibilità comunitaria anche quella individuale tende a ridursi solo a coerenza morale personale. Abbiamo così politici che, pur coerenti con la loro morale personale, fanno scelte politiche che contrastano con la dottrina della Chiesa e, non di rado, con la stessa legge morale naturale. Il bene comune lo si fa in comune, ossia strettamente uniti sui principi fondamentali dell’impegno politico che la Chiesa ha sempre insegnato, soprattutto da quando ha cominciato ad elaborare una organica Dottrina sociale.  
A proposito dei cattolici presenti in Parlamento, si è pensato a lungo che essi potessero militare in tutti i partiti, per poi convergere uniti su leggi ad alta rilevanza etica, come quelle riguardanti la famiglia e la vita. Ritiene ancora valido questo schema?
Credo che questo schema, se mai sia esistito come paradigma strategico piuttosto che come adeguamento non voluto alla realtà dei fatti, non sia oggi più agibile. Non perché quella convergenza non sia auspicabile, ma perché i fatti ci dimostrano che non viene mai attuata. Le recenti prese di posizione sul disegno di legge Cirinnà lo ha ulteriormente dimostrato. Questa legge sembrava essere, a detta di molti degli stessi parlamentari sedicenti cattolici, il limite non oltrepassabile ed invece è stata oltrepassata. 
Si tratta solo di tattica politica o anche di carenza di visione?
I numeri in politica contano molto. Deputati dichiaratamente cattolici ce ne sono pochi in questo Parlamento e, tra costoro, molti dicono di esserlo ma si riservano poi un’ampia discrezionalità di scelte senza troppo farsi condizionare dalle indicazioni della morale cattolica o della dottrina sociale della Chiesa o degli appelli del magistero. Una piccola pattuglia può fare certamente ben poco. Però credo che il problema non sia solo quantitativo. C’è una buona dose di confusione di pensiero. Certi cedimenti alla legge Cirinnà, anche su punti profondamente in contrasto con la dignità della persona umana, hanno evidenziato una carenza di pensiero e, soprattutto, l’idea che la fede cattolica non possa – pena diventare ideologia – produrre una visione organica e coerente, una vera e propria cultura sociale e politica. Essa produrrebbe solo istanze moraleggianti, spinte verso una testimonianza di carità non ben precisata, ma non un sistema di pensiero e una coerente visione dei nostri doveri verso il bene comune. Si pensa che Dio dia solo consigli o proponga solo ideali
Oggi, la dottrina sociale della Chiesa che momento sta vivendo nella nostra Chiesa e nel nostro Paese?
Il pastoralismo a cui ho accennato e che avrebbe bisogno di ben altri approfondimenti, la mette in difficoltà. Perché per esso tutto ciò che sa di dottrinale, di culturale, di teorico impedisce l’incontro pastorale col bisognoso. Come se la fede fosse solo un agire e non anche un pensare. Mi chiedo, però: come discernere i bisogni veri da quelli falsi, senza una visione delle cose che nasce dalla fede e dalla ragione? Con buone intenzioni spesso i cattolici, nell’ansia pastorale di incontrare i bisognosi, operano per cause sbagliate e fanno danni, creando nuovi disagi. Inoltre vengono distolti dai problemi di struttura e di buona organizzazione della vita pubblica per concentrarsi solo su forme corte di solidarietà. Si fa del bene anche impegnandosi per leggi giuste o politiche adeguate, ma come farlo senza una visione complessiva delle cose che la dottrina sociale della Chiesa offre?

Opere sociali non cattoliche

Opere sociali e benefiche per pura filantropia (o per mascherare interessi politici) ce ne sono molte e si distinguono da quelle della Chiesa Cattolica perché non sono “opere di Misericordia” fatte per amore di Dio e dei fratelli più bisognosi, cioè da credenti che testimoniano così la loro fede in Dio e nella sua Provvidenza. Un classico esempio è Madre Teresa di Calcutta che, come altri santi fondatori di opere di misericordia, rendono il messaggio cristiano fruibile a tutti proprio perchè accompagnato con una adeguata, coerente e corrispondente testimonianza di vita! Testimonianza di vita che non deriva tanto dal fare o dal predicare, ma da ogni parola che esce dalla bocca di Dio, cioè dalla meditazione del Vangelo e dalla intensa e umile preghiera e sobrietà di vita che rende il fare, cioè le opere, vera testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini, cosa per la quale siamo stati creati e messi nel mondo.
Queste che seguono sono opere molto note, ma non tutti sanno che sono di matrice massonica e che sono sì dignitose ed encomiabili in tutto ciò che appare alla luce del sole, ma che nel buio della gestione del potere sperimentano farmaci su bambini e malati dei loro ospedali, diffondono mezzi contraccettivi ed abortivi, decidono autonomamente l’eliminazione di feti sospetti, sperimentano manipolazioni genetiche, ecc.
Dal sito: http://www.loggiagiordanobruno.com/opere-umanitarie-e-sociali-della-massoneria ne ricaviamo alcune fra le più finanziate dai governi e quindi più influenzanti i gruppi di potere che di fatto governano le moderne democrazie:
L’O.N.U.Nel 1917 a Parigi si adunarono le Massonerie di tutte le nazioni alleate, e fondarono la Società delle Nazioni, il cui scopo era di sostituire alla logica del cannone quella del dialogo. Nel secondo dopoguerra questa istituzione fu rifondata col nome di O.N.U. e da essa derivarono importanti e costose istituzioni, con lo stesso spirito (non certo lo Spirito Santo) quello massonico: lotta alla fame (FAO) mai risolto, lotta alla disoccupazione (Bit) mai risolto, lotta all’analfabetismo (UNESCO) mai risolto, protezione dell’infanzia (UNICEF) mai risolto, pro distensione atomica (AICA), interventi in difesa degli oppressi, dei perseguitati dei profughi (AMNESTY) mai risolto, anzi oggi ha di fatto abbandonato questa sua “mission” dedicandosi ai così detti “diritti civili” che sarebbe più logico chiamarli “incivili”. .
Il Rotary Club, associazione di uomini di affari e professionisti, fu fondato nel 1905 dall’avvocato statunitense Paul P. Harrys, massone. Scopo del Rotary è di farsi promotore di una nuova moralità che si collochi al di sopra e al di fuori di ogni concezione religiosa, e non sia dipendente da alcun partito ed abbia carattere universale, ma che fornisca una solida protezione agli affari dei consociati.
Lions Internazionalassociazione fondata a Dallas nel 1917, da Melvin Jones, massone, membro della Garden City Lodge N.141, Chicago, Illinois: ha per scopo di creare e stimolare uno spirito di comprensione fra i popoli del mondo; promuovere i principi di buon governo e di buona cittadinanza; prendere attivo interesse al bene civico, culturale, sociale e morale della comunità e salvaguardare gli interessi dei consociati.

Per chi volesse approfondire questo argomento può consultare il sito:
http://www.quieuropa.it/massoneria-profetica-maledizione-di-don-bosco-del-1855-e-visione-di-padre-pio-del-1913/ e il libro di Massimo Introvigne: “La Massoneria” Elle Di Ci, Leumann 1997.

Articolo apparso su L'Osservatore Romano del 23 febbraio 1985
Il 26 novembre 1983 la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicava una dichiarazione sulle associazioni massoniche (cfr AAS LXXVI [1984] 300).
A poco più di un anno di distanza dalla sua pubblicazione può essere utile illustrare brevemente il significato di questo documento.
Da quando la Chiesa ha iniziato a pronunciarsi nei riguardi della massoneria il suo giudizio negativo è stato ispirato da molteplici ragioni, pratiche e dottrinali. Essa non ha giudicato la massoneria responsabile soltanto di attività sovversiva nei suoi confronti, ma fin dai primi documenti pontifici in materia e in particolare nella Enciclica "Humanum Genus" di Leone XIII (20 aprile 1884), il Magistero della Chiesa ha denunciato nella Massoneria idee filosofiche e concezioni morali opposte alla dottrina cattolica. Per Leone XIII esse si riconducevano essenzialmente a un naturalismo razionalista, ispiratore dei suoi piani e delle sue attività contro la Chiesa. Nella sua Lettera al Popolo Italiano "Custodi" (8 dicembre 1892) egli scriveva: "Ricordiamoci che il cristianesimo e la massoneria sono essenzialmente inconciliabili, così che iscriversi all’una significa separarsi dall’altra".
Non si poteva pertanto tralasciare di prendere in considerazione le posizioni della Massoneria dal punto di vista dottrinale, quando negli anni 1970-1980 la S. Congregazione era in corrispondenza con alcune Conferenze Episcopali particolarmente interessate a questo problema, a motivo del dialogo intrapreso da parte di personalità cattoliche con rappresentanti di alcune logge che si dichiaravano non ostili o perfino favorevoli alla Chiesa.
Ora lo studio più approfondito ha condotto la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede a confermarsi nella convinzione dell’inconciliabilità di fondo fra i principi della massoneria e quelli della fede cristiana.
Prescindendo pertanto dalla considerazione dell’atteggiamento pratico delle diverse logge, di ostilità o meno nei confronti della Chiesa, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, con la sua dichiarazione del 26.11.83, ha inteso collocarsi al livello più profondo e d’altra parte essenziale del problema: sul piano cioè dell’inconciliabilità dei principi, il che significa sul piano della fede e delle sue esigenze morali.
A partire da questo punto di vista dottrinale, in continuità del resto con la posizione tradizionale della Chiesa, come testimoniano i documenti sopra citati di Leone XIII, derivano poi le necessarie conseguenze pratiche, che valgono per tutti quei fedeli che fossero eventualmente iscritti alla massoneria.
A proposito dell’affermazione sull’inconciliabilità dei principi tuttavia si va ora da qualche parte obiettando che essenziale della massoneria sarebbe proprio il fatto di non imporre alcun "principio", nel senso di una posizione filosofica o religiosa che sia vincolante per tutti i suoi aderenti, ma piuttosto di raccogliere insieme, al di là dei confini delle diverse religioni e visioni del mondo, uomini di buona volontà sulla base di valori umanistici comprensibili e accettabili da tutti.
La massoneria costituirebbe un elemento di coesione per tutti coloro che credono nell’Architetto dell’Universo e si sentono impegnati nei confronti di quegli orientamenti morali fondamentali che sono definiti ad esempio nel Decalogo; essa non allontanerebbe nessuno dalla sua religione, ma al contrario costituirebbe un incentivo ad aderirvi maggiormente.
In questa sede non possono essere discussi i molteplici problemi storici e filosofici che si nascondono in tali affermazioni. Che anche la Chiesa cattolica spinga nel senso di una collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, non è certamente necessario sottolinearlo dopo il Concilio Vaticano II. L’associarsi nella massoneria va tuttavia decisamente oltre questa legittima collaborazione e ha un significato ben più rilevante e determinante di questo.
Innanzi tutto si deve ricordare che la comunità dei "liberi muratori" e le sue obbligazioni morali si presentano come un sistema progressivo di simboli dal carattere estremamente impegnativo. La rigida disciplina dell’arcano che vi domina rafforza ulteriormente il peso dell’interazione di segni e di idee. Questo clima di segretezza comporta, oltre tutto, per gli iscritti il rischio di divenire strumento di strategie ad essi ignote.
Anche se si afferma che il relativismo non viene assunto come dogma, tuttavia si propone di fatto una concezione simbolica relativistica, e pertanto il valore relativizzante di una tale comunità morale-rituale lungi dal poter essere eliminato, risulta al contrario determinante.
In tale contesto, le diverse comunità religiose, cui appartengono i singoli membri delle Logge, non possono essere considerate se non come semplici istituzionalizzazioni di una verità più ampia e inafferrabile. Il valore di queste istituzionalizzazioni appare, quindi, inevitabilmente relativo, rispetto a questa verità più ampia, la quale si manifesta invece piuttosto nella comunità della buona volontà, cioè nella fraternità massonica.
Per un cristiano cattolico, tuttavia, non è possibile vivere la sua relazione con Dio in una duplice modalità, scindendola cioè in una forma umanitaria - sovraconfessionale e in una forma interna - cristiana. Egli non può coltivare relazioni di due specie con Dio, né esprimere il suo rapporto con il Creatore attraverso forme simboliche di due specie. Ciò sarebbe qualcosa di completamente diverso da quella collaborazione, che per lui è ovvia, con tutti coloro che sono impegnati nel compimento del bene, anche se a partire da principi diversi. D’altronde un cristiano cattolico non può nello stesso tempo partecipare alla piena comunione della fraternità cristiana e, d’altra parte, guardare al suo fratello cristiano, a partire dalla prospettiva massonica, come a un "profano".
Anche quando, come già si è detto, non vi fosse un’obbligazione esplicita di professare il relativismo come dottrina, tuttavia la forza relativizzante di una tale fraternità, per la sua stessa logica intrinseca ha in sé la capacità di trasformare la struttura dell’atto di fede in modo così radicale da non essere accettabile da parte di un cristiano, "al quale cara è la sua fede" (Leone XIII).
Questo stravolgimento nella struttura fondamentale dell’atto di fede si compie, inoltre, per lo più, in modo morbido e senza essere avvertito: la salda adesione alla verità di Dio, rivelata nella Chiesa, diviene semplice appartenenza a un’istituzione, considerata come una forma espressiva particolare accanto ad altre forme espressive, più o meno altrettanto possibili e valide, dell’orientarsi dell’uomo all’eterno.
La tentazione ad andare in questa direzione è oggi tanto più forte, in quanto essa corrisponde pienamente a certe convinzioni prevalenti nella mentalità contemporanea. L’opinione che la verità non possa essere conosciuta è caratteristica tipica della nostra epoca e, nello stesso tempo, elemento essenziale della sua crisi generale.
Proprio considerando tutti questi elementi la Dichiarazione della S. Congregazione afferma che la Iscrizione alle associazioni massoniche "rimane proibita dalla Chiesa" e i fedeli che vi si iscrivono "sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione".
Con questa ultima espressione, la S. Congregazione indica ai fedeli che tale iscrizione costituisce obiettivamente un peccato grave e, precisando che gli aderenti a una associazione massonica non possono accedere alla Santa Comunione, essa vuole illuminare la coscienza dei fedeli su di una grave conseguenza che essi devono trarre dalla loro adesione a una loggia massonica.
La S. Congregazione dichiara infine che "non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche, con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito". A questo proposito il testo fa anche riferimento alla Dichiarazione del 17 febbraio 1981, la quale già riservava alla Sede Apostolica ogni pronunciamento sulla natura di queste associazioni che avesse implicato deroghe alla legge canonica allora in vigore (can. 2335).
Allo stesso modo il nuovo documento, emesso dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede nel novembre 1983, esprime identiche intenzioni di riserva relativamente a pronunciamenti che divergessero dal giudizio qui formulato sulla inconciliabilità dei principi della massoneria con la fede cattolica, sulla gravità dell’atto di iscriversi a una loggia e sulla conseguenza che ne deriva per l’accesso alla Santa Comunione. Questa disposizione indica che, malgrado la diversità che può sussistere fra le obbedienze massoniche, in particolare nel loro atteggiamento dichiarato verso la Chiesa, la Sede Apostolica vi riscontra alcuni principi comuni, che richiedono una medesima valutazione da parte di tutte le autorità ecclesiastiche.
Nel fare questa Dichiarazione, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede non ha inteso disconoscere gli sforzi compiuti da coloro che, con la debita autorizzazione di questo Dicastero, hanno cercato di stabilire un dialogo con rappresentanti della Massoneria. Ma, dal momento che vi era la possibilità che si diffondesse fra i fedeli l’errata opinione secondo cui ormai la adesione a una loggia massonica era lecita, essa ha ritenuto suo dovere far loro conoscere il pensiero autentico della Chiesa in proposito e metterli in guardia nei confronti di un’appartenenza incompatibile con la fede cattolica.
Solo Gesù Cristo è, infatti, il Maestro della Verità e solo in Lui i cristiani possono trovare la luce e la forza per vivere secondo il disegno di Dio, lavorando al vero bene dei loro fratelli.
© Osservatore Romano del 23-2-1985
A proposito di Carità (da "Caritas veritatis" cap. 59)
"Le società tecnologicamente avanzate non devono confondere il proprio sviluppo tecnologico con una presunta superiorità culturale, ma devono riscoprire in se stesse virtù talvolta dimenticate, che le hanno fatte fiorire lungo la storia. Le società in crescita devono rimanere fedeli a quanto di veramente umano c'è nelle loro tradizioni, evitando di sovrapporvi automaticamente i meccanismi della civiltà tecnologica globalizzata. In tutte le culture ci sono singolari e molteplici convergenze etiche, espressione della medesima natura umana, voluta dal Creatore, e che la sapienza etica dell'umanità chiama legge naturale [140]. Una tale legge morale universale è saldo fondamento di ogni dialogo culturale, religioso e politico e consente al multiforme pluralismo delle varie culture di non staccarsi dalla comune ricerca del vero, del bene e di Dio. L'adesione a quella legge scritta nei cuori, pertanto, è il presupposto di ogni costruttiva collaborazione sociale. In tutte le culture vi sono pesantezze da cui liberarsi, ombre a cui sottrarsi. La fede cristiana, che si incarna nelle culture trascendendole, può aiutarle a crescere nella convivialità e nella solidarietà universali a vantaggio dello sviluppo comunitario e planetario".


PROGRAMMA incontri della quarta tappa:

l'eclissi della ragione


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