Il dopo Hegel
Tre correnti si affacciano sulla scena filosofica
dopo Hegel:
1.
Quella dei prosecutori dell'hegelismo, seppur
criticamente: Destra e Sinistra.
2.
Quella degli anti-hegeliani sostenitori della
superiorità della scienza in ogni ambito: Positivismo.
3.
Quella degli anti-hegeliani avversi ad ogni forma di
razionalità: Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche.
Destra e sinistra hegeliana
Innanzitutto
servirà capire cosa si intende per sinistra hegeliana e per destra hegeliana e
ancora prima da dove nascono questi termini.
Questi due termini
nascono all’indomani della Rivoluzione Francese, quando nelle prime riunioni
del parlamento a sinistra prendevano posto gli esponenti della corrente più
rivoluzionaria ostile all’aristocrazia e al Clero, a destra invece si sedevano
i componenti dei partiti più moderati, in genere filo monarchici e difensori
del ruolo della Chiesa. Al centro trovavano collocazione invece i membri della
così detta “palude”, in quanto la loro posizione circa le linee da seguire
all’indomani della Rivoluzione non erano ancora chiare, sostanzialmente non se
la sentivano di essere totalmente a destra, ma nemmeno totalmente a sinistra.
Con la Rivoluzione
Francese i termini di destra e sinistra fanno la loro comparsa per la prima
volta sulla scena politica, configurandosi da subito come elementi essenziali
della democrazia. Con gli anni i significati dei due termini si arricchiscono
di connotazioni. Nel 1848 viene pubblicato il “Manifesto del Partito Comunista”
di Marx, libro che condizionerà la storia successiva e sarà di fatto
riferimento ideale della sinistra, relegando la destra al ruolo di partito
della borghesia, del capitalismo e comunque di opposizione al comunismo e alla
sinistra.
Tornando a noi,
dopo la
morte di Hegel i contrasti sorti sulla possibilità di conciliare la filosofia
del maestro con l'ortodossia cristiana protestante e con i fondamenti dello
Stato uscito dalla Restaurazione dividono gli hegeliani nelle due correnti: la
destra e la sinistra hegeliane. I suoi discepoli più adulti e
più conservatori porteranno avanti la destra hegeliana, i suoi discepoli più
giovani e più rivoluzionari svilupparono la sinistra hegeliana contrapponendosi
gli uni agli altri.
Su
cosa si dividono praticamente la sinistra hegeliana e la destra hegeliana?
Il
primo punto è l’argomento Religione. Avevamo visto che per Hegel la religione,
insieme all’arte e alla filosofia, facevano parte del sapere assoluto, cioè il
momento in cui l’idea, l’unica realtà esistente, lo spirito, prendeva
consapevolezza di sé e raggiungeva la verità più piena, il sapere assoluto.
L’Arte attraverso la contemplazione, la Religione attraverso la
rappresentazione, la Filosofia concettualmente. Questi tre momenti
rappresentavano il sapere assoluto e avevano lo stesso identico contenuto
raggiunto per intuizione o per rappresentazione o concettualmente.
I
discepoli di Hegel si confrontarono sulla domanda: la Religione ha senso di
esistere oppure no? Va conservata o va superata? La Religione era solo un
momento necessario perché questo sapere assoluto si manifestasse e che la
realtà esistente prendesse consapevolezza di sé, o essendo un sapere assoluto
ha legittimità e può continuare ad esistere?
Qui
si dividono le due correnti. La destra hegeliana risponde mantenendo la Religione,
la sinistra invece dichiara la Religione come superata. Nella logica hegeliana
comunque ciò che viene dopo supera il precedente e, anche se questo viene
conservato, il più attuale e quindi il più vero è il nuovo.
La
religione ha avuto il suo ruolo storico, ma ora deve essere abbandonata perché
finalmente con la filosofia hegeliana c’è il sapere assoluto sotto forma di
concetto e non c’è più bisogno della rappresentazione religiosa.
Altro
tema su cui le due scuole si dividono è quello della Società. La filosofia
hegeliana affermava la perfetta identità fra il Reale e il Razionale. Tutto ciò
che esiste non è altro che la manifestazione di quest’ultima realtà che è la
ragione. Tutto ciò che esiste è razionale perché è la manifestazione dello
spirito, è la manifestazione di Dio. Tutto ciò che esiste è come è e non può
essere diverso da come è.
La
destra hegeliana.
La divisione avviene perché questa, la destra, sente il bisogno di giustificare ciò che
esiste. Se tutto ciò che esiste è la manifestazione dello spirito assoluto, se
tutto ciò che esiste è reale ed è razionale, allora la filosofia ha il ruolo di
giustificare ciò che esiste, la realtà. Tutto ciò che esiste va conservato
perché è una manifestazione di Dio. La destra concilia gli opposti e, nella
dialettica hegeliana (tesi, antitesi, sintesi) privilegia la sintesi, il reale,
il razionale, accetta la storia per come si evolve. Fondamenti della destra sono lo stato e la religione, aspetti che
hanno maggiormente influenzato la cultura occidentale.
La sinistra
hegeliana invece
mette a fuoco il concetto di dialettica come motore che muove tutte le cose,
perché la realtà deve venire messa a confronto con il suo opposto perché solo
così si va avanti, mentre la destra conservatrice rimane ferma sulle sue
posizioni e non procede. Quindi la sinistra afferma che si deve criticare
l’esistente, confrontarlo con il suo opposto, metterlo in contrapposizione con
se stesso, perché quando si evidenziano le contraddizioni la storia va avanti,
la vita va avanti. L’esistente allora non va giustificato, ma contestato,
criticato e rivoluzionato. La sinistra quindi privilegia il cambiamento della
realtà come necessità storica, abbandona riferimenti fissi e assoluti, nella
dialettica hegeliana privilegia l’antitesi e non concilia gli opposti con la
sintesi. La sinistra sposa in pieno il concetto di rivoluzione e lascerà
un’orma molto profonda nel pensiero occidentale.
Ludwig Andreas Feuerbach (1804 – 1872)
Feuerbach (pr. Foierbak)
è un filosofo tedesco tra i più influenti critici della religione ed esponente della sinistra
hegeliana.
« Siamo situati all'interno della natura; e dovrebbe essere
posto fuori di essa il nostro inizio, la nostra origine? Viviamo nella
natura, con la natura, della natura e dovremmo tuttavia non essere derivati
da essa? Quale contraddizione! » (Ludwig
Feuerbach, “Essenza della religione”)
Ludwig Andreas Feuerbach
nacque nel 1804 a Landshut, in Baviera, nella numerosa
famiglia protestante di Paul Johann Anselm
Ritter von Feuerbach giurista
eminente e professore di diritto. Studiò teologia a
Berlino ed è lì che conosce Hegel. Feuerbach è un esponente della sinistra
hegeliana per la diatriba religiosa. Si schiera contro la destra con il
saggio “Pensieri sulla morte e sull’immortalità”, dove afferma che non è
l’uomo a essere immortale, ma l’umanità.
Visse appartato, in miseria e morì dimenticato
da tutti nel 1872.
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Ludwig Feuerbach ha un ruolo fondamentale nel pensiero
occidentale, anche se non è un nome fra i più noti, perché è il vero padre
dell’ateismo moderno. Tutta la contemporaneità è intrisa del pensiero di
Feuerbach. Dovremmo precisare che più che essere il padre dell’ateismo è il
padre di quel germe ateistico, di quel senso di lontananza, di diffidenza, di
attenzione pregiudiziale nei confronti di Dio, un germe che segna ogni uomo
della nostra epoca (credente e non credente, religioso e non, cattolico e
non, ebreo e non, ecc.). L’uomo occidentale, anche quello della strada, dopo
Feuerbach, ha in sé distillato il germe dell’ateismo così come lo ha
codificato Feuerbach, cioè è contagiato inesorabilmente da questo germe.
Non si tratta di essere o non essere discepoli di Feuerbach,
perché la filosofia di Feuerbach è uno studio del pensiero religioso (vedi la
sua opera “Essenza della
religione”) che parte dal suo maestro Hegel dal quale però prende le
distanze in modo sostanziale.
Cosa dice Feuerbach? Egli si chiede: cosa desidera davvero
l’uomo? L’uomo desidera l’immortalità, cioè di essere infinito, di essere
verità, bontà, bellezza, grandezza, cioè tutte le più grandi e profonde
aspirazioni dell’uomo. Tutto ciò che l’uomo desidera essere, ma che al
contempo sa di non poter essere, perché non ne ha né il modo né il tempo.
L’uomo è limitato nel tempo, ha una sua natura fragile, ha una vita a
disposizione che è così come è. L’uomo quindi non può essere nessuna delle
cose che vorrebbe e che sono il suo desiderio più profondo.
Cosa fa allora l’uomo? Le tira fuori da sé, le aliena e le
proietta, insieme alle proiezioni di tutti gli altri uomini, in qualcosa che
chiama Dio. Ciò che l’uomo vorrebbe essere, ma non può essere, lo eternizza e
fa finta che ci sia, e fa finta che quello sia Dio. Ma chi è allora Dio? Dio
sono io. Ognuno di noi può dire: Dio sono io. Ma l’uomo non lo dice finché
non diventa consapevole del fatto che ciò che desidera per sé, le sue
aspirazioni, la perfezione che vuole,
la sua essenza la sta proiettando in un altro fuori di sé, la sta alienando.
Ma da cosa nasce veramente questo processo? Nasce da un senso di
sfiducia dell’uomo nell’uomo, dell’uomo in se stesso. Perché l’uomo proietta
in un essere che non esiste i suoi desideri e le sue aspirazioni? Perché
l’uomo non ha fiducia nelle sue capacità e non ha fiducia nelle sue capacità
perché non è consapevole di ciò che è, cioè del fatto che i suoi desideri
sono invece alla sua portata, che lui può essere ciò che vuole essere. L’uomo
che non è consapevole di questo inventa un Dio che non esiste, che quindi è
inesorabilmente lontanissimo da lui, mentre Dio è lui stesso. Dunque questo
processo di alienazione e di oggettivizzazione non dà vita a qualcosa di
grande, di assoluto come pensava il suo maestro Hegel. Feuerbach pensa il suo
esatto contrario. È necessario innescare un processo per mezzo del quale
l’uomo possa riprendere sé stesso, recuperare sé stesso. La religione è appunto l'oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell'uomo, la proiezione di
essi in un ente, che viene considerato indipendente dall'uomo e nel quale
tali aspirazioni si troverebbero pienamente realizzate. Nella religione è
l'uomo a fare Dio a propria immagine e somiglianza, non viceversa. Egli vede nella
religione, in cui l'uomo trasferisce a un essere immaginario i suoi
attributi, qualcosa che opprime l’uomo. L’ateismo dunque è la
chiave per aprire la porta della verità dell’uomo su sé stesso. L’uomo è se
stesso nella misura in cui è ateo, nella misura in cui sconfigge un’ombra, fa
cadere un’illusione e si riappropria di se stesso. L’infinto sono io, il vero
sono io, il buono sono io, il bello sono io, sono io tutte queste cose, non
Dio. È solo la scoperta che Dio non c’è che mi permette di essere me stesso.
Tutto ciò che per secoli, per millenni, si è chiamata teologia
in realtà deve essere risolta in una antropologia (disciplina che studia l'essere umano nella sua totalità).
Quanto
c'è di vero e di essenziale nel cristianesimo deve quindi essere negato come
teologia per essere conservato come Antropologia. La teologia, cioè lo studio di Dio, non è altro che lo studio
dell’uomo che non ha ancora capito che tutto ciò che ha detto di Dio deve
dirlo di sé stesso. La teologia si deve correggere in una antropologia. È
questo il compito preciso della filosofia. La filosofia è ciò che deve
aiutare gli uomini ad essere atei, a rendere ateo il mondo intero, facendo
capire che la realtà è qui e che Dio è una illusione. La verità è l’uomo, Dio
è la menzogna, Dio è ciò che ci impedisce di realizzarci pienamente. Abbiamo
proiettato in un Dio assoluto immaginario quello che invece siamo noi. Bisogna
allora rovesciare tutto. Questo è
d’ora in poi il compito della filosofia: ridare l’uomo a sé stesso, riappropriarsi
dei mezzi finalizzati alla sua felicità. Quindi l’uomo non è fatto a immagine
di Dio, ma è Dio lui stesso. Questo è il pensiero di Feuerbach.
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Karl Marx (Treviri 1818 – Londra 1883)
Marx è il
massimo esponente della sinistra hegeliana. Noi ovviamente lo affrontiamo più
come filosofo che come economista. È fondamentale capire bene il suo rapporto
con il maestro. Marx di Hegel recepisce molto bene il suo pensiero, ma critica
fortemente un aspetto, quello del misticismo
logico, cioè l’identificazione del reale e del razionale. Secondo Marx,
Hegel ha compiuto l’errore di pensare che tutto ciò che esiste è la
manifestazione di una essenza razionale, di uno spirito, che è la vera realtà.
Tutto ciò che esiste è realtà solo in quanto è manifestazione di quest’unica
razionalità. Quindi tutta la filosofia hegeliana finisce per giustificare la
realtà. Hegel vede che nella storia c’è la monarchia e quindi la monarchia è
giusta, è razionale, cioè finisce per santificare e canonizzare i fatti.
La realtà è per Hegel la manifestazione
dell’assoluto. Di fatto quindi la filosofia
hegeliana è conservatrice, giustifica l’esistente. Marx quindi sostiene che
bisogna demistificare e ribaltare Hegel, farlo camminare con i piedi per terra
e toglierlo dall’astrattezza e dalla teoria. Il grande merito di Hegel è
comunque la dialettica: legge fondamentale della realtà.
L’alienazione
Il grande merito
di Hegel è però quello di aver scoperto la
dialettica, cioè la legge fondamentale della realtà che dobbiamo solo
trasportare dallo Spirito alla Storia. Cioè rendere Hegel concreto. Hegel come Feuerbach
recepisce il concetto di alienazione.
Per Hegel
l’alienazione era il momento nel quale l’assoluto, per potersi riconoscere, si
estraniava da sé, diventava altro da sé, diventava natura. Quindi la natura
rappresentava il massimo dell’estraneazione da sé stesso dell’assoluto.
Per Feuerbach
l’alienazione invece è l’estraneazione dell’uomo da sé stesso, è
l’estraneazione dell’uomo in Dio. Tutto questo però rimaneva a livello di
coscienza e, secondo Marx, non arrivava alla realtà concreta dell’uomo. Per
Marx, interessato alla realtà pratica, storica ed economica dell’uomo,
l’alienazione è una condizione patologica di scissione e auto estraneazione.
Per
Marx l’alienazione è essenzialmente il prodotto di una condizione economica ben
precisa, quella della società capitalista borghese, che fa sì che l’uomo si
alieni nel lavoro. Sono le condizioni economiche che determinano l’alienazione
dell’uomo.
L’uomo
è alienato nel suo lavoro. L’uomo da sempre e naturalmente è determinato
dal suo lavoro, che sente suo, con il quale
produce per se stesso quello che gli serve. Nella società capitalista e
borghese, l’uomo è alienato del prodotto del suo lavoro, perché produce
qualcosa che non gli appartiene, che non è suo, che praticamente non gli serve
che per procurarsi un salario minimo per il suo sostentamento. L’uomo non si
riconosce nell’oggetto che produce, perché lo produce per un altro, aggiungiamo
che comunque quasi sempre produce una parte, un sotto assieme di un oggetto di
cui non sa nemmeno a chi e a cosa serve.
L’uomo è anche
alienato nella propria attività che prende la forma di un lavoro forzato,
lavoro con fini estranei a sé che sono il profitto del capitalista padrone. È
inoltre alienato rispetto alla propria essenza e al proprio genere. La
prerogativa dell’uomo rispetto agli animali è infatti la forma del lavoro
libero, creativo e universale, non legato ai meccanismi coercitivi e ripetitivi
della catena di montaggio.
Il rapporto con Feuerbach
Per Marx i meriti
di Feuerbach sono quelli di aver capito che c’è un primato dell’essere
concreto, che l’alienazione non riguarda una ipotesi astratta come quella di
Hegel, ma riguarda l’uomo reale. L’aver dichiarato che la religione è una
alienazione, con la quale l’uomo si estranea da sé, si aliena.
Le critiche mosse
a Feuerbach sono quelle di non aver colto le cause reali dell’alienazione, di
non aver capito il perché, di non aver capito le cause storiche, reali,
concrete ed economiche dell’alienazione dell’uomo, di essere rimasto sul piano
teorico e contemplativo. Marx critica anche la soluzione che dà Feuerbach, cioè
quella di far sì che l’uomo si appropri di se stesso praticando l’ateismo.
Questa però rimane una pura dottrina. È inutile che noi combattiamo una
situazione economica, che provoca questa alienazione, solo concettualmente o
ideologicamente o filosoficamente o religiosamente. La vera liberazione
dell’uomo avviene rimuovendo le cause economiche che determinano questa
alienazione. Quando l’uomo non sarà più alienato nella società capitalista,
quando cambieranno le condizioni economiche, l’uomo non farà più l’errore di
estraniarsi da sé.
La soluzione al problema dell’alienazione dell’uomo
non può essere filosofica, ma deve essere rivoluzionaria: cambiare la società
capitalista ingiusta che determina tale alienazione.
Marx scrive un
opuscoletto sulle tesi di Feuerbach nel quale alla tesi n. 6 dice che Feuerbach
risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana, ma l’essenza umana non è
qualcosa di astratto e immanente nell’individuo singolo, in realtà essa,
l’essenza umana, è l’insieme dei rapporti sociali. Sono i rapporti sociali che determinano cosa è l’uomo. I rapporti
sociali sbagliati, i rapporti sociali ingiusti, determinano una alienazione che
rimarrà in vita finché questo sistema vivrà. Quindi: primato assoluto dell’economia.
Nella tesi n. 11
Marx dichiara che i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo,
ora si tratta di trasformarlo. Qui si delinea il primato della prassi. La filosofia diventa prassi, cioè azione
pratica, si fa trasformativa del mondo. Non possiamo più rimanere sul piano
astratto delle idee, solo così è possibile la redenzione dell’uomo.
Il materialismo economico
Un aspetto
importante che spesso non viene messo a fuoco è il materialismo di Marx. Esso
non è il materialismo di Democrito, non
è il materialismo come lo abbiamo fino ad ora concepito, cioè una visione del
mondo, delle cose e dell’uomo che esclude ogni riferimento trascendente o
sovrumano e quindi Dio, ma un materialismo puramente di tipo economico.
Un materialismo
che dice che la materia base della realtà è l’economia. Un materialismo che
considera unica verità concreta i rapporti economici, tutto ciò che serve per
produrre i beni di sussistenza. Da una parte le forze produttive ( forza lavoro, mezzi di produzione, conoscenze )
e dall’altra i rapporti di produzione fra chi possiede le forze produttive e chi
non le ha. È in questa dialettica che si sviluppa l’ideologia materialista
marxista.
Il materialismo storico
Tutta la realtà
può essere ricondotta a questo. Marx stesso
definisce questo un materialismo
storico. Esiste cioè questa base economica, che è la vera realtà e che
serve da struttura, da fondamento di tutto ciò che non è economia. Marx vede le
dottrine etiche, le dottrine politiche, le dottrine religiose e le espressioni
artistiche come una sovrastruttura,
cioè qualcosa posta sopra la struttura
economica che ne è la base. Per Marx quindi l’economia è la base di
tutto, il resto sono sovrastrutture che tendono ad oscurare la vera realtà.
Prendiamo per
esempio la religione. Per Marx, la religione
è fondata sull’economia. Una certa categoria di società, per regolamentare i
rapporti economici e sociali fra gli individui “produce” una certa religione.
Per esempio, una società capitalista, produce rapporti economici e sociali a
lei congeniali, cioè fondati sullo sfruttamento del lavoro da parte del
capitalista. Questa società avrà tutto il suo interesse nel produrre e
sostenere una religione come il cristianesimo. Una religione cioè che dice
“beati gli oppressi”, “beati i poveri”, ecc. perché questo è funzionale al suo
sistema economico. Il capitalista ha tutto l’interesse a che il cristianesimo
si diffonda. Ecco perché la religione è l’oppio dei popoli, perché di fatto
impedisce all’uomo di realizzare se stesso ribellandosi a questa situazione di
sfruttamento e progredire nell’uso della sua libertà. È l’economia che produce
la religione.
Il materialismo dialettico
Il materialismo dialettico sostanzialmente
si rifà alla dialettica hegeliana che
vedeva nella dialettica l’unico motore dell’unica realtà esistente che per
Hegel è lo Spirito. Marx invece afferma che la dialettica è il motore stesso
della Storia. Il materialismo storico ci descrive la realtà dal punto di vista
statico (struttura e sovrastruttura), il
materialismo dialettico ce lo fa vedere dal punto di vista dinamico, cioè la
storia che procede per tesi e antitesi:
la lotta di classe, contrapposizione fra le forze produttive da una parte e i rapporti di produzione dall’altra, contrapposizione (lotta) fra il capitalista (possessore dei mezzi) e il
proletario (forza lavoro, ex carne
da cannone, servo della gleba) che fa.
Questa
contraddizione deve esplodere. Più la contraddizione si fa stridente più è
probabile il cambiamento che risana o riequilibra la situazione e migliora la
società, è la Sintesi hegeliana che non è più l’Assoluto, ma la Storia
dell’uomo.
“Tutta la storia è storia della lotta di
classe” dirà il Manifesto del Partito Comunista. La storia infatti ci dice che
dalle contrapposizioni nascono delle conflittualità e delle lotte che poi
portano a dei cambiamenti nei rapporti di classe e a loro volta questi
cambiamenti creano altre contrapposizioni, altre lotte e altri eventi rivoluzionari
che creeranno altri cambiamenti e così via, cioè la storia. Questo processo,
che sembra andare all’infinito avrà invece un punto di arrivo, in Hegel l’Assoluto, in Marx il Comunismo (traguardo essenziale, naturale e definitivo).
Il Comunismo
Per Marx il
comunismo non è un ideale, qualcosa a cui aspirare, ma la meta scientifica del
processo storico, meta finale necessaria a cui non si può non arrivare. In
altri termini a poco a poco tutti i paesi arriveranno al momento in cui la
lotta di classe avrà generato una rivoluzione proletaria e stabilito il
comunismo e il suo potere politico governando i popoli con giustizia e in pace,
senza soprusi e sfruttamenti. Il ruolo dell’imprenditore verrà assunto dallo
stato comunista che non schiavizzerà più il
proletariato, perché il partito comunista al potere sarà il
rappresentate e il garante del popolo
stesso. Il “sol dell’avvenire” è ormai alle porte, si tratta solo di saper
aspettare che gli eventi si compiano e che queste contraddizioni esplodano da
sé.
L’opera omnia di
Marx è “Il Capitale” che pochi hanno davvero letto e studiato e che è
essenzialmente un trattato di economia politica (più o meno contestato o
adorato), ma i concetti che sono rimasti sono meglio espressi e condensati nel
“manifesto del partito comunista” che invece tutti conoscono e al quale
facciamo ora riferimento per capire meglio Marx e il Comunismo.
Il manifesto in
sintesi ci dice che nella attuale società moderna il capitalista compera la forza lavoro del proletariato, cioè
retribuisce il lavoratore, gli compera il lavoro, gli dà un salario che basta
al lavoratore per vivere. Attualmente però il capitalista fa lavorare il
lavoratore un certo tempo in più, rispetto a quanto dovuto, generando un
“plusvalore” che incamera il capitalista e che diventa il suo profitto. L’accumulo
di capitale è il risultato di uno sfruttamento del lavoratore. È questa una
situazione di ingiustizia che può essere superata solo con l’avvento del
comunismo. Comunismo come forma di redenzione, ma anche forza di ribaltamento
dei rapporti di produzione. Marx introduce anche il discorso della proprietà
privata, ma che non va intesa come la proprietà privata di cose, ma la
proprietà privata dei mezzi di produzione.
Mezzi di
produzione che debbono essere considerati di pubblica utilità e quindi non devono
essere posseduti da privati. Al momento infatti chi domina nelle società
capitaliste è chi possiede i mezzi di produzione. Morale, più l’industria
capitalista si diffonde, più il capitale aumenta, più il lavoratore è
sfruttato, più la contraddizione fra sfruttatore e sfruttato aumenta.
Più il mercato
del lavoro si diffonde, più il tutto acquista una sempre maggiore valenza
sociale. Più forte è lo stridore, il contrasto, la dialettica fra la proprietà
dei mezzi dei produzione e chi realmente è l’attore della produzione, più si
avvicina il momento valido per il ribaltamento della situazione. I proletari di
tutto il mondo arriveranno ad unirsi, perché l’unione fa la forza, prenderanno
coscienza del loro valore e del loro potenziale potere e realizzeranno la
rivoluzione comunista.
La dittatura del proletariato
Questa
rivoluzione porterà ad una necessaria, ma provvisoria, dittatura del proletariato, necessaria
per consolidare il cambiamento e la presa di coscienza di sé. Questo periodo di
passaggio e di adattamento, porterà i mezzi di produzione nelle mani dello
stato che sarà rappresentato dal partito comunista e che provvederà al loro uso
sociale. La proprietà privata dei mezzi di produzione sarà completamente
abolita. Dopo di ché, cioè dopo l’avvento consolidato del comunismo, nascerà
una Società senza classi e senza stato, non per volontà di qualche potente o di
Dio, ma per legge scientifica. Questa è la meta finale della storia, meta
scientifica, pratica, insopprimibile. Marx pensava di aver individuato l’atto
finale della storia, della redenzione dell’uomo e come saremmo tornati ad una
sorta di paradiso terrestre di fratellanza e pace sociale.
Vita e opere
di Karl Marx
Karl Marx nacque
a Treviri il 15 maggio 1818.
Compie gli studi liceali a Treviri e poi si reca a Bonn per
studiare legge. A Bonn, Karl preferiva la vita goliardica allo studio e così il
padre prese la decisione di fargli proseguire gli studi nella più austera
Università di Berlino, e qui si laureò.
Dopo la laurea, Marx pensò di ottenere la libera docenza a Bonn,
dove insegnava il suo amico Bruno Bauer. Ma Bauer venne ben presto allontanato
dall’Università. E così si chiuse, la carriera accademica di Marx, che passò al
giornalismo diventando redattore della “Gazzetta renana”. Tale giornale, però,
il 21 gennaio 1843 veniva ufficialmente interdetto.
A Parigi Marx conobbe Friedrich Engels,
il quale gli sarà amico e collaboratore per tutta la vita. Aiutato economicamente
da alcuni amici di Colonia, Marx proseguì le sue ricerche di filosofia e di
economia politica. Collaborò intanto al “Vorwarts” (Avanti), giornale degli
artigiani comunisti. E proprio questa collaborazione gli costerà l’espulsione
dalla Francia. Nel frattempo veniva maturandosi il suo distacco dalla Sinistra
hegeliana. Marx partì per l’Inghilterra nel 1849. In Inghilterra Marx si
stabilì a Londra dove riuscì, aiutato economicamente dall’amico Engels, a
condurre in porto tutte quelle ricerche di economia, storia, sociologia e
politica che costituiscono la base de “Il Capitale”. Impegnato nell’attività di
organizzazione del movimento operaio, Marx riuscì a fondare nel 1864, a Londra,
la “Associazione internazionale dei lavoratori”( la Prima Internazionale).
Come nasce
il marxismo
Nella seconda metà dell’800 quando il giovane Marx scrive il
manifesto del partito comunista, il significato dei termini Socialista e
Comunista era lontano dal significato odierno. Le teorie socialiste elaborate
all’interno del movimento operaio ottocentesco comprendevano una varietà di
posizioni e di voci. Per esempio quella di Saint
– Simon che sognava una società in mano agli scienziati e ai produttori con
una alleanza solidale della borghesia e del proletariato. Oppure quella
elaborata da Fourier che auspicava
la creazione di comunità volontarie di lavoro e di vita con la socializzazione
della produzione e dei redditi. Il pensiero di Marx le riteneva entrambe
utopiste, ma si avvicinava di più alle posizioni di chi già allora si definiva
comunista. Blanqui per esempio,
intellettuale francese che credeva nell’azione rivoluzionaria di una minoranza
capace di guidare le masse nella presa del potere e nella trasformazione
dell’economia.
Un altro
pensatore importante in quegli anni di fermento è Proudhon che pensava alla rivoluzione come un movimento dei piccoli
proprietari contro lo Stato e la grande proprietà, per ottenere la loro
abolizione e costituire una Società libera dai privilegi e dall’oppressione.
Nel 1864 molte di queste posizioni intellettuali confluiscono nella prima internazionale, una
organizzazione che unisce le associazioni dei lavoratori trasversalmente ai
diversi stati.
Nella visione di Marx,
nella prima fase della rivoluzione, sarebbe nata una dittatura del proletariato, in cui l’economia avrebbe funzionato
secondo il modello capitalistico, ma anziché arricchire i privati avrebbe
portato beneficio a tutta la società. La fase finale della rivoluzione doveva
però essere una società senza classi,
costituita da uomini liberi in cui ciascuno avrebbe potuto ricevere secondo i
propri bisogni e produrre secondo le proprie capacità.
Dobbiamo innanzi tutto tener conto che il marxismo è una prassi, cioè una azione, un modo di agire.
La prassi è una attività pratica, specialmente se contrapposta all’attività teorica o
speculativa. In questo sta la sua contrapposizione a tutti i pensatori e
filosofi che lo hanno preceduto. Siamo in una epoca che ci permette di vedere
come la storia ha giudicato questa prassi.
Nessuna teoria,
nessun programma, sociale, politico, culturale, economico ha avuto a
disposizione, come è stato per il marxismo, un così ampio e lungo laboratorio
di prova. Il laboratorio di prova del così detto socialismo reale di Marx, va
dall’est europeo, al centroamerica, dal corno d’Africa, all’estremo oriente, ha
avuto inoltre a disposizione un arco di tempo di più di 80 anni. Ebbene
dovunque è stato applicato, cioè in ogni luogo e con tanta possibilità di
sviluppo e di sperimentazione ha prodotto ovunque gli stessi risultati. Perché
questo? Perché Marx ha fatto esattamente ciò che ha rimproverato a tutti i suoi
predecessori, è stato un filosofo teorico, un filosofo che ha scritto le sue
tesi a tavolino e lo ha fatto dal suo piccolo punto di osservazione, il suo
studio, la sua biblioteca, anche lui, come i suoi predecessori, circondato solo
dai libri e staccato dalla realtà. La realtà si è dimostrata invece molto più
complessa e in diversi casi refrattaria, se non addirittura ostile, all’insieme
delle tesi di Karl Heinrich Marx.
Tesi che pur costituiscono una
struttura di pensiero, un organigramma di pensiero certamente affascinante e
che ha davvero affascinato. Nel momento però in cui questo pensiero è stato
calato nella diverse realtà del pianeta, con tutte le forze, con tutti i mezzi
possibili e immaginabili, la realtà non ha risposto come ci si aspettava. La
storia ha deciso diversamente e purtroppo, anche in questa rivoluzione, con
l’oppressione dell’uomo che voleva invece salvare, e con abbondante versamento
di sangue, il maggiore rispetto alle altre rivoluzioni.
Il marxismo e l’enciclica “Rerum
novarum”
DALLA RERUM
NOVARUM ALLA CENTESIMUS
ANNUS
Il
rapporto fra la Chiesa (e, in particolare, la Chiesa di Roma) e il marxismo è
fortemente conflittuale, ed ha comportato scontri molto duri e la scomunica non
soltanto per chi professasse le dottrine di Marx, ma anche per chi fosse
semplicemente iscritto alle organizzazioni socialiste e comuniste. Lo scontro
frontale e violento non esclude però una sorta di matrice comune.
Il
documento più celebre in cui la Chiesa elabora una propria “dottrina sociale” e
affronta la “questione operaia”, in contrapposizione esplicita con il
socialismo marxista, è l’enciclica di Leone XIII Rerum novarum (1891). Essa
costituisce il riferimento costante per tutta l’elaborazione cattolica
successiva su questo tema.
Nel centenario
dell’enciclica leonina Giovanni Paolo II ha scritto una nuova enciclica, la
Centesimus annus, che fa il punto sulla situazione attuale della dottrina
sociale della Chiesa. Lo scritto di Karol Wojtyla prende le mosse da una
stimolante analisi storico-critica del documento di Leone XIII. Proponiamo qui
la lettura di alcuni paragrafi di questa parte della Centesimus annus: è
interessante vedere come tanto Leone XIII quanto Giovanni Paolo II accettino
tratti importanti dell’analisi economica marxista e addirittura molti elementi
del linguaggio di Marx.
Lettera
enciclica Centesimus annus del Sommo Pontefice Giovanni
Paolo II nel centenario della Rerum
novarum - 10 maggio 1991
INTRODUZIONE
3.
Intendo ora proporre una “rilettura” dell’Enciclica leonina, invitando a
“guardare indietro”, al suo testo stesso per scoprire nuovamente la ricchezza
dei princípi fondamentali, in essa formulati, per la soluzione della questione
operaia. Ma invito anche a “guardare intorno”, alle “cose nuove”, che ci
circondano ed in cui ci troviamo, per così dire, immersi, ben diverse dalle
“cose nuove” che contraddistinsero l’ultimo decennio del secolo passato. [...]
I.
TRATTI CARATTERISTICI DELLA RERUM NOVARUM
4.
Sul finire del secolo scorso la Chiesa si trovò di fronte ad un processo
storico, in atto già da qualche tempo, ma che raggiungeva allora un punto
nevralgico. Fattore determinante di tale processo fu un insieme di radicali
mutamenti avvenuti nel campo politico, economico e sociale, ma anche
nell’ambito scientifico e tecnico, oltre al multiforme influsso delle ideologie
dominanti. Risultato di questi cambiamenti era stata, in campo politico, una
nuova concezione della società e dello Stato e, di conseguenza, dell’autorità.
Una società tradizionale si dissolveva e cominciava a formarsene un’altra,
carica della speranza di nuove libertà, ma anche dei pericoli di nuove forme di
ingiustizia e servitù.
In
campo economico, dove confluivano le scoperte e le applicazioni delle scienze,
si era arrivati progressivamente a nuove strutture nella produzione dei beni di
consumo. Era apparsa una nuova forma di proprietà, il capitale, e una nuova
forma di lavoro, il lavoro salariato, caratterizzato da gravosi ritmi di
produzione, senza i dovuti riguardi per il sesso, l’età o la situazione
familiare, ma unicamente determinato dall’efficienza in vista dell’incremento del
profitto.
Il
lavoro diventava cosí una merce, che poteva essere liberamente acquistata e
venduta sul mercato ed il cui prezzo era regolato dalla legge della domanda e
dell’offerta, senza tener conto del minimo vitale necessario per il
sostentamento della persona e della sua famiglia. Per di piú, il lavoratore non
aveva nemmeno la sicurezza di riuscire a vendere la “propria merce”, essendo
continuamente minacciato dalla disoccupazione, la quale, in assenza di
previdenze sociali, significava lo spettro della morte per fame.
Conseguenza
di questa trasformazione era “la divisione della società in due classi separate
da un abisso profondo”: tale situazione si intrecciava con l’accentuato
mutamento di ordine politico. Cosí la teoria politica allora dominante cercava
di promuovere, con leggi appropriate o, al contrario, con voluta assenza di
qualsiasi intervento, la totale libertà economica. Nello stesso tempo,
cominciava a sorgere in forma organizzata, e non poche volte violenta, un’altra
concezione della proprietà e della vita economica, che implicava una nuova
organizzazione politica e sociale.
Nel momento culminante di questa contrapposizione,
quando ormai apparivano in piena luce la gravissima ingiustizia della realtà
sociale, quale esisteva in molte parti, ed il pericolo di una rivoluzione
favorita dalle concezioni allora chiamate “socialiste”, Leone XIII intervenne
con un Documento che affrontava in modo organico la “questione operaia”. [...]
5.
Le “cose nuove”, alle quali il Papa si riferiva, erano tutt’altro che positive.
Il primo paragrafo dell’Enciclica descrive le “cose nuove”, che le han dato il
nome, con parole forti: “Una volta suscitata la brama di cose nuove, che da
tempo sta sconvolgendo gli Stati, ne sarebbe derivato come conseguenza che i
desideri di cambiamenti si trasferissero alla fine dall’ordine politico al
settore contiguo dell’economia. Difatti, i progressi incessanti dell’industria,
le nuove strade aperte dalle professioni, le mutate relazioni tra padroni e
operai; l’accumulo della ricchezza nelle mani di pochi, accanto alla miseria
della moltitudine; la maggiore coscienza che i lavoratori hanno acquistato di
sé e, di conseguenza, una maggiore unione tra essi ed inoltre il peggioramento
dei costumi, tutte queste cose hanno fatto scoppiare un conflitto”.
Il
Papa, e con lui la Chiesa, come anche la comunità civile, si trovavano di
fronte ad una società divisa da un conflitto, tanto piú duro e inumano perché
non conosceva regola né norma. Era il conflitto tra il capitale e il lavoro, o
— come lo chiamava l’Enciclica — la questione operaia. [...]
Di
fronte ad un conflitto che opponeva, quasi come “lupi”, l’uomo all’uomo fin sul
piano della sussistenza fisica degli uni e dell’opulenza degli altri, il Papa
non dubitò di dover intervenire [...]. Sua intenzione era certamente quella di
ristabilire la pace, e il lettore contemporaneo non può non notare la severa
condanna della lotta di classe, che egli pronunciava senza mezzi termini. Ma
era ben consapevole del fatto che la pace si edifica sul fondamento della
giustizia: contenuto essenziale dell’Enciclica fu appunto quello di proclamare
le condizioni fondamentali della giustizia nella congiuntura economica e
sociale di allora.
[...]
L’atteggiamento del Papa nel pubblicare la Rerum
novarum conferì alla Chiesa quasi uno “statuto di cittadinanza” nelle
mutevoli realtà della vita pubblica, e ciò si sarebbe affermato ancor più in
seguito. In effetti, per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale
appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del
messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze
nella vita della società ed inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la
giustizia nella testimonianza a Cristo Salvatore. Essa costituisce, altresì, una
fonte di unità e di pace dinanzi ai conflitti che inevitabilmente insorgono nel
settore economico-sociale. Diventa in tal modo possibile vivere le nuove
situazioni senza avvilire la trascendente dignità della persona umana né in se
stessi né negli avversari, ed avviarle a retta soluzione. [...]
6.
Proponendosi di far luce sul conflitto che si era venuto a creare tra capitale
e lavoro, Leone XIII affermava i diritti fondamentali dei lavoratori. Per
questo, la chiave di lettura del testo leonino è la dignità del lavoratore in
quanto tale e, per ciò stesso, la dignità del lavoro, che viene definito come “l’attività umana ordinata a provvedere ai
bisogni della vita, e specialmente alla conservazione”. Il Pontefice
qualifica il lavoro come “personale”, perché “la forza attiva è inerente alla persona e del tutto propria di chi la
esercita ed al cui vantaggio fu data”. Il lavoro appartiene così alla
vocazione di ogni persona; l’uomo, anzi, si esprime e si realizza nella sua
attività di lavoro. Nello stesso tempo, il lavoro ha una dimensione “sociale”
per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune, “poiché si può affermare con verità che il
lavoro degli operai è quello che produce la ricchezza degli Stati”. [...]
Un
altro principio rilevante è senza dubbio quello del diritto alla “proprietà
privata”. Lo spazio stesso, che l’Enciclica gli dedica, rivela l’importanza che
gli si attribuisce. Il Papa è ben cosciente del fatto che la proprietà privata
non è un valore assoluto, né tralascia di proclamare i principi di necessaria
complementarità, come quello della destinazione universale dei beni della
terra.
D’altra
parte, è senz’altro vero che il tipo di proprietà privata, che egli
precipuamente considera, è quello della proprietà della terra. Ciò, tuttavia,
non impedisce che le ragioni addotte per tutelare la proprietà privata, ossia
per affermare il diritto di possedere le cose necessarie per lo sviluppo
personale e della propria famiglia — quale che sia la forma concreta che questo
diritto può assumere —, conservino oggi il loro valore. Ciò deve essere
nuovamente affermato sia di fronte ai cambiamenti, di cui siamo testimoni,
avvenuti nei sistemi dove imperava la proprietà collettiva dei mezzi di
produzione; sia anche di fronte ai crescenti fenomeni di povertà o, più
esattamente, agli impedimenti della proprietà privata, che si presentano in
tante parti del mondo, comprese quelle in cui predominano i sistemi che
dell’affermazione del diritto di proprietà privata fanno il loro fulcro. A
seguito di detti cambiamenti e della persistenza della povertà, si rivela
necessaria una più profonda analisi del problema, come sarà sviluppata più
avanti.
7.
In stretta relazione col diritto di proprietà l’Enciclica di Leone XIII afferma
parimenti altri diritti, come propri e inalienabili della persona umana. Tra
essi è preminente, per lo spazio che il Papa gli dedica e l’importanza che gli
attribuisce, il “diritto naturale dell’uomo” a formare associazioni private; il
che significa, anzitutto, il diritto a creare associazioni professionali di
imprenditori e operai, o di soli operai. Si coglie qui la ragione per cui la
Chiesa difende e approva la creazione di quelli che comunemente si chiamano
sindacati, non certo per pregiudizi ideologici, né per cedere a una mentalità
di classe, ma perché l’associarsi è un diritto naturale dell’essere umano e,
dunque, anteriore rispetto alla sua integrazione nella società politica.
Infatti, “non può lo Stato proibirne la
formazione”, perché “i diritti
naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni,
esso contraddice se stesso”. Insieme con questo diritto, che — è doveroso
sottolineare — il Papa riconosce esplicitamente agli operai o, secondo il suo
linguaggio, ai “proletari”, sono affermati con eguale chiarezza il diritto alla
“limitazione delle ore di lavoro”, al legittimo riposo e ad un diverso
trattamento dei fanciulli e delle donne quanto al tipo e alla durata del
lavoro.
Se
si tiene presente ciò che dice la storia circa i procedimenti consentiti, o
almeno non esclusi legalmente, in ordine alla contrattazione senza alcuna
garanzia né quanto alle ore di lavoro, né quanto alle condizioni igieniche
dell’ambiente ed ancora senza riguardo per l’età e il sesso dei candidati
all’occupazione, ben si comprende la severa affermazione del Papa. “Non è giusto né umano — egli scrive — esigere dall’uomo tanto lavoro, da farne per
la troppa fatica istupidire la mente e da fiaccarne il corpo”. E con
maggior precisione, riferendosi al contratto, inteso a far entrare in vigore
simili “relazioni di lavoro”, afferma: “In
ogni convenzione stipulata tra padroni ed operai vi è sempre la condizione o
espressa o sottintesa” che si sia provveduto convenientemente al riposo,
proporzionato “alla somma delle energie
consumate nel lavoro”; poi conclude: “Un
patto contrario sarebbe immorale”.
8.
Subito dopo il Papa enuncia un altro diritto dell’operaio in quanto persona. Si
tratta del diritto al “giusto salario”, il quale non può essere lasciato “al libero consenso delle parti: sicché il
datore di lavoro, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia
debitore di altro”. Lo Stato — si diceva a quel tempo — non ha potere di
intervenire nella determinazione di questi contratti, se non per assicurare
l’adempimento di quanto è stato esplicitamente pattuito. Una simile concezione
delle relazioni tra padroni e operai, puramente pragmatica ed ispirata ad un
rigoroso individualismo, viene severamente biasimata nell’Enciclica, perché
contraria alla duplice natura del lavoro, come fatto personale e necessario.
Poiché, se il lavoro, in quanto personale, rientra nella disponibilità che
ciascuno ha delle proprie facoltà ed energie, in quanto necessario è regolato
dal grave obbligo che ciascuno ha di “conservarsi in vita”; “di qui nasce per necessaria conseguenza
— conclude il Papa — il diritto di
procurarsi i mezzi di sostentamento, che per la povera gente si riducono al
salario del proprio lavoro”.
Il
salario deve essere sufficiente a mantenere l’operaio e la sua famiglia. Se il
lavoratore, “costretto dalla necessità, o
per timore del peggio, accetta patti più duri perché imposti dal proprietario o
dall’imprenditore, e che volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro
che subisce una violenza contro la quale la giustizia protesta”.
Voglia
Dio che queste parole, scritte mentre avanzava il cosiddetto “capitalismo
selvaggio”, non debbano oggi essere ripetute con la medesima severità.
Purtroppo, si riscontrano ancora oggi casi di contratti tra padroni e operai,
nei quali è ignorata la più elementare giustizia in materia di lavoro minorile
o femminile, circa gli orari di lavoro, lo stato igienico dei locali e l’equa
retribuzione. [...]
10.
Un’altra importante nota, ricca di insegnamenti per i nostri giorni, è la
concezione dei rapporti tra lo Stato ed i cittadini. La Rerum novarum critica i due sistemi sociali ed economici: il
socialismo e il liberalismo. Al primo è dedicata la parte iniziale, nella quale
si riafferma il diritto alla proprietà privata; al secondo non è dedicata una
speciale sezione, ma — cosa meritevole di attenzione — si riservano le critiche,
quando si affronta il tema dei doveri dello Stato. Questo non può limitarsi a
“provvedere ad una parte dei cittadini”, cioè a quella ricca e prospera, e non
può “trascurare l’altra”, che rappresenta indubbiamente la grande maggioranza
del corpo sociale; altrimenti si offende la giustizia, che vuole si renda a
ciascuno il suo. “Tuttavia, nel tutelare
questi diritti dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai
poveri. La classe dei ricchi, forte per se stessa, ha meno bisogno della
pubblica difesa; la classe proletaria, mancando di un proprio sostegno, ha
speciale necessità di cercarla nella protezione dello Stato. Perciò agli
operai, che sono nel numero dei deboli e bisognosi, lo Stato deve rivolgere di
preferenza le sue cure e provvidenze”.
”Il fine che giustifica i mezzi”-
Joseph
Ratzinger
“ … un’evidenza già molto familiare all’uomo dell’antichità classica,
che noi oggi dobbiamo riattingere e considerare … è il principio chiave della
morale “mai il fine può giustificare i mezzi”. Ciò che è in sé “male” resta “male”, anche quando venisse impiegato
per i fini più nobili. Non è possibile, calpestando seppur con buone intenzioni
l’umanità dell’uomo, edificare e realizzare pienamene questa sua stessa
umanità. Se i mezzi sono inumani, alla fine l’esito non potrà essere altro che
inumanità.
Il fenomeno odierno del “terrorismo” ci
interpella proprio come cristiani e pone in gioco tutta la nostra
responsabilità di cristiani. In tutte quelle forme di terrorismo che, a diverso
titolo, si richiamano alla teoria marxista (o ad
altre ideologie), emerge in ultima istanza una medesima
pretesa: l’uomo vuole esattamente rivendicare a sé il ruolo che è della
Provvidenza di Dio. L’uomo vuole prendere il “posto” che è di Dio: la vicenda
del paradiso e della tentazione diabolica è di una sconcertante attualità.
L’uomo vuol provvedere da sé a fissare la “meta” della storia. Non credendo in
Dio, egli ritiene di dover essere proprio lui a “guidare” il corso degli
eventi; e così egli agisce come s’immagina che agirebbe un dio” (come
agirebbe se lui fosse quel dio). (Tratto da Munchener Katholische
Kirchenzeitung rivista dell’Arcidiocesi di Monaco di Baviera, 1970?)
Il
paradiso è dunque un mondo governato da Dio, suo creatore. L’inferno è il mondo
governato dall’uomo “drogato” dal suo peccato originale, creatore del suo
stesso male [Ndr].
Redenzione
dalla sofferenza di Marx J.Ratzinger
L’immagine
del Cristo crocifisso, […] evidenzia tutta la gravità della condizione umana.
[…]. Un profondo equivoco oggi ha colpito molti uomini che seguendo Marx,
considerano il conforto celeste, in questa valle di lacrime terrena, come un
inganno […] che torna a profitto solo di coloro ai quali preme il mantenimento
della situazione presente. Al posto dell’inganno, della lusinga, essi esigono
quella trasformazione che elimini la sofferenza e perciò redima. La parola
d’ordine è: non redenzione mediante la sofferenza, ma redenzione dalla
sofferenza. Di qui il compito fondamentale [dell’uomo] non è l’apertura e
l’attesa dell’aiuto di Dio [e la speranza della resurrezione] bensì
l’umanizzazione dell’uomo ad opera dell’uomo. (Tratto da “Dogma e predicazione” - Joseph Ratzinger 1977)
“Il mondo nuovo” di Hegel e Marx - Joseph Ratzinger
Nel
nostro tempo la parola “speranza” è diventata quasi una specie di calamita che
attira a se tutti i moti dello spirito. In ciò si esprime la profonda
insoddisfazione dell’uomo contemporaneo nei confronti della sua vita e del
mondo, così come egli ne fa esperienza. L’uomo d’oggi è alla ricerca di un
“nuovo mondo”, diverso, migliore.
Fin
dalla rivoluzione francese del 1789, e poi ancora di più per l’influsso delle
filosofie di Hegel e di Marx, l’edificazione del “mondo nuovo” è divenuta il
tema dominante della storia universale. Ma quanto più si tenta, tanto più ci si
accorge che il mondo non può rinnovarsi se gli uomini rimangono “vecchi”, cioè
come prima: perché il mondo divenga “diverso”, prima di tutto l’uomo deve
diventare un “altro”.
Sociologia,
psicologia, tutto intero il settore delle così dette “scienze umane”, tentano
di scoprire come si possa creare l’”uomo nuovo”. E, nelle sue molteplici
iniziative di emancipazione, la nostra epoca fa potentemente vacillare le
sbarre delle prigioni che soffocano la libertà dell’uomo. Ma ora appare anche
sempre più evidente che, invece di una liberazione soltanto, è in atto anche la
demolizione di quelle fondamenta dell’umanità degli uomini che, nel corso dei
secoli, lo spirito e la libertà dell’uomo avevano faticosamente scavate. Erompe
così di nuovo, in forme spaventose, sulla scena della storia l’antica barbarie
dei primordi del genere umano. Nessun altro secolo, prima del nostro, ha conosciuto
forme così brutali di tortura, di uccisione, di autodistruzione dell’uomo. Impariamo
di nuovo a riconoscere, con orrore, che cosa significa “paganesimo”, chi è
l’antico Adamo.
L’aspirazione
all’uomo nuovo è un’istanza positiva di affermazione, non di negazione. Essa
non si fonda sul disprezzo della creazione e dei compiti e delle possibilità
che essa ci offre. La speranza cristiana non ha niente da spartire con
l’anarchia e l’esaltazione utopica. Il cristiano non sfugge gli impegni del
momento presente, non se la prende con il mondo, ma si
concentra in tutta sobrietà sulle urgenze che il nostro tempo e il nostro mondo
gli sottopongono perché se ne faccia responsabilmente carico. Essere cristiani
significa permanere nella virtù della sobrietà. Il cristiano non si rifugia
nell’utopia, né lascia andare in rovina il mondo d’oggi, sognando mondi
immaginari e futuri (con l’eliminazione dei nemici del popolo e con le pulizie
etniche [NdR]); giorno dopo giorno egli vive amando responsabilmente il
presente.
Senza tale realismo cristiano e
senza amore umile per le piccole cose della vita quotidiana non può darsi il
grande tesoro della vita nuova, e del suo amore eterno.
(J. Ratzinger, prefetto della
Congregazione per la Dottrina della fede, ne“L’osservatore
romano” 11 – 1981 n. 3 p. 10)
I dissensi e gli errori degli uomini in materia
religiosa e morale, per tutti gli onesti, soprattutto dei i sinceri e fedeli
figli della Chiesa, sono sempre stati origine e causa di fortissimo dolore, ma
specialmente oggi, quando vediamo come da ogni parte vengano offesi gli stessi
principi della cultura cristiana.
Veramente non c'è da meravigliarsi, se fuori dell'ovile di
Cristo sempre vi sono stati questi dissensi ed errori. Benché la ragione umana,
assolutamente parlando, con le sue forze e con la sua luce naturale possa
effettivamente arrivare alla conoscenza, vera e certa, di Dio unico e
personale, che con la sua Provvidenza sostiene e governa il mondo, e anche alla
conoscenza della legge naturale impressa dal Creatore nelle nostre anime,
tuttavia non pochi sono gli ostacoli che impediscono alla nostra ragione di
servirsi con efficacia e con frutto di questo suo naturale potere. Le verità
che riguardano Dio e le relazioni tra gli uomini e Dio trascendono del tutto
l'ordine delle cose sensibili; quando poi si fanno entrare nella pratica della
vita e la informano, allora richiedono sacrificio e abnegazione.
Nel raggiungere tali verità, l'intelletto umano incontra
ostacoli della fantasia, sia per le cattive passioni provenienti dal peccato
originale. Avviene che gli uomini in queste cose volentieri si persuadono che
sia falso, o almeno dubbio, ciò che essi "non vogliono che sia vero".
Per questi motivi si deve dire che la Rivelazione divina è moralmente
necessaria affinché quelle verità che in materia religiosa e morale non sono
per sé irraggiungibili, si possano da tutti conoscere con facilità, con ferma
certezza e senza alcun errore. (Conc. Vat. D. B. 1876, Cost. "De fide
Cath.", cap. II, De revelatione).
Anzi la mente umana qualche volta può trovare difficoltà
anche nel formarsi un giudizio certo di credibilità circa la fede cattolica,
benché da Dio siano stati disposti tanti e mirabili segni esterni, per cui
anche con la sola luce naturale della ragione si può provare con certezza
l'origine divina della religione cristiana. L'uomo infatti, sia perché guidato
da pregiudizi, sia perché istigato da passioni e da cattiva volontà, non solo
può negare la chiara evidenza dei segni esterni, ma anche resistere alle
ispirazioni che Dio infonde nelle nostre anime.
PROGRAMMA incontri della quarta tappa:
l'eclissi della ragione
- 4t-1-La reazione a Hegel: Schopenhauer e Kierkegaa...
- 4t-2-La sinistra hegeliana: Feuerbach e Marx
- 4t-3-Positivismo e Darwinismo
- 4t-4-Spiritualismo e Psicanalisi
- 4t-5-Nietzsche: la morte di Dio
- 4t-6-Nietzsche: l'oltreuomo
- 4t-7-La Fenomenologia di Husserl
- 4t-8-Heidegger e l'esistenzialismo
- 4t-9-Idealismo italiano
- 4t-10-Neopositivismo e Pragmatismo americano
- 4t-11-La Scuola di Francoforte e Popper
- 4t-12-L'Ermeneutica di Gadamer e Benedetto XVI
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