giovedì 25 maggio 2017

4t-2-La sinistra hegeliana: Feuerbach e Marx

Le slides e la Dispensa
































Il dopo Hegel

Tre correnti si affacciano sulla scena filosofica dopo Hegel:
1.     Quella dei prosecutori dell'hegelismo, seppur criticamente: Destra e Sinistra.
2.     Quella degli anti-hegeliani sostenitori della superiorità della scienza in ogni ambito: Positivismo.
3.     Quella degli anti-hegeliani avversi ad ogni forma di razionalità: Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche.

Destra e sinistra hegeliana


Innanzitutto servirà capire cosa si intende per sinistra hegeliana e per destra hegeliana e ancora prima da dove nascono questi termini.
Questi due termini nascono all’indomani della Rivoluzione Francese, quando nelle prime riunioni del parlamento a sinistra prendevano posto gli esponenti della corrente più rivoluzionaria ostile all’aristocrazia e al Clero, a destra invece si sedevano i componenti dei partiti più moderati, in genere filo monarchici e difensori del ruolo della Chiesa. Al centro trovavano collocazione invece i membri della così detta “palude”, in quanto la loro posizione circa le linee da seguire all’indomani della Rivoluzione non erano ancora chiare, sostanzialmente non se la sentivano di essere totalmente a destra, ma nemmeno totalmente a sinistra.

Con la Rivoluzione Francese i termini di destra e sinistra fanno la loro comparsa per la prima volta sulla scena politica, configurandosi da subito come elementi essenziali della democrazia. Con gli anni i significati dei due termini si arricchiscono di connotazioni. Nel 1848 viene pubblicato il “Manifesto del Partito Comunista” di Marx, libro che condizionerà la storia successiva e sarà di fatto riferimento ideale della sinistra, relegando la destra al ruolo di partito della borghesia, del capitalismo e comunque di opposizione al comunismo e alla sinistra.

Tornando a noi, dopo la morte di Hegel i contrasti sorti sulla possibilità di conciliare la filosofia del maestro con l'ortodossia cristiana protestante e con i fondamenti dello Stato uscito dalla Restaurazione dividono gli hegeliani nelle due correnti: la destra e la sinistra hegeliane. I suoi discepoli più adulti e più conservatori porteranno avanti la destra hegeliana, i suoi discepoli più giovani e più rivoluzionari svilupparono la sinistra hegeliana contrapponendosi gli uni agli altri.
Su cosa si dividono praticamente la sinistra hegeliana e la destra hegeliana?
Il primo punto è l’argomento Religione. Avevamo visto che per Hegel la religione, insieme all’arte e alla filosofia, facevano parte del sapere assoluto, cioè il momento in cui l’idea, l’unica realtà esistente, lo spirito, prendeva consapevolezza di sé e raggiungeva la verità più piena, il sapere assoluto. L’Arte attraverso la contemplazione, la Religione attraverso la rappresentazione, la Filosofia concettualmente. Questi tre momenti rappresentavano il sapere assoluto e avevano lo stesso identico contenuto raggiunto per intuizione o per rappresentazione o concettualmente.
I discepoli di Hegel si confrontarono sulla domanda: la Religione ha senso di esistere oppure no? Va conservata o va superata? La Religione era solo un momento necessario perché questo sapere assoluto si manifestasse e che la realtà esistente prendesse consapevolezza di sé, o essendo un sapere assoluto ha legittimità e può continuare ad esistere?
Qui si dividono le due correnti. La destra hegeliana risponde mantenendo la Religione, la sinistra invece dichiara la Religione come superata. Nella logica hegeliana comunque ciò che viene dopo supera il precedente e, anche se questo viene conservato, il più attuale e quindi il più vero è il nuovo.
La religione ha avuto il suo ruolo storico, ma ora deve essere abbandonata perché finalmente con la filosofia hegeliana c’è il sapere assoluto sotto forma di concetto e non c’è più bisogno della rappresentazione religiosa.
Altro tema su cui le due scuole si dividono è quello della Società. La filosofia hegeliana affermava la perfetta identità fra il Reale e il Razionale. Tutto ciò che esiste non è altro che la manifestazione di quest’ultima realtà che è la ragione. Tutto ciò che esiste è razionale perché è la manifestazione dello spirito, è la manifestazione di Dio. Tutto ciò che esiste è come è e non può essere diverso da come è.
La destra hegeliana. La divisione avviene perché questa, la destra,  sente il bisogno di giustificare ciò che esiste. Se tutto ciò che esiste è la manifestazione dello spirito assoluto, se tutto ciò che esiste è reale ed è razionale, allora la filosofia ha il ruolo di giustificare ciò che esiste, la realtà. Tutto ciò che esiste va conservato perché è una manifestazione di Dio. La destra concilia gli opposti e, nella dialettica hegeliana (tesi, antitesi, sintesi) privilegia la sintesi, il reale, il razionale, accetta la storia per come si evolve. Fondamenti della destra sono lo stato e la religione, aspetti che hanno maggiormente influenzato la cultura occidentale.
La sinistra hegeliana invece mette a fuoco il concetto di dialettica come motore che muove tutte le cose, perché la realtà deve venire messa a confronto con il suo opposto perché solo così si va avanti, mentre la destra conservatrice rimane ferma sulle sue posizioni e non procede. Quindi la sinistra afferma che si deve criticare l’esistente, confrontarlo con il suo opposto, metterlo in contrapposizione con se stesso, perché quando si evidenziano le contraddizioni la storia va avanti, la vita va avanti. L’esistente allora non va giustificato, ma contestato, criticato e rivoluzionato. La sinistra quindi privilegia il cambiamento della realtà come necessità storica, abbandona riferimenti fissi e assoluti, nella dialettica hegeliana privilegia l’antitesi e non concilia gli opposti con la sintesi. La sinistra sposa in pieno il concetto di rivoluzione e lascerà un’orma molto profonda nel pensiero occidentale.

Ludwig Andreas Feuerbach (1804  1872)


Feuerbach (pr. Foierbak) è un filosofo tedesco tra i più influenti critici della religione ed esponente della sinistra hegeliana.
« Siamo situati all'interno della natura; e dovrebbe essere posto fuori di essa il nostro inizio, la nostra origine? Viviamo nella natura, con la natura, della natura e dovremmo tuttavia non essere derivati da essa? Quale contraddizione! » (Ludwig Feuerbach, “Essenza della religione”)
Ludwig Andreas Feuerbach nacque nel 1804 a Landshut, in Baviera, nella numerosa famiglia protestante di Paul Johann  Anselm  Ritter  von Feuerbach giurista eminente e professore di diritto. Studiò teologia a Berlino ed è lì che conosce Hegel. Feuerbach è un esponente della sinistra hegeliana per la diatriba religiosa. Si schiera contro la destra con il saggio “Pensieri sulla morte e sull’immortalità”, dove afferma che non è l’uomo a essere immortale, ma l’umanità. Visse appartato, in miseria e morì dimenticato da tutti nel 1872.
Ludwig Feuerbach ha un ruolo fondamentale nel pensiero occidentale, anche se non è un nome fra i più noti, perché è il vero padre dell’ateismo moderno. Tutta la contemporaneità è intrisa del pensiero di Feuerbach. Dovremmo precisare che più che essere il padre dell’ateismo è il padre di quel germe ateistico, di quel senso di lontananza, di diffidenza, di attenzione pregiudiziale nei confronti di Dio, un germe che segna ogni uomo della nostra epoca (credente e non credente, religioso e non, cattolico e non, ebreo e non, ecc.). L’uomo occidentale, anche quello della strada, dopo Feuerbach, ha in sé distillato il germe dell’ateismo così come lo ha codificato Feuerbach, cioè è contagiato inesorabilmente da questo germe.
Non si tratta di essere o non essere discepoli di Feuerbach, perché la filosofia di Feuerbach è uno studio del pensiero religioso (vedi la sua opera Essenza della religione”) che parte dal suo maestro Hegel dal quale però prende le distanze in modo sostanziale.
Cosa dice Feuerbach? Egli si chiede: cosa desidera davvero l’uomo? L’uomo desidera l’immortalità, cioè di essere infinito, di essere verità, bontà, bellezza, grandezza, cioè tutte le più grandi e profonde aspirazioni dell’uomo. Tutto ciò che l’uomo desidera essere, ma che al contempo sa di non poter essere, perché non ne ha né il modo né il tempo. L’uomo è limitato nel tempo, ha una sua natura fragile, ha una vita a disposizione che è così come è. L’uomo quindi non può essere nessuna delle cose che vorrebbe e che sono il suo desiderio più profondo.
Cosa fa allora l’uomo? Le tira fuori da sé, le aliena e le proietta, insieme alle proiezioni di tutti gli altri uomini, in qualcosa che chiama Dio. Ciò che l’uomo vorrebbe essere, ma non può essere, lo eternizza e fa finta che ci sia, e fa finta che quello sia Dio. Ma chi è allora Dio? Dio sono io. Ognuno di noi può dire: Dio sono io. Ma l’uomo non lo dice finché non diventa consapevole del fatto che ciò che desidera per sé, le sue aspirazioni,  la perfezione che vuole, la sua essenza la sta proiettando in un altro fuori di sé, la sta alienando.
Ma da cosa nasce veramente questo processo? Nasce da un senso di sfiducia dell’uomo nell’uomo, dell’uomo in se stesso. Perché l’uomo proietta in un essere che non esiste i suoi desideri e le sue aspirazioni? Perché l’uomo non ha fiducia nelle sue capacità e non ha fiducia nelle sue capacità perché non è consapevole di ciò che è, cioè del fatto che i suoi desideri sono invece alla sua portata, che lui può essere ciò che vuole essere. L’uomo che non è consapevole di questo inventa un Dio che non esiste, che quindi è inesorabilmente lontanissimo da lui, mentre Dio è lui stesso. Dunque questo processo di alienazione e di oggettivizzazione non dà vita a qualcosa di grande, di assoluto come pensava il suo maestro Hegel. Feuerbach pensa il suo esatto contrario. È necessario innescare un processo per mezzo del quale l’uomo possa riprendere sé stesso, recuperare sé stesso. La religione è appunto l'oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell'uomo, la proiezione di essi in un ente, che viene considerato indipendente dall'uomo e nel quale tali aspirazioni si troverebbero pienamente realizzate. Nella religione è l'uomo a fare Dio a propria immagine e somiglianza, non viceversa. Egli vede nella religione, in cui l'uomo trasferisce a un essere immaginario i suoi attributi, qualcosa che opprime l’uomo.  L’ateismo dunque è la chiave per aprire la porta della verità dell’uomo su sé stesso. L’uomo è se stesso nella misura in cui è ateo, nella misura in cui sconfigge un’ombra, fa cadere un’illusione e si riappropria di se stesso. L’infinto sono io, il vero sono io, il buono sono io, il bello sono io, sono io tutte queste cose, non Dio. È solo la scoperta che Dio non c’è che mi permette di essere me stesso.
Tutto ciò che per secoli, per millenni, si è chiamata teologia in realtà deve essere risolta in una antropologia (disciplina che studia l'essere umano nella sua totalità). Quanto c'è di vero e di essenziale nel cristianesimo deve quindi essere negato come teologia per essere conservato come Antropologia. La teologia, cioè lo studio di Dio, non è altro che lo studio dell’uomo che non ha ancora capito che tutto ciò che ha detto di Dio deve dirlo di sé stesso. La teologia si deve correggere in una antropologia. È questo il compito preciso della filosofia. La filosofia è ciò che deve aiutare gli uomini ad essere atei, a rendere ateo il mondo intero, facendo capire che la realtà è qui e che Dio è una illusione. La verità è l’uomo, Dio è la menzogna, Dio è ciò che ci impedisce di realizzarci pienamente. Abbiamo proiettato in un Dio assoluto immaginario quello che invece siamo noi. Bisogna allora rovesciare tutto.  Questo è d’ora in poi il compito della filosofia: ridare l’uomo a sé stesso, riappropriarsi dei mezzi finalizzati alla sua felicità. Quindi l’uomo non è fatto a immagine di Dio, ma è Dio lui stesso. Questo è il pensiero di Feuerbach.

 Karl Marx (Treviri 1818 – Londra 1883)


Marx è il massimo esponente della sinistra hegeliana. Noi ovviamente lo affrontiamo più come filosofo che come economista. È fondamentale capire bene il suo rapporto con il maestro. Marx di Hegel recepisce molto bene il suo pensiero, ma critica fortemente un aspetto, quello del misticismo logico, cioè l’identificazione del reale e del razionale. Secondo Marx, Hegel ha compiuto l’errore di pensare che tutto ciò che esiste è la manifestazione di una essenza razionale, di uno spirito, che è la vera realtà. Tutto ciò che esiste è realtà solo in quanto è manifestazione di quest’unica razionalità. Quindi tutta la filosofia hegeliana finisce per giustificare la realtà. Hegel vede che nella storia c’è la monarchia e quindi la monarchia è giusta, è razionale, cioè finisce per santificare e canonizzare i fatti.
La realtà è per Hegel la manifestazione dell’assoluto. Di fatto quindi la filosofia hegeliana è conservatrice, giustifica l’esistente. Marx quindi sostiene che bisogna demistificare e ribaltare Hegel, farlo camminare con i piedi per terra e toglierlo dall’astrattezza e dalla teoria. Il grande merito di Hegel è comunque la dialettica: legge fondamentale della realtà.

L’alienazione


Il grande merito di Hegel è però quello di aver scoperto la dialettica, cioè la legge fondamentale della realtà che dobbiamo solo trasportare dallo Spirito alla Storia. Cioè rendere Hegel concreto. Hegel come Feuerbach recepisce il concetto di alienazione.
Per Hegel l’alienazione era il momento nel quale l’assoluto, per potersi riconoscere, si estraniava da sé, diventava altro da sé, diventava natura. Quindi la natura rappresentava il massimo dell’estraneazione da sé stesso dell’assoluto.
Per Feuerbach l’alienazione invece è l’estraneazione dell’uomo da sé stesso, è l’estraneazione dell’uomo in Dio. Tutto questo però rimaneva a livello di coscienza e, secondo Marx, non arrivava alla realtà concreta dell’uomo. Per Marx, interessato alla realtà pratica, storica ed economica dell’uomo, l’alienazione è una condizione patologica di scissione e auto estraneazione.
Per Marx l’alienazione è essenzialmente il prodotto di una condizione economica ben precisa, quella della società capitalista borghese, che fa sì che l’uomo si alieni nel lavoro. Sono le condizioni economiche che determinano l’alienazione dell’uomo.

L’uomo è alienato nel suo lavoro. L’uomo da sempre e naturalmente è determinato
dal  suo lavoro, che sente suo, con il quale produce per se stesso quello che gli serve. Nella società capitalista e borghese, l’uomo è alienato del prodotto del suo lavoro, perché produce qualcosa che non gli appartiene, che non è suo, che praticamente non gli serve che per procurarsi un salario minimo per il suo sostentamento. L’uomo non si riconosce nell’oggetto che produce, perché lo produce per un altro, aggiungiamo che comunque quasi sempre produce una parte, un sotto assieme di un oggetto di cui non sa nemmeno a chi e a cosa serve.
L’uomo è anche alienato nella propria attività che prende la forma di un lavoro forzato, lavoro con fini estranei a sé che sono il profitto del capitalista padrone. È inoltre alienato rispetto alla propria essenza e al proprio genere. La prerogativa dell’uomo rispetto agli animali è infatti la forma del lavoro libero, creativo e universale, non legato ai meccanismi coercitivi e ripetitivi della catena di montaggio.

Il rapporto con Feuerbach


Per Marx i meriti di Feuerbach sono quelli di aver capito che c’è un primato dell’essere concreto, che l’alienazione non riguarda una ipotesi astratta come quella di Hegel, ma riguarda l’uomo reale. L’aver dichiarato che la religione è una alienazione, con la quale l’uomo si estranea da sé, si aliena.
Le critiche mosse a Feuerbach sono quelle di non aver colto le cause reali dell’alienazione, di non aver capito il perché, di non aver capito le cause storiche, reali, concrete ed economiche dell’alienazione dell’uomo, di essere rimasto sul piano teorico e contemplativo. Marx critica anche la soluzione che dà Feuerbach, cioè quella di far sì che l’uomo si appropri di se stesso praticando l’ateismo. Questa però rimane una pura dottrina. È inutile che noi combattiamo una situazione economica, che provoca questa alienazione, solo concettualmente o ideologicamente o filosoficamente o religiosamente. La vera liberazione dell’uomo avviene rimuovendo le cause economiche che determinano questa alienazione. Quando l’uomo non sarà più alienato nella società capitalista, quando cambieranno le condizioni economiche, l’uomo non farà più l’errore di estraniarsi da sé.
La soluzione al problema dell’alienazione dell’uomo non può essere filosofica, ma deve essere rivoluzionaria: cambiare la società capitalista ingiusta che determina tale alienazione.
Marx scrive un opuscoletto sulle tesi di Feuerbach nel quale alla tesi n. 6 dice che Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana, ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto e immanente nell’individuo singolo, in realtà essa, l’essenza umana, è l’insieme dei rapporti sociali. Sono i rapporti sociali che determinano cosa è l’uomo. I rapporti sociali sbagliati, i rapporti sociali ingiusti, determinano una alienazione che rimarrà in vita finché questo sistema vivrà. Quindi: primato assoluto dell’economia.
Nella tesi n. 11 Marx dichiara che i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ora si tratta di trasformarlo. Qui si delinea il primato della prassi. La filosofia diventa prassi, cioè azione pratica, si fa trasformativa del mondo. Non possiamo più rimanere sul piano astratto delle idee, solo così è possibile la redenzione dell’uomo.

Il materialismo economico


Un aspetto importante che spesso non viene messo a fuoco è il materialismo di Marx. Esso non è il materialismo  di Democrito, non è il materialismo come lo abbiamo fino ad ora concepito, cioè una visione del mondo, delle cose e dell’uomo che esclude ogni riferimento trascendente o sovrumano e quindi Dio, ma un materialismo puramente di tipo economico.
Un materialismo che dice che la materia base della realtà è l’economia. Un materialismo che considera unica verità concreta i rapporti economici, tutto ciò che serve per produrre i beni di sussistenza. Da una parte le forze produttive ( forza lavoro, mezzi di produzione, conoscenze ) e dall’altra i rapporti di produzione  fra chi possiede le forze produttive e chi non le ha. È in questa dialettica che si sviluppa l’ideologia materialista marxista.

Il materialismo storico


Tutta la realtà può essere ricondotta a questo. Marx stesso  definisce questo un materialismo storico. Esiste cioè questa base economica, che è la vera realtà e che serve da struttura, da fondamento di tutto ciò che non è economia. Marx vede le dottrine etiche, le dottrine politiche, le dottrine religiose e le espressioni artistiche come una sovrastruttura, cioè qualcosa posta sopra la struttura  economica che ne è la base. Per Marx quindi l’economia è la base di tutto, il resto sono sovrastrutture che tendono ad oscurare la vera realtà.
Prendiamo per esempio la religione. Per  Marx, la religione è fondata sull’economia. Una certa categoria di società, per regolamentare i rapporti economici e sociali fra gli individui “produce” una certa religione. Per esempio, una società capitalista, produce rapporti economici e sociali a lei congeniali, cioè fondati sullo sfruttamento del lavoro da parte del capitalista. Questa società avrà tutto il suo interesse nel produrre e sostenere  una religione come  il cristianesimo. Una religione cioè che dice “beati gli oppressi”, “beati i poveri”, ecc. perché questo è funzionale al suo sistema economico. Il capitalista ha tutto l’interesse a che il cristianesimo si diffonda. Ecco perché la religione è l’oppio dei popoli, perché di fatto impedisce all’uomo di realizzare se stesso ribellandosi a questa situazione di sfruttamento e progredire nell’uso della sua libertà. È l’economia che produce la religione.

Il materialismo dialettico


Il materialismo dialettico sostanzialmente si rifà alla  dialettica hegeliana che vedeva nella dialettica l’unico motore dell’unica realtà esistente che per Hegel è lo Spirito. Marx invece afferma che la dialettica è il motore stesso della Storia. Il materialismo storico ci descrive la realtà dal punto di vista statico (struttura e sovrastruttura),  il materialismo dialettico ce lo fa vedere dal punto di vista dinamico, cioè la storia che procede per tesi e antitesi: la lotta di classe, contrapposizione fra le forze produttive da una parte e i rapporti di produzione dall’altra, contrapposizione (lotta) fra il capitalista (possessore dei mezzi) e il proletario (forza lavoro, ex carne da cannone, servo della gleba) che fa.
Questa contraddizione deve esplodere. Più la contraddizione si fa stridente più è probabile il cambiamento che risana o riequilibra la situazione e migliora la società, è la Sintesi hegeliana che non è più l’Assoluto, ma la Storia dell’uomo.
 “Tutta la storia è storia della lotta di classe” dirà il Manifesto del Partito Comunista. La storia infatti ci dice che dalle contrapposizioni nascono delle conflittualità e delle lotte che poi portano a dei cambiamenti nei rapporti di classe e a loro volta questi cambiamenti creano altre contrapposizioni, altre lotte e altri eventi rivoluzionari che creeranno altri cambiamenti e così via, cioè la storia. Questo processo, che sembra andare all’infinito avrà invece un punto di arrivo, in Hegel l’Assoluto, in Marx il Comunismo (traguardo essenziale, naturale  e definitivo).

Il Comunismo


Per Marx il comunismo non è un ideale, qualcosa a cui aspirare, ma la meta scientifica del processo storico, meta finale necessaria a cui non si può non arrivare. In altri termini a poco a poco tutti i paesi arriveranno al momento in cui la lotta di classe avrà generato una rivoluzione proletaria e stabilito il comunismo e il suo potere politico governando i popoli con giustizia e in pace, senza soprusi e sfruttamenti. Il ruolo dell’imprenditore verrà assunto dallo stato comunista che non schiavizzerà più il  proletariato, perché il partito comunista al potere sarà il rappresentate e il garante  del popolo stesso. Il “sol dell’avvenire” è ormai alle porte, si tratta solo di saper aspettare che gli eventi si compiano e che queste contraddizioni esplodano da sé.
L’opera omnia di Marx è “Il Capitale” che pochi hanno davvero letto e studiato e che è essenzialmente un trattato di economia politica (più o meno contestato o adorato), ma i concetti che sono rimasti sono meglio espressi e condensati nel “manifesto del partito comunista” che invece tutti conoscono e al quale facciamo ora riferimento per capire meglio Marx e il Comunismo.
Il manifesto in sintesi ci dice che nella attuale società moderna il capitalista compera  la forza lavoro del proletariato, cioè retribuisce il lavoratore, gli compera il lavoro, gli dà un salario che basta al lavoratore per vivere. Attualmente però il capitalista fa lavorare il lavoratore un certo tempo in più, rispetto a quanto dovuto, generando un “plusvalore” che incamera il capitalista e che diventa il suo profitto. L’accumulo di capitale è il risultato di uno sfruttamento del lavoratore. È questa una situazione di ingiustizia che può essere superata solo con l’avvento del comunismo. Comunismo come forma di redenzione, ma anche forza di ribaltamento dei rapporti di produzione. Marx introduce anche il discorso della proprietà privata, ma che non va intesa come la proprietà privata di cose, ma la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Mezzi di produzione che debbono essere considerati di pubblica utilità e quindi non devono essere posseduti da privati. Al momento infatti chi domina nelle società capitaliste è chi possiede i mezzi di produzione. Morale, più l’industria capitalista si diffonde, più il capitale aumenta, più il lavoratore è sfruttato, più la contraddizione fra sfruttatore e sfruttato aumenta.
Più il mercato del lavoro si diffonde, più il tutto acquista una sempre maggiore valenza sociale. Più forte è lo stridore, il contrasto, la dialettica fra la proprietà dei mezzi dei produzione e chi realmente è l’attore della produzione, più si avvicina il momento valido per il ribaltamento della situazione. I proletari di tutto il mondo arriveranno ad unirsi, perché l’unione fa la forza, prenderanno coscienza del loro valore e del loro potenziale potere e realizzeranno la rivoluzione comunista.

La dittatura del proletariato


Questa rivoluzione porterà ad una necessaria, ma provvisoria, dittatura del proletariato, necessaria per consolidare il cambiamento e la presa di coscienza di sé. Questo periodo di passaggio e di adattamento, porterà i mezzi di produzione nelle mani dello stato che sarà rappresentato dal partito comunista e che provvederà al loro uso sociale. La proprietà privata dei mezzi di produzione sarà completamente abolita. Dopo di ché, cioè dopo l’avvento consolidato del comunismo, nascerà una Società senza classi e senza stato, non per volontà di qualche potente o di Dio, ma per legge scientifica. Questa è la meta finale della storia, meta scientifica, pratica, insopprimibile. Marx pensava di aver individuato l’atto finale della storia, della redenzione dell’uomo e come saremmo tornati ad una sorta di paradiso terrestre di fratellanza e pace sociale.

Vita e opere di Karl Marx

 Karl Marx nacque a Treviri il 15 maggio 1818.
Compie gli studi liceali a Treviri e poi si reca a Bonn per studiare legge. A Bonn, Karl preferiva la vita goliardica allo studio e così il padre prese la decisione di fargli proseguire gli studi nella più austera Università di Berlino, e qui si laureò.
Dopo la laurea, Marx pensò di ottenere la libera docenza a Bonn, dove insegnava il suo amico Bruno Bauer. Ma Bauer venne ben presto allontanato dall’Università. E così si chiuse, la carriera accademica di Marx, che passò al giornalismo diventando redattore della “Gazzetta renana”. Tale giornale, però, il 21 gennaio 1843 veniva ufficialmente interdetto.
A Parigi Marx conobbe Friedrich Engels, il quale gli sarà amico e collaboratore per tutta la vita. Aiutato economicamente da alcuni amici di Colonia, Marx proseguì le sue ricerche di filosofia e di economia politica. Collaborò intanto al “Vorwarts” (Avanti), giornale degli artigiani comunisti. E proprio questa collaborazione gli costerà l’espulsione dalla Francia. Nel frattempo veniva maturandosi il suo distacco dalla Sinistra hegeliana. Marx partì per l’Inghilterra nel 1849. In Inghilterra Marx si stabilì a Londra dove riuscì, aiutato economicamente dall’amico Engels, a condurre in porto tutte quelle ricerche di economia, storia, sociologia e politica che costituiscono la base de “Il Capitale”. Impegnato nell’attività di organizzazione del movimento operaio, Marx riuscì a fondare nel 1864, a Londra, la “Associazione internazionale dei lavoratori”( la Prima Internazionale).

Come nasce il marxismo


Nella seconda metà dell’800 quando il giovane Marx scrive il manifesto del partito comunista, il significato dei termini Socialista e Comunista era lontano dal significato odierno. Le teorie socialiste elaborate all’interno del movimento operaio ottocentesco comprendevano una varietà di posizioni e di voci. Per esempio quella di Saint – Simon che sognava una società in mano agli scienziati e ai produttori con una alleanza solidale della borghesia e del proletariato. Oppure quella elaborata da Fourier che auspicava la creazione di comunità volontarie di lavoro e di vita con la socializzazione della produzione e dei redditi. Il pensiero di Marx le riteneva entrambe utopiste, ma si avvicinava di più alle posizioni di chi già allora si definiva comunista. Blanqui per esempio, intellettuale francese che credeva nell’azione rivoluzionaria di una minoranza capace di guidare le masse nella presa del potere e nella trasformazione dell’economia.

  Un altro pensatore importante in quegli anni di fermento è Proudhon che pensava alla rivoluzione come un movimento dei piccoli proprietari contro lo Stato e la grande proprietà, per ottenere la loro abolizione e costituire una Società libera dai privilegi e dall’oppressione. Nel 1864 molte di queste posizioni intellettuali confluiscono nella prima internazionale, una organizzazione che unisce le associazioni dei lavoratori trasversalmente ai diversi stati.

  Nella visione di Marx, nella prima fase della rivoluzione, sarebbe nata una dittatura del proletariato, in cui l’economia avrebbe funzionato secondo il modello capitalistico, ma anziché arricchire i privati avrebbe portato beneficio a tutta la società. La fase finale della rivoluzione doveva però essere una società senza classi, costituita da uomini liberi in cui ciascuno avrebbe potuto ricevere secondo i propri bisogni e produrre secondo le proprie capacità.


Dobbiamo innanzi tutto tener conto che il marxismo è una prassi, cioè una azione, un modo di agire. La prassi è una attività pratica, specialmente se contrapposta all’attività teorica o speculativa. In questo sta la sua contrapposizione a tutti i pensatori e filosofi che lo hanno preceduto. Siamo in una epoca che ci permette di vedere come la storia ha giudicato questa prassi.
Nessuna teoria, nessun programma, sociale, politico, culturale, economico ha avuto a disposizione, come è stato per il marxismo, un così ampio e lungo laboratorio di prova. Il laboratorio di prova del così detto socialismo reale di Marx, va dall’est europeo, al centroamerica, dal corno d’Africa, all’estremo oriente, ha avuto inoltre a disposizione un arco di tempo di più di 80 anni. Ebbene dovunque è stato applicato, cioè in ogni luogo e con tanta possibilità di sviluppo e di sperimentazione ha prodotto ovunque gli stessi risultati. Perché questo? Perché Marx ha fatto esattamente ciò che ha rimproverato a tutti i suoi predecessori, è stato un filosofo teorico, un filosofo che ha scritto le sue tesi a tavolino e lo ha fatto dal suo piccolo punto di osservazione, il suo studio, la sua biblioteca, anche lui, come i suoi predecessori, circondato solo dai libri e staccato dalla realtà. La realtà si è dimostrata invece molto più complessa e in diversi casi refrattaria, se non addirittura ostile, all’insieme delle tesi di Karl Heinrich Marx. Tesi che pur costituiscono una struttura di pensiero, un organigramma di pensiero certamente affascinante e che ha davvero affascinato. Nel momento però in cui questo pensiero è stato calato nella diverse realtà del pianeta, con tutte le forze, con tutti i mezzi possibili e immaginabili, la realtà non ha risposto come ci si aspettava. La storia ha deciso diversamente e purtroppo, anche in questa rivoluzione, con l’oppressione dell’uomo che voleva invece salvare, e con abbondante versamento di sangue, il maggiore rispetto alle altre rivoluzioni.

Il marxismo e l’enciclica “Rerum novarum”


DALLA RERUM NOVARUM ALLA CENTESIMUS ANNUS
Il rapporto fra la Chiesa (e, in particolare, la Chiesa di Roma) e il marxismo è fortemente conflittuale, ed ha comportato scontri molto duri e la scomunica non soltanto per chi professasse le dottrine di Marx, ma anche per chi fosse semplicemente iscritto alle organizzazioni socialiste e comuniste. Lo scontro frontale e violento non esclude però una sorta di matrice comune.
Il documento più celebre in cui la Chiesa elabora una propria “dottrina sociale” e affronta la “questione operaia”, in contrapposizione esplicita con il socialismo marxista, è l’enciclica di Leone XIII Rerum novarum (1891). Essa costituisce il riferimento costante per tutta l’elaborazione cattolica successiva su questo tema.
Nel centenario dell’enciclica leonina Giovanni Paolo II ha scritto una nuova enciclica, la Centesimus annus, che fa il punto sulla situazione attuale della dottrina sociale della Chiesa. Lo scritto di Karol Wojtyla prende le mosse da una stimolante analisi storico-critica del documento di Leone XIII. Proponiamo qui la lettura di alcuni paragrafi di questa parte della Centesimus annus: è interessante vedere come tanto Leone XIII quanto Giovanni Paolo II accettino tratti importanti dell’analisi economica marxista e addirittura molti elementi del linguaggio di Marx.
 Lettera enciclica Centesimus annus del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II nel centenario della Rerum novarum - 10 maggio 1991
 INTRODUZIONE
 3. Intendo ora proporre una “rilettura” dell’Enciclica leonina, invitando a “guardare indietro”, al suo testo stesso per scoprire nuovamente la ricchezza dei princípi fondamentali, in essa formulati, per la soluzione della questione operaia. Ma invito anche a “guardare intorno”, alle “cose nuove”, che ci circondano ed in cui ci troviamo, per così dire, immersi, ben diverse dalle “cose nuove” che contraddistinsero l’ultimo decennio del secolo passato. [...]
 I. TRATTI CARATTERISTICI DELLA RERUM NOVARUM
 4. Sul finire del secolo scorso la Chiesa si trovò di fronte ad un processo storico, in atto già da qualche tempo, ma che raggiungeva allora un punto nevralgico. Fattore determinante di tale processo fu un insieme di radicali mutamenti avvenuti nel campo politico, economico e sociale, ma anche nell’ambito scientifico e tecnico, oltre al multiforme influsso delle ideologie dominanti. Risultato di questi cambiamenti era stata, in campo politico, una nuova concezione della società e dello Stato e, di conseguenza, dell’autorità. Una società tradizionale si dissolveva e cominciava a formarsene un’altra, carica della speranza di nuove libertà, ma anche dei pericoli di nuove forme di ingiustizia e servitù.
In campo economico, dove confluivano le scoperte e le applicazioni delle scienze, si era arrivati progressivamente a nuove strutture nella produzione dei beni di consumo. Era apparsa una nuova forma di proprietà, il capitale, e una nuova forma di lavoro, il lavoro salariato, caratterizzato da gravosi ritmi di produzione, senza i dovuti riguardi per il sesso, l’età o la situazione familiare, ma unicamente determinato dall’efficienza in vista dell’incremento del profitto.
Il lavoro diventava cosí una merce, che poteva essere liberamente acquistata e venduta sul mercato ed il cui prezzo era regolato dalla legge della domanda e dell’offerta, senza tener conto del minimo vitale necessario per il sostentamento della persona e della sua famiglia. Per di piú, il lavoratore non aveva nemmeno la sicurezza di riuscire a vendere la “propria merce”, essendo continuamente minacciato dalla disoccupazione, la quale, in assenza di previdenze sociali, significava lo spettro della morte per fame.
Conseguenza di questa trasformazione era “la divisione della società in due classi separate da un abisso profondo”: tale situazione si intrecciava con l’accentuato mutamento di ordine politico. Cosí la teoria politica allora dominante cercava di promuovere, con leggi appropriate o, al contrario, con voluta assenza di qualsiasi intervento, la totale libertà economica. Nello stesso tempo, cominciava a sorgere in forma organizzata, e non poche volte violenta, un’altra concezione della proprietà e della vita economica, che implicava una nuova organizzazione politica e sociale.
Nel momento culminante di questa contrapposizione, quando ormai apparivano in piena luce la gravissima ingiustizia della realtà sociale, quale esisteva in molte parti, ed il pericolo di una rivoluzione favorita dalle concezioni allora chiamate “socialiste”, Leone XIII intervenne con un Documento che affrontava in modo organico la “questione operaia”. [...]
 5. Le “cose nuove”, alle quali il Papa si riferiva, erano tutt’altro che positive. Il primo paragrafo dell’Enciclica descrive le “cose nuove”, che le han dato il nome, con parole forti: “Una volta suscitata la brama di cose nuove, che da tempo sta sconvolgendo gli Stati, ne sarebbe derivato come conseguenza che i desideri di cambiamenti si trasferissero alla fine dall’ordine politico al settore contiguo dell’economia. Difatti, i progressi incessanti dell’industria, le nuove strade aperte dalle professioni, le mutate relazioni tra padroni e operai; l’accumulo della ricchezza nelle mani di pochi, accanto alla miseria della moltitudine; la maggiore coscienza che i lavoratori hanno acquistato di sé e, di conseguenza, una maggiore unione tra essi ed inoltre il peggioramento dei costumi, tutte queste cose hanno fatto scoppiare un conflitto”.
Il Papa, e con lui la Chiesa, come anche la comunità civile, si trovavano di fronte ad una società divisa da un conflitto, tanto piú duro e inumano perché non conosceva regola né norma. Era il conflitto tra il capitale e il lavoro, o — come lo chiamava l’Enciclica — la questione operaia. [...]
Di fronte ad un conflitto che opponeva, quasi come “lupi”, l’uomo all’uomo fin sul piano della sussistenza fisica degli uni e dell’opulenza degli altri, il Papa non dubitò di dover intervenire [...]. Sua intenzione era certamente quella di ristabilire la pace, e il lettore contemporaneo non può non notare la severa condanna della lotta di classe, che egli pronunciava senza mezzi termini. Ma era ben consapevole del fatto che la pace si edifica sul fondamento della giustizia: contenuto essenziale dell’Enciclica fu appunto quello di proclamare le condizioni fondamentali della giustizia nella congiuntura economica e sociale di allora.
[...] L’atteggiamento del Papa nel pubblicare la Rerum novarum conferì alla Chiesa quasi uno “statuto di cittadinanza” nelle mutevoli realtà della vita pubblica, e ciò si sarebbe affermato ancor più in seguito. In effetti, per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società ed inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo Salvatore. Essa costituisce, altresì, una fonte di unità e di pace dinanzi ai conflitti che inevitabilmente insorgono nel settore economico-sociale. Diventa in tal modo possibile vivere le nuove situazioni senza avvilire la trascendente dignità della persona umana né in se stessi né negli avversari, ed avviarle a retta soluzione. [...]
 6. Proponendosi di far luce sul conflitto che si era venuto a creare tra capitale e lavoro, Leone XIII affermava i diritti fondamentali dei lavoratori. Per questo, la chiave di lettura del testo leonino è la dignità del lavoratore in quanto tale e, per ciò stesso, la dignità del lavoro, che viene definito come “l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione”. Il Pontefice qualifica il lavoro come “personale”, perché “la forza attiva è inerente alla persona e del tutto propria di chi la esercita ed al cui vantaggio fu data”. Il lavoro appartiene così alla vocazione di ogni persona; l’uomo, anzi, si esprime e si realizza nella sua attività di lavoro. Nello stesso tempo, il lavoro ha una dimensione “sociale” per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune, “poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che produce la ricchezza degli Stati”. [...]
Un altro principio rilevante è senza dubbio quello del diritto alla “proprietà privata”. Lo spazio stesso, che l’Enciclica gli dedica, rivela l’importanza che gli si attribuisce. Il Papa è ben cosciente del fatto che la proprietà privata non è un valore assoluto, né tralascia di proclamare i principi di necessaria complementarità, come quello della destinazione universale dei beni della terra.
 D’altra parte, è senz’altro vero che il tipo di proprietà privata, che egli precipuamente considera, è quello della proprietà della terra. Ciò, tuttavia, non impedisce che le ragioni addotte per tutelare la proprietà privata, ossia per affermare il diritto di possedere le cose necessarie per lo sviluppo personale e della propria famiglia — quale che sia la forma concreta che questo diritto può assumere —, conservino oggi il loro valore. Ciò deve essere nuovamente affermato sia di fronte ai cambiamenti, di cui siamo testimoni, avvenuti nei sistemi dove imperava la proprietà collettiva dei mezzi di produzione; sia anche di fronte ai crescenti fenomeni di povertà o, più esattamente, agli impedimenti della proprietà privata, che si presentano in tante parti del mondo, comprese quelle in cui predominano i sistemi che dell’affermazione del diritto di proprietà privata fanno il loro fulcro. A seguito di detti cambiamenti e della persistenza della povertà, si rivela necessaria una più profonda analisi del problema, come sarà sviluppata più avanti.
 7. In stretta relazione col diritto di proprietà l’Enciclica di Leone XIII afferma parimenti altri diritti, come propri e inalienabili della persona umana. Tra essi è preminente, per lo spazio che il Papa gli dedica e l’importanza che gli attribuisce, il “diritto naturale dell’uomo” a formare associazioni private; il che significa, anzitutto, il diritto a creare associazioni professionali di imprenditori e operai, o di soli operai. Si coglie qui la ragione per cui la Chiesa difende e approva la creazione di quelli che comunemente si chiamano sindacati, non certo per pregiudizi ideologici, né per cedere a una mentalità di classe, ma perché l’associarsi è un diritto naturale dell’essere umano e, dunque, anteriore rispetto alla sua integrazione nella società politica. Infatti, “non può lo Stato proibirne la formazione”, perché “i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, esso contraddice se stesso”. Insieme con questo diritto, che — è doveroso sottolineare — il Papa riconosce esplicitamente agli operai o, secondo il suo linguaggio, ai “proletari”, sono affermati con eguale chiarezza il diritto alla “limitazione delle ore di lavoro”, al legittimo riposo e ad un diverso trattamento dei fanciulli e delle donne quanto al tipo e alla durata del lavoro.
Se si tiene presente ciò che dice la storia circa i procedimenti consentiti, o almeno non esclusi legalmente, in ordine alla contrattazione senza alcuna garanzia né quanto alle ore di lavoro, né quanto alle condizioni igieniche dell’ambiente ed ancora senza riguardo per l’età e il sesso dei candidati all’occupazione, ben si comprende la severa affermazione del Papa. “Non è giusto né umano — egli scrive — esigere dall’uomo tanto lavoro, da farne per la troppa fatica istupidire la mente e da fiaccarne il corpo”. E con maggior precisione, riferendosi al contratto, inteso a far entrare in vigore simili “relazioni di lavoro”, afferma: “In ogni convenzione stipulata tra padroni ed operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa” che si sia provveduto convenientemente al riposo, proporzionato “alla somma delle energie consumate nel lavoro”; poi conclude: “Un patto contrario sarebbe immorale”.
 8. Subito dopo il Papa enuncia un altro diritto dell’operaio in quanto persona. Si tratta del diritto al “giusto salario”, il quale non può essere lasciato “al libero consenso delle parti: sicché il datore di lavoro, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro”. Lo Stato — si diceva a quel tempo — non ha potere di intervenire nella determinazione di questi contratti, se non per assicurare l’adempimento di quanto è stato esplicitamente pattuito. Una simile concezione delle relazioni tra padroni e operai, puramente pragmatica ed ispirata ad un rigoroso individualismo, viene severamente biasimata nell’Enciclica, perché contraria alla duplice natura del lavoro, come fatto personale e necessario. Poiché, se il lavoro, in quanto personale, rientra nella disponibilità che ciascuno ha delle proprie facoltà ed energie, in quanto necessario è regolato dal grave obbligo che ciascuno ha di “conservarsi in vita”; “di qui nasce per necessaria conseguenza — conclude il Papa — il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che per la povera gente si riducono al salario del proprio lavoro”.
Il salario deve essere sufficiente a mantenere l’operaio e la sua famiglia. Se il lavoratore, “costretto dalla necessità, o per timore del peggio, accetta patti più duri perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, e che volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza contro la quale la giustizia protesta”.
Voglia Dio che queste parole, scritte mentre avanzava il cosiddetto “capitalismo selvaggio”, non debbano oggi essere ripetute con la medesima severità. Purtroppo, si riscontrano ancora oggi casi di contratti tra padroni e operai, nei quali è ignorata la più elementare giustizia in materia di lavoro minorile o femminile, circa gli orari di lavoro, lo stato igienico dei locali e l’equa retribuzione. [...]
 10. Un’altra importante nota, ricca di insegnamenti per i nostri giorni, è la concezione dei rapporti tra lo Stato ed i cittadini. La Rerum novarum critica i due sistemi sociali ed economici: il socialismo e il liberalismo. Al primo è dedicata la parte iniziale, nella quale si riafferma il diritto alla proprietà privata; al secondo non è dedicata una speciale sezione, ma — cosa meritevole di attenzione — si riservano le critiche, quando si affronta il tema dei doveri dello Stato. Questo non può limitarsi a “provvedere ad una parte dei cittadini”, cioè a quella ricca e prospera, e non può “trascurare l’altra”, che rappresenta indubbiamente la grande maggioranza del corpo sociale; altrimenti si offende la giustizia, che vuole si renda a ciascuno il suo. “Tuttavia, nel tutelare questi diritti dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. La classe dei ricchi, forte per se stessa, ha meno bisogno della pubblica difesa; la classe proletaria, mancando di un proprio sostegno, ha speciale necessità di cercarla nella protezione dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e bisognosi, lo Stato deve rivolgere di preferenza le sue cure e provvidenze”.

”Il fine che giustifica i mezzi”- Joseph Ratzinger


 “ … un’evidenza già molto familiare all’uomo dell’antichità classica, che noi oggi dobbiamo riattingere e considerare … è il principio chiave della morale “mai il fine può giustificare i mezzi”. Ciò che è in sé “male” resta “male”, anche quando venisse impiegato per i fini più nobili. Non è possibile, calpestando seppur con buone intenzioni l’umanità dell’uomo, edificare e realizzare pienamene questa sua stessa umanità. Se i mezzi sono inumani, alla fine l’esito non potrà essere altro che inumanità.
Il fenomeno odierno del “terrorismo” ci interpella proprio come cristiani e pone in gioco tutta la nostra responsabilità di cristiani. In tutte quelle forme di terrorismo che, a diverso titolo, si richiamano alla teoria marxista (o ad altre ideologie), emerge in ultima istanza una medesima pretesa: l’uomo vuole esattamente rivendicare a sé il ruolo che è della Provvidenza di Dio. L’uomo vuole prendere il “posto” che è di Dio: la vicenda del paradiso e della tentazione diabolica è di una sconcertante attualità. L’uomo vuol provvedere da sé a fissare la “meta” della storia. Non credendo in Dio, egli ritiene di dover essere proprio lui a “guidare” il corso degli eventi; e così egli agisce come s’immagina che agirebbe un dio” (come agirebbe se lui fosse quel dio). (Tratto da Munchener Katholische Kirchenzeitung rivista dell’Arcidiocesi di Monaco di Baviera, 1970?)
Il paradiso è dunque un mondo governato da Dio, suo creatore. L’inferno è il mondo governato dall’uomo “drogato” dal suo peccato originale, creatore del suo stesso male [Ndr].

Redenzione dalla sofferenza di Marx J.Ratzinger


L’immagine del Cristo crocifisso, […] evidenzia tutta la gravità della condizione umana. […]. Un profondo equivoco oggi ha colpito molti uomini che seguendo Marx, considerano il conforto celeste, in questa valle di lacrime terrena, come un inganno […] che torna a profitto solo di coloro ai quali preme il mantenimento della situazione presente. Al posto dell’inganno, della lusinga, essi esigono quella trasformazione che elimini la sofferenza e perciò redima. La parola d’ordine è: non redenzione mediante la sofferenza, ma redenzione dalla sofferenza. Di qui il compito fondamentale [dell’uomo] non è l’apertura e l’attesa dell’aiuto di Dio [e la speranza della resurrezione] bensì l’umanizzazione dell’uomo ad opera dell’uomo. (Tratto da “Dogma e predicazione” - Joseph Ratzinger 1977)

“Il mondo nuovo” di Hegel e Marx - Joseph Ratzinger


Nel nostro tempo la parola “speranza” è diventata quasi una specie di calamita che attira a se tutti i moti dello spirito. In ciò si esprime la profonda insoddisfazione dell’uomo contemporaneo nei confronti della sua vita e del mondo, così come egli ne fa esperienza. L’uomo d’oggi è alla ricerca di un “nuovo mondo”, diverso, migliore.
Fin dalla rivoluzione francese del 1789, e poi ancora di più per l’influsso delle filosofie di Hegel e di Marx, l’edificazione del “mondo nuovo” è divenuta il tema dominante della storia universale. Ma quanto più si tenta, tanto più ci si accorge che il mondo non può rinnovarsi se gli uomini rimangono “vecchi”, cioè come prima: perché il mondo divenga “diverso”, prima di tutto l’uomo deve diventare un “altro”.
Sociologia, psicologia, tutto intero il settore delle così dette “scienze umane”, tentano di scoprire come si possa creare l’”uomo nuovo”. E, nelle sue molteplici iniziative di emancipazione, la nostra epoca fa potentemente vacillare le sbarre delle prigioni che soffocano la libertà dell’uomo. Ma ora appare anche sempre più evidente che, invece di una liberazione soltanto, è in atto anche la demolizione di quelle fondamenta dell’umanità degli uomini che, nel corso dei secoli, lo spirito e la libertà dell’uomo avevano faticosamente scavate. Erompe così di nuovo, in forme spaventose, sulla scena della storia l’antica barbarie dei primordi del genere umano. Nessun altro secolo, prima del nostro, ha conosciuto forme così brutali di tortura, di uccisione, di autodistruzione dell’uomo. Impariamo di nuovo a riconoscere, con orrore, che cosa significa “paganesimo”, chi è l’antico Adamo.
L’aspirazione all’uomo nuovo è un’istanza positiva di affermazione, non di negazione. Essa non si fonda sul disprezzo della creazione e dei compiti e delle possibilità che essa ci offre. La speranza cristiana non ha niente da spartire con l’anarchia e l’esaltazione utopica. Il cristiano non sfugge gli impegni del momento  presente, non se la prende con il mondo, ma si concentra in tutta sobrietà sulle urgenze che il nostro tempo e il nostro mondo gli sottopongono perché se ne faccia responsabilmente carico. Essere cristiani significa permanere nella virtù della sobrietà. Il cristiano non si rifugia nell’utopia, né lascia andare in rovina il mondo d’oggi, sognando mondi immaginari e futuri (con l’eliminazione dei nemici del popolo e con le pulizie etniche [NdR]); giorno dopo giorno egli vive amando responsabilmente il presente.
Senza tale realismo cristiano e senza amore umile per le piccole cose della vita quotidiana non può darsi il grande tesoro della vita nuova, e del suo amore eterno.
(J. Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, ne“L’osservatore romano” 11 – 1981 n. 3 p. 10)


I dissensi e gli errori degli uomini in materia religiosa e morale, per tutti gli onesti, soprattutto dei i sinceri e fedeli figli della Chiesa, sono sempre stati origine e causa di fortissimo dolore, ma specialmente oggi, quando vediamo come da ogni parte vengano offesi gli stessi principi della cultura cristiana.
Veramente non c'è da meravigliarsi, se fuori dell'ovile di Cristo sempre vi sono stati questi dissensi ed errori. Benché la ragione umana, assolutamente parlando, con le sue forze e con la sua luce naturale possa effettivamente arrivare alla conoscenza, vera e certa, di Dio unico e personale, che con la sua Provvidenza sostiene e governa il mondo, e anche alla conoscenza della legge naturale impressa dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia non pochi sono gli ostacoli che impediscono alla nostra ragione di servirsi con efficacia e con frutto di questo suo naturale potere. Le verità che riguardano Dio e le relazioni tra gli uomini e Dio trascendono del tutto l'ordine delle cose sensibili; quando poi si fanno entrare nella pratica della vita e la informano, allora richiedono sacrificio e abnegazione.
Nel raggiungere tali verità, l'intelletto umano incontra ostacoli della fantasia, sia per le cattive passioni provenienti dal peccato originale. Avviene che gli uomini in queste cose volentieri si persuadono che sia falso, o almeno dubbio, ciò che essi "non vogliono che sia vero". Per questi motivi si deve dire che la Rivelazione divina è moralmente necessaria affinché quelle verità che in materia religiosa e morale non sono per sé irraggiungibili, si possano da tutti conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore. (Conc. Vat. D. B. 1876, Cost. "De fide Cath.", cap. II, De revelatione).

Anzi la mente umana qualche volta può trovare difficoltà anche nel formarsi un giudizio certo di credibilità circa la fede cattolica, benché da Dio siano stati disposti tanti e mirabili segni esterni, per cui anche con la sola luce naturale della ragione si può provare con certezza l'origine divina della religione cristiana. L'uomo infatti, sia perché guidato da pregiudizi, sia perché istigato da passioni e da cattiva volontà, non solo può negare la chiara evidenza dei segni esterni, ma anche resistere alle ispirazioni che Dio infonde nelle nostre anime.

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