La Scuola di Francoforte
La Scuola di Francoforte è
una scuola filosofica e sociologica neomarxista. Il nucleo originario di tale scuola, formato per
lo più da filosofi e sociologi tedeschi di origine ebraica, emerse nel 1923 nell'ambiente
del neonato "Istituto per la Ricerca Sociale"
(Institut für Sozialforschung) dell'Università Johann
Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno,
in Germania, sotto la guida dello storico marxista Karl Grünberg.
Il nucleo successivamente si ampliò per numero di studiosi ed ambiti di
ricerca. Il primo periodo di attività della scuola si inquadra nel primo
dopoguerra, tra gli anni venti e gli anni trenta; all'avvento del nazismo il gruppo lasciò la Germania e si trasferì
dapprima a Ginevra, poi a Parigi e infine a New York, dove continuò la sua attività. Dopo la seconda
guerra mondiale alcuni esponenti (tra cui Adorno, Horkheimer e Pollock) tornarono in Germania per fondare un nuovo Istituto
per la ricerca sociale.
L'espressione "Scuola di
Francoforte" è una denominazione informale usata per designare quei
pensatori che furono affiliati o influenzati dall'Istituto per la Ricerca
Sociale: non fu mai la denominazione di alcuna istituzione, né i suoi
appartenenti la usarono per descrivere sé stessi.
Il tema principale, oggetto di studio
dell’Istituto, fu quello della cosiddetta “teoria critica della società”.
Con questa espressione si indica l’elaborazione intellettuale tesa a criticare
l’ideologia capitalistica, evidenziandone le falle interne e con l’intento
di offrire modelli d’interpretazione alternativi. Pur condividendo l’apparato
teorico centrale, ognuno degli studiosi appartenenti alla Scuola di Francoforte
puntò l’attenzione su aspetti diversi del problema.
Max Horkheimer (Stoccarda,1895 – Norimberga, 1973), fu il fondatore
dell’Istituto di ricerche sociali presso Francoforte,
nonché principale esponente delle “teoria critica”. Con l’avvento del
nazismo si trasferì prima a Parigi dove, con la collaborazione di Fromm e Marcuse,
redasse gli Studi sull’autorità e la famiglia. In quest’opera sostenne che la
famiglia è il luogo sociale in cui si crea e si rafforza il consenso dominante,
frutto del capitalismo. Nel periodo statunitense scrisse un altro libro, “Eclisse
della ragione”, in cui criticò la società dominata dalla tecnica. Le
teorie elaborate da Horkheimer derivano in parte dalla conoscenza approfondita
della teoria marxista e dall’uso della psicanalisi.
Erich Fromm (Francoforte sul Meno, 1900 –Locarno, 1980). Proveniente da una famiglia di
religione ebraica molto osservante, iniziò la sua carriera come psicoanalista
freudiano ortodosso a Berlino. Con lui viene interamente trattato il tema
della società capitalistica, in rapporto alla personalità dell’individuo,
grazie all’uso della psicanalisi. Secondo Fromm, la società attuale
non riesce, per sua natura, a soddisfare i naturali bisogni dell’individuo,
necessari per la sua realizzazione. Compito della psicanalisi è quello di
aiutare il singolo a riconoscere le proprie esigenze e, attraverso la
creatività, a realizzare se stesso. Alcune opere da lui scritte sono “L’arte
di amare”,” Dalla parte dell’uomo” e “Avere
o essere”.
Leo Löwenthal ha operato prevalentemente nel campo della
sociologia della letteratura. I suoi studî, dedicati soprattutto alla
letteratura "borghese" europea, intendono mettere in evidenza le
trasformazioni storiche del rapporto tra individuo e società e, in particolare,
le "contraddizioni" a cui l'individualismo borghese sarebbe andato
incontro con lo sviluppo della "società capitalistica".
Theodor Adorno (Francoforte
sul Meno 1903 – Visp 1969), come la maggior parte dei suoi
colleghi, dovette abbandonare Francoforte in seguito alle politiche repressive
naziste, per fuggire prima a Parigi e successivamente a New York. Assieme
a Horkheimer scrisse il libro “Dialettica
dell’Illuminismo”. Il pensiero sociologico che perseguì ruotò attorno a tre
punti:
- il concetto di razionalità
strumentale,
ovvero l’abuso degli ideali illuministi da parte del capitalismo, con lo
scopo di aumentare il consenso e il controllo sull’uomo;
- l’industria culturale, cioè la sistematica opera di
omologazione e appiattimento delle diversità degli uomini, al fine creare
bisogni sempre più uguali con l’aiuto indispensabile dei mass media;
- il mito della personalità
autoritaria, riprendendo
le idee di Horkheimer, che dà alla famiglia la maggiore responsabilità
nella creazione del consenso.
Il processo di industrializzazione di ogni
aspetto della vita sociale del nostro tempo porta, secondo Adorno, ad una
crescente e ineluttabile alienazione della soggettività dell'artista alle
richieste livellatrici della cultura industrializzata; tale alienazione è
studiata in rapporto ai principali fenomeni musicali contemporanei. Nel
pensiero di Adorno confluiscono varî filoni e diverse esperienze. È presente,
come motivo di fondo, l'influenza marxistica, soprattutto assorbita attraverso
l'opera critica di Georg Lukàcs. Ma vanno anche ricordati i contributi della
tradizione hegeliana ortodossa insieme con l'influsso, onnipresente, del
pensiero di Freud. In quanto riconduce tutte le proprie analisi ad una ricerca
intorno al significato profondo del nostro tempo, così come è possibile
coglierlo nella musica dodecafonica, nell'arte astratta o nel tipo di tecniche
produttive prevalenti. Adorno può a ragione venir considerato un moralista e
nello stesso tempo un sociologo della cultura, nel senso proprio del
termine.
Herbert Marcuse (Berlino 1898 – Starnberg, 1979) di famiglia ebrea, fu un
eminente filosofo, sociologo e politologo tedesco naturalizzato statunitense, dopo la fuga dalla
Germania di Hitler. Diede un forte impulso alle rivolte studentesche del ’68. Le sue idee
muovevano da un’esigenza di affrancamento dall’ordine soffocante della società
industriale. Pur partendo da idee marxiste, se ne distacca quasi
immediatamente, non condividendo la classica contrapposizione tra borghesia e
proletariato (quest’ultimo già ben inserito nella società dei consumi), ma
vedendo negli studenti e nei soggetti emarginati gli elementi più eversivi. Tra
le sue opere si ricordano “Eros e civiltà” e “L’uomo a
una dimensione”.
Il mutamento radicale della realtà è l’impegno della Scuola di Francoforte.
Essa prende da Hegel e da Marx la dimensione dialettica totalizzante perché
vuole così far emergere quelle che sono le contraddizioni della realtà, cioè la
realtà è un procedimento dialettico dove di fatto si rifiuta l’armonia della
sintesi ed è totalizzante perché si vuole guardare la realtà nella sua
globalità e non in studi analitici particolari. Dalla tradizione freudiana
vengono colti in particolare i meccanismi di introiezione dell’autorità.
Il tema dell’autorità è il tema principale del XX secolo, dovuto
principalmente al recente vissuto delle dittature e dei totalitarismi:
l’Imperialismo, il Nazismo, il Fascismo. L’altro evento storico importante
moderno è la rivoluzione d’ottobre in Russia che per la Scuola di Francoforte è
una rivoluzione fallita perché di fatto è solo un’altra faccia del Capitalismo.
Viene poi trattato il problema della Società opulenta, ricca, tecnologica e
burocratica a seguito della rivoluzione industriale. In questa, l’uomo che è il
soggetto della realtà e che ha sviluppato scienza, tecnologia, burocrazia per
dominare il mondo è a sua volta da esso dominato (schiavo del benessere, dei soldi,
del consumismo, del successo, ecc. diremmo oggi).
Max Horkheimer, nel suo libro del ’47 “La crisi della ragione”,
individua proprio il concetto di razionalità del mondo occidentale. Egli
distingue due tipi di ragione: la ragione oggettiva e la ragione
soggettiva. La ragione soggettiva è quella ragione che si pone
come essenza della realtà, come sostanza della realtà, come criterio di
conoscenza della realtà, come criterio per agire nella realtà, come verità. È
la ragione dei grandi sistemi filosofici: Platone, Aristotele, la Scolastica
medioevale, l’hegelismo tedesco. Di contro nella cultura occidentale si è
sviluppata una ragione soggettiva. La ragione soggettiva ha
eliminato la riflessione sui fini, sul senso della realtà. Una ragione che si è
vista solo nella sua funzione strumentale, funzionale. Il mondo moderno con il
suo concetto di razionalità soggettiva ha risolto la razionalità nella
funzionalità. Ciò che è ragionevole, ciò che funziona porta ad una analisi dei
mezzi, non certo dei fini. Allora, se la ragione è funzionalità, il sapere si
risolve nella tecnica, nel saper fare qualcosa. Se la ragione diventa tecnica
la verità non può che essere l’utilità. È vero solo ciò che serve in
funzione di qualcosa.
Theodor Adorno, sempre nel ’47, esce con la sua opera più importante:
“La dialettica dell’illuminismo”. Il tema dell’opera è verificare cosa
intendono i vari autori con la parola illuminismo. L’illuminismo non è solo il
secolo dei lumi, ma principalmente contiene l’idea che l’uomo ha in mano la razionalizzazione
del mondo. Il mondo reso plasmabile dalle mani dell’uomo, non più subito, ma
governato. Certamente l’illuminismo è anche il secolo dei lumi e dove la
funzione razionalista raggiunge il suo apice e apre alla società moderna
industrializzata. Da quale sentimento infatti nasce la scienza, se non dal
bisogno dell’uomo di dominare la natura. Dominio sulla natura che poco prima
aveva cercato disperatamente di fare con la magia e le sue formule magiche
segrete che poi invece è riuscito meglio a fare con le formule matematiche a
disposizione di tutti.
Qual è l’effetto che ne è venuto fuori, qual è l’eterogenesi dei fini di
questo pensiero, cioè le «conseguenze non intenzionali di azioni
intenzionali»? Che l’uomo da soggetto di questo processo ne è diventato
l’oggetto. Non è più l’uomo l’essere fatto a immagine e somiglianza di Dio e
che si differenzia in maniera più che straordinaria ed evidente da qualsiasi
altro elemento della natura, tanto da essere qualificato come “capolavoro di
Dio”. L’uomo della modernità invece è semplicemente uno dei tanti pezzi con i
quali è fatta la natura, buono da utilizzare o da scartare in funzione di ciò
che serve. L’uomo diventa manipolabile come qualunque altro essere esistente.
L’illuminismo ha in se questa logica autodistruttiva: voleva liberare
totalmente l’uomo, ma invece lo schiavizza e lo distrugge. L’illuminismo ha
perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura di renderli
padroni, di liberarli da tutte le figure che gli stanno sopra, dai padri
padroni, dai regnanti, dai tiranni ed infine dallo stesso Padre eterno
che non ci permettono di diventare adulti e maturi e soffocano la nostra
libertà di crescere e progredire, la libertà di prendere in mano noi stessi la
nostra esistenza. [Proprio qui vengono gettati i primi semi dell’idea che è già
nella propria famiglia che inizia il soffocamento della personalità e
della libertà con un tipo di educazione arcaica e oppressiva e che invece
dovrebbe essere in mano a professionisti dello Stato – Ndr].
“Ma la terra interamente illuminata [dall’illuminismo],
dice Adorno, splende all’insegna di una trionfale sventura”. Grazie
all’illuminismo si è giunti ad Auschwitz. Ancora oggi questa
osservazione di Adorno non è tanto digerita, pensate a quando Adorno la
espresse nel 1947.
Italo Mancini (Schieti, 1925 – Urbino, 1993 - sacerdote e filosofo, che non fa parte della
scuola di Francoforte) in un suo libro dice: ”secondo
la lettura fatta da Adorno, che vede nello schematismo kantiano (il vertice filosofico dell’illuminismo) il tramite della ragione manipolante e scellerata che
procede dalle orge terrificanti del marchese De Sade alla volontà di potenza
di Nietzsche, alla cultura di Auschwitz, l’emblema del nazionalsocialismo. La ragione
diventata finalità senza scopo. L’uomo è solo un pezzo di natura, non ha un
senso, non ha un fine e per questo lo si può adoperare per qualunque scopo. (Tratto da Italo Mancini “Frammento su Dio”, Andrea Aguti (a cura),
Ed. Morcelliana 2000).
La Scuola di Francoforte non è costituita da teologi o moralisti, ma dai
nipotini degli illuministi che sono neomarxisti e vogliono usare la ragione per
capire la realtà. “Questa ragione scientifica basata sull’oggettivizzazione
della realtà, che si proponeva di far dominare il mondo dall’uomo precipita nel
suo opposto. L’uomo è diventato oggetto di analisi, di dominio.
Posso quindi pensare di poter modificare l’essere umano. Se la mia
intelligenza arriva a poter pensare di poter modificare l’uomo e la sua vita e
al limite sconfiggere la morte, vuol dire che posso farlo. Con loro siamo di
fronte ad un nuovo genere di barbarie, un nuovo genere di vandalismo, quello
dell’illuminismo totalitario, di chi ha preso la ragione e ne ha fatto uno
strumento di dominio, proprio perché la ragione ha perso qualsiasi scopo.
Nell’Odissea di Omero, c’è la dimensione dell’uomo borghese occidentale che
obbliga i suoi uomini a lavorare, cioè a continuare a remare tappandosi le
orecchie all’arrivo delle sirene per non rimanere da loro incantati e
proseguire il viaggio, ma lui si fa legare all’albero maestro per sentire il
loro canto, capirlo e goderne, ma senza deviare dal suo cammino, legato anche
lui al suo ruolo alienante.
Anche Max Horkheimer ritorna sui suoi passi e critica l’idea
marxista, dichiarando di aver abbracciato il marxismo più per reazione allo
strapotere di pochi che per vere e proprie convinzioni ideologiche.
Horkheimer fa notare che Marx si era illuso che esistesse una
identità fra giustizia e libertà, mentre di fatto questo rapporto è sempre
dialettico. Più garantisci giustizia, più limiti la libertà degli altri, più
garantisci libertà più avrai ingiustizie.
Il marxismo, lo dirà poi anche Adorno, crea una realtà
immobile perché costringe ad uno schema che impedisce in realtà una vera
rivoluzione. La rivoluzione che si realizza nella Russia di Stalin è una
rivoluzione fallita, mancata. Una rivoluzione che semplicemente esprime l’altra
faccia del Capitalismo, perché rappresenta sempre una realtà burocratizzata,
organizzata, non libera, dove pochi dominano i molti. Negli ultimi momenti
della sua vita Horkheimer si apre addirittura ad una dimensione
teologica. È una vera e propria negazione dell’ideologia materialista dalla
quale era partito. Non è certo il Dio cristiano, per Horkheimer, Dio
rimane qualcosa di indimostrabile, ma che comunque non è proprio un Dio che
rimane impassibile alla tragedia umana ed estraneo al dolore dell’uomo, questo
è impensabile, ma è un Dio “nostalgia” che gli fa dire e gli fa sperare che
l’assassino non trionfi sull’innocente, che esista una giustizia. Anche se
siamo nella dimensione della teologia negativa, nella quale non si dice nulla
di Dio, però ci dice una cosa e cioè che questa realtà non è più così
assolutizzata come era prima, questa realtà non è l’ultima realtà.
Theodor Adorno si fa portatore di questa idea della dialettica,
l’emergere dei contrasti, ma in senso negativo. Cioè la dialettica deve
rimanere negativa, non si può operare questa sintesi pacifica proposta dal
nichilismo perché si cerca di armonizzare ciò che nella realtà non è
armonizzabile. Si cerca di razionalizzare ciò che è irrazionale, si cerca di
unificare quello che per sua natura è diverso, ciò che è diverso non può che
rimanere diverso. Allora questa opera mistificatrice combinata dall’hegelismo
ha ingannato il mondo.
Adorno dirà in un celebra passo della sua opera: “Auschwitz ha
dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura, il fatto che potesse
succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte, delle
scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia
riuscita a raggiungere e a modificare gli uomini”.
È la filosofia che ha sempre giustificato la realtà, che ha sempre cercato
di spiegare la realtà, che non ha fatto emergere le contraddizioni della realtà
e che ci ha così portato ad Auschwitz. Tutta questa cultura che ci ha portato a
questo è allora da buttare. Bisognerà cominciare tutto daccapo. Se questo
tentativo di dominio dell’uomo ci ha portato a questo è ovvio che abbiamo
sbagliato strada. Per Adorno l’hegelismo e il marxismo eternizzano il presente,
bloccano qualsiasi cambiamento radicale, occultano e non permettono che emerga
ciò che invece la dialettica negativa metta in luce: l’individuale, il diverso,
il marginale, l’emarginato.
Adorno poi punta il dito su quella che chiama l’“industria culturale”. Cioè
vuol dire che questo sistema che si è creato ha uno strumento privilegiato che
è l’impero dei “media”, che rappresenta lo strumento di controllo della
coscienza delle masse più subdolo che si possa immaginare. Attraverso lo
strumento dei mass media, il sistema alimenta sé stesso. Il termine usato di
“industria culturale” è molto centrato perché dà subito l’idea che l’industria
sia al servizio del consumatore, ma che in realtà il consumatore è la massa
oggetto del sistema. L’uomo è solo l’oggetto, l’uomo è schiacciato, gli uomini
sono appiattiti, l’uomo è un essere generico eteroguidato, gli uomini
sono una massa informe (possibilmente senza valori e senza volontà). Anche il
divertimento è stato strumentalizzato (guidato, teleguidato, orientato,
drogato) mentre dovrebbe essere per sua natura un momento di libertà. Il tempo
libero invece è guidato nei modi, nei tempi, negli orari. Una delle cose più
diaboliche che il sistema dell’industria culturale fa è garantire sè stesso. È
lo stesso sistema che alimenta la sua immagine di meccanismo necessario per il
benessere di tutti.
Uno dei capolavori di Herbert Marcuse è considerato Eros e Civiltà del 1955, opera rivoluzionaria, nella quale il
pensatore tedesco formula l'idea di una società “liberata”, non
repressiva, confutando alcune tesi di
Freud, espresse nell'opera "Totem e tabù", in aperta
polemica con i neo-freudiani e con Fromm.
Nell'opera Il Marxismo sovietico, Marcuse osserva come anche
in Unione
Sovietica il mutamento dei rapporti di produzione sia stato
seguito da una perdita di coscienza rivoluzionaria, finendo per diventare
un'altra espressione, accanto al capitalismo, di quella
società industriale inevitabilmente portatrice di una morale repressiva.
Su questo punto egli condivide almeno in parte, il pessimismo di Adorno e di Horkheimer riguardo al
rapporto tra progresso tecnologico ed emancipazione umana.
Nella
critica della "teoria della civiltà" di Freud,
Marcuse contesta la sua affermazione che la
civiltà inizia quando gli uomini per convivere (o sopravvivere) sostituiscono
al "principio del piacere" il "principio
di realtà"; l'uomo reprime i propri istinti,
le proprie pulsioni, opera quindi il differimento dei piaceri e, in
sostituzione di questi ultimi, sublima attraverso tutte quelle attività che sono comunemente
considerate "frutto della civiltà" (arte, cultura, lavoro, ecc.). La
società impone, quindi, una modifica dell'essenza degli istinti, dirottandoli
dalla sfera sessuale a quella del lavoro. Per Marcuse, Freud ha scambiato per
caratteristica generale un assetto transitorio che configura un dominio attuato
attraverso forme di violenza in un primo momento e, successivamente, con
l'amministrazione totale della società.
Ne “L’uomo a una dimensione” 1964. Herbert Marcuse inizia la sua opera
forse più importante. Marcuse denuncia il carattere
fondamentalmente repressivo dalla società industriale avanzata che appiattisce
in realtà l'uomo alla dimensione di consumatore, euforico e ottuso, la cui
libertà è solo la possibilità di scegliere tra molti prodotti diversi.
Nelle
moderne democrazie occidentali i valori, che una volta erano propri
di una parte della società (la classe borghese), si sono diffusi a tutti gli
altri soggetti sociali, che si appiattiscono sull'ordine esistente: è in questo
quadro che Marcuse elabora il concetto di tolleranza repressiva, ovvero il
momento nel quale la libertà va a coincidere col permissivismo.
Nelle democrazie occidentali, a livello
teorico, si parte dall'assunto che nessuno possiede la verità assoluta, allora
la scelta viene affidata alla collettività, che può scegliere liberamente tra
diverse interpretazioni politico-etico-culturali della realtà; è proprio a
questo punto del processo "democratico" che si innesca il meccanismo
repressivo: l'amministrazione totale dell'esistenza da parte della società
impedisce, di fatto, una scelta che sia veramente libera, il contrario del
relativismo democratico, ovvero un diffuso conformismo. In altre parole
all'uomo viene data la possibilità di scegliere, ma non vengono forniti gli
strumenti per farlo in modo veramente indipendente.
Anche il pensiero filosofico è asservito
al senso comune, è unidimensionale. Marcuse critica alcune delle più importanti
correnti del pensiero novecentesco sulla base dell'incapacità da parte di
queste dottrine di opporre un radicale rifiuto al sistema esistente.
La ragione ed il linguaggio non sono più strumenti in grado
di assolvere al compito principale della filosofia, cioè trascendere la realtà
esistente, restando fedele al contenuto universale dei concetti. La società
tecnologica avanzata riduce tutto a sé, ogni dimensione "altra" è
asservita al potere capitalistico e ai consumi, conquistata dal dominio
"democratico" della civiltà industriale; una società che condiziona i
veri bisogni umani, sostituendoli con altri artificiali.
Herbert Marcuse è stato uno dei pensatori più influenti del Novecento,
soprattutto è nota la passione che per lui avevano gli studenti in rivolta nei
tardi anni sessanta. Il suo pensiero, intrinsecamente anti-autoritario,
rispecchiava la volontà di cambiamento radicale che animava la protesta dei
giovani in tutto il mondo occidentale; il suo rifiuto di ogni forma di
repressione, il suo secco no alla civiltà tecnologica (in entrambe le
declinazioni liberal-capitalistica e comunista-sovietica), lo resero il
filosofo del "grande rifiuto" verso ogni forma di repressione. Egli può
essere infatti definito solo in modo generico un pensatore marxista, poiché, di
fronte al fallimento, durante il XX secolo delle teorie di Marx, col dileguarsi
dello scontro di classe in occidente, intuì che la lotta non era finita, ma si
era solamente spostata nel terzo mondo, oppresso
dall'imperialismo occidentale, sul quale anche le classi emarginate del
"primo mondo" esercitavano una oppressione, pur accontentandosi delle
briciole del banchetto capitalista.
Per i sessantottini fu anche molto importante il concetto di
"liberazione dell'eros", inteso non solo come liberazione sessuale,
ma come liberazione delle energie creative dell'uomo dal condizionamento della
società repressiva, per la creazione di una società più aperta, fatta di uomini
liberi e solidali tra loro. Eros inteso anche come "bello", in
opposizione al concetto di dominio della società tecnologica; egli utilizzò
l'espressione "società come opera d'arte", ovvero una società più
autentica, veramente libera, dominata dalla fantasia e dall'arte come dimensione
fondamentale di ogni forma di convivenza.
Si può dire che Fromm mosse i suoi primi
passi riflettendo su due supposti fallimenti: la teoria marxista e la dottrina
psicoanalitica. La teoria marxista non sembrava più in grado di
spiegare la storia, mentre la critica fondamentale che Fromm muove a Freud è
quella di aver ridotto l'esistenza umana al soddisfacimento libidico, un
qualcosa che accade non universalmente, ma solo all'uomo alienato della società
dei consumi. Il culmine della filosofia
politica e sociale di Fromm si trova nel suo libro La
società sana, pubblicato nel 1955. In esso Fromm poneva argomenti a favore di
un socialismo democratico, di stampo umanista.
Egli divenne quindi uno dei fondatori del
movimento del Socialismo Umanista, promuovendo la conoscenza dei primi
lavori di Marx e del suo messaggio umanista presso il pubblico negli USA ed
in Europa occidentale. Ma Fromm è particolarmente noto per due suoi saggi
che ora vediamo.
In questo saggio, pubblicato nel 1957, il filosofo tedesco intende mostrare
come l'amore sia una vera e
propria arte e, in quanto tale,
necessiti di disciplina, concentrazione, pazienza, supremo interesse e umiltà.
Non si tratta di un "manualetto di
istruzioni", come specifica lo stesso autore nel prologo, ma la
dimostrazione di come ogni tentativo di amare è destinato al fallimento senza
uno sviluppo attivo della propria personalità e non ci può
essere amore senza la capacità di amare il prossimo con fede, umiltà e coraggio.
Nel corso dell'opera il sociologo analizza
quindi l'amore "autentico", con frequenti richiami alla mitologia greca e all'Antico Testamento; inoltre
descrive le varie sue devianze e surrogati come il sadismo e il masochismo. Non mancano
all'interno dell'opera alcune critiche a Sigmund Freud e alla sua
concezione patriarcale del sesso.
Individuate da Erich Fromm queste due
modalità di vita sono state riprese dalla Psicologia Analogica come punti
fondamentali nella formazione della personalità, con la scoperta che questo
aspetto evolutivo si forma fin dai primi mesi di vita e ci accompagna per la
tutta la vita con forti influenze sul comportamento.
La modalità dell’Avere, secondo Fromm, è
più indicata alle società consumistiche, dove il possesso è una condizione
essenziale. Il presente è il prolungamento dei ricordi posseduti. La modalità
dell’Essere, più emotiva, è rivolta all’osservazione delle cose, il tempo
futuro riveste una maggiore importanza che il passato. E’ importante cercare di
variare il proprio comportamento verso quest’ultima modalità.
Sintetizzando l’esempio portato da
Fromm:
Un “Avere” deve possedere un fiore, lo
coglie, lo fa suo. Un “Essere” ne contempla la bellezza, godendo di questo,
percependolo per immaginare altri orizzonti.(Avere o essere? – 1976)
Un lavoro molto importante di Fromm
è Fuga dalla libertà, del 1941. Nella recente storia d'Europa, con
particolare riferimento al nazismo, ma non solo, si può constatare che l'uomo è
disposto a barattare la propria libertà con l'appartenenza sociale a formazioni
collettive, in base al timore della solitudine, la quale però sembra più una
condanna o, quantomeno, una condizione storica dell'uomo moderno che già matura
al livello dei legami primari come la famiglia. Questa degenerazione, tipica
del modo di vita borghese, è accompagnata da un progressivo allontanamento
dalla natura che è un vero e proprio sradicamento. Si ha così una doppia
frattura: l'uomo è lontano dal mondo, ma è anche sempre più lontano da sé
stesso che di quel mondo naturale sarebbe comunque espressione.
Il pensiero di Fromm, contrariamente a
quello dei filosofi più radicali della Scuola di Francoforte, ha incontrato
grande successo di pubblico ed i suoi libri hanno raggiunto vendite record
anche in Italia, sia per la semplicità del linguaggio, sia per l'attualità
degli argomenti, sia per l'obiettivo messaggio di speranza che esso conteneva,
incentrato sulla speranza messianica di un possibile socialismo comunitario.
Per questo ricevette dure critiche da Marcuse ed all'interno della Scuola, ma
venne accolto con favore persino da ampi settori del mondo cattolico. Questo ha
anche contribuito alla formazione di una ideologia cattocomunista che
tuttora è presente in quegli ambienti dove si privilegiano gli interventi
sociali e si accantona la propria formazione religiosa, quella che dovrebbe
dare il vero senso alla carità.
PROGRAMMA incontri della quarta tappa:
“La logica della scoperta
scientifica” è la sua prima opera che lo caratterizza, così come sarà la
sua ultima opera uscita nello stesso anno della sua morte “Tutta la vita è
risolvere problemi”. Egli è noto
per il rifiuto e la critica dell'induzione, per la proposta
della falsificabilità come demarcazione tra scienza e non
scienza, la difesa della "società aperta".
Nato a Vienna nel 1902 da una famiglia della media borghesia di
origini ebraiche, Karl Popper studia
presso l'Università
di Vienna. Nella prima gioventù rimane attratto dal marxismo e membro
del Partito Socialdemocratico d'Austria. Deluso dalle
restrizioni filosofiche imposte dal materialismo
storico di Marx, abbandona
l’ideologia marxista, rimanendo da allora in poi un sostenitore del liberalismo
sociale per tutta la sua vita.
In
particolare il 1919 è l'anno che lo costringe a
rivedere le sue convinzioni ideologiche: assistendo ad una conferenza
di Einstein a Vienna. Popper viene
colpito dal modo in cui Einstein andava alla ricerca di esperimenti cruciali,
sfidando gli scienziati a sottoporre la propria teoria
generale della relatività alla prova spettroscopica. « Sentivo
che era questo il vero atteggiamento scientifico. Giunsi così, sul finire del
1919, alla conclusione che l'atteggiamento scientifico era l'atteggiamento
critico, che non andava in cerca di verificazioni, bensì di controlli
cruciali; controlli che avrebbero potuto confutare la teoria messa alla
prova, pur non potendola mai confermare definitivamente. » (K. R.
Popper La ricerca non ha fine. Un'autobiografia intellettuale (1976),
Armando, 1997)
|
Nel 1928 consegue il dottorato in Filosofia e
tra il 1930 e il 1936 insegna nelle scuole secondarie.
Nel 1937, in seguito all'avvento
del nazismo decide di emigrare
in Nuova Zelanda per
via delle sue origini ebraiche, e diventa lecturer di filosofia presso l'Università
di Canterbury a Christchurch. Nel 1946 si trasferisce in Inghilterra, dove insegna logica e metodo
scientifico alla London
School of Economics e diventa professore nel 1949.
Sviluppa intanto una
forte amicizia con l'economista liberale
della scuola
austriaca Friedrich
von Hayek. Condividendo l'idea che le ideologie
del nazismo e
del socialismo siano accomunate
dallo stesso errore metodologico di fondo.
Proclamato baronetto dalla
regina Elisabetta II nel 1965, Karl Popper nel 1976 è ammesso come membro alla Royal Society. Egli si ritira
dall'insegnamento nel 1969 ma rimane
intellettualmente attivo fino al 1994, anno della sua morte. Durante la sua vita
Popper viene insignito di diversi riconoscimenti importanti e prestigiosi.
Popper afferma in un suo scritto: “Penso di aver
risolto un problema filosofico fondamentale, uno dei tanti, il problema
dell’induzione. Questa soluzione è stata estremamente feconda perché mi ha
permesso di risolvere un gran numero di altri problemi filosofici. L’induzione
non esiste e la concezione opposta è un errore belle e buono”.
Questo è Popper epistemologo che critica
in maniera radicale l’induzione. Che cos’è l’induzione? L’Induzione è un
ragionamento filosofico che parte dal particolare per risalire all’universale.
Si fanno una serie di osservazioni di casi particolari, se ne colgono gli
elementi comuni e si riconduce quindi la molteplicità del reale ad una legge
universale, dal particolare all’universale. L’induzione è un procedimento
tipico della scienza moderna. Infatti il metodo scientifico elaborato da
Galileo Galilei partiva proprio dall’osservazione (metodo osservazionista)
delle “sensate esperienze” (sia dei sensi che di sensati criteri). Inoltre noi
possiamo osservare scientificamente un fenomeno solo se questo è quantificabile
o matematichezzabile. Ricordiamo che per esempio un oggetto ha in se dei dati
misurabili e quindi incontestabili o inconfutabili (altezza, lunghezza,
profondità, peso, forma, ecc.) nei quali non possiamo non essere tutti d’accordo.
Ma ci sono altri aspetti dello stesso oggetto che non sono altrettanto
misurabili, perché sono soggettivi, cioè sui quali non si può essere tutti
d’accordo e quindi non possono entrare nell’ambito della scienza, cioè studiati
e analizzati scientificamente. L’universo è scritto in caratteri matematici.
Da tutti questi dati misurati e
catalogati si ipotizza una soluzione, cioè un tentativo di spiegazione
dell’oggetto o del fenomeno osservato. Una volta elaborata l’ipotesi lo
scienziato deve verificarla (principio di verificabilità che caratterizza la
scienza moderna). Una volta che è scientificamente verificata e riprodotta
diventa legge universale (ovvero immutabile legge scientifica). Questo comunque
è per Popper un procedimento induttivo che non può portare a qualcosa di
immutabile, perché l’immutabile non esiste. Torniamo al problema
medioevale degli universali che la filosofia contemporanea continua ad
impegnarsi ad abbattere e combattere. Per Popper l’induzione non esiste perché
non si può continuare ad osservare la molteplicità dei casi particolari in modo
totale. Una osservazione è sempre parziale. Popper racconta la storia di un
tacchino induttivista che vive in un pollaio e che ormai ha da tempo
sperimentato che ogni giorno alla stessa ora arriva la contadina con il cibo.
Il tacchino ha quindi sperimentato in uno straordinario numero di casi che a
quella ora arriva sempre il cibo. Per questo tutti i giorni alla stessa ora si
fa trovare vicino alla bacinella dove la contadina gli mette il cibo. È un
fatto che con il passare del tempo il tacchino scoprirà che dopo una lunga
serie di giorni in cui arriva il cibo puntuale, il giorno prima di Natale non
arriverà il cibo, ma verrà preso e diventerà lui il cibo per altri. Quindi
l’induzione anche se verificata a lungo non produce alcuna oggettività
conoscitiva, o comunque produce una conoscenza che non ha alcuna attendibilità.
Popper è un critico fondamentale dell’induzione. Per quanti casi particolari io
possa analizzare non potrò mai arrivare ad una legge universale e immutabile.
Altra contestazione di Popper ad un
principio della scienza è quella nei confronti della verifica. Nella realtà non
posso verificare tutti i casi possibili, la verifica è un mito come
l’induzione. Questo perché per quante verifiche io possa fare non arriverò mai
alla certezza di aver trovato una verifica che mi confermi l’universalità del
fenomeno osservato e della legge scientifica corrispondente. Basta un solo caso
nel quale la legge non è verificata per far cadere il tutto. Non ci dovrebbe
essere nessun caso non verificato nel passato, nel presente, ma nemmeno nel
futuro e questo è impossibile da verificare. Ciò che rende scientifica una
proposizione o una legge, non è il suo esser stata verificata, perché questo
non la può rendere vera e quindi immutabile e universale. Si potrà dire solo
che fino ad ora quella legge non è stata ancora smentita e quindi ha buone
probabilità di essere vera o è ragionevole ritenerla tale fino però a prova
contraria. Ciò che rende scientifica una legge è la sua non
falsificabilità. Quindi invece di intuizione e di verificabilità, ciò che conta
è la non falsificabilità.
Popper poi critica profondamente due
concezioni che nel ‘900 riscuotevano un successo incredibile e che si autodefinivano
scientifiche. La prima è il Marxismo, al quale aderì da
giovanissimo e che poi criticò così a fondo da diventare uno dei padri del “Liberalismo”
che è di fatto l’opposto del marxismo (“chi è marxista da giovane non
ha cuore, ma chi è marxista da adulto non ha cervello” - Sir Winston
Churchill).
La seconda è la Psicanalisi proprio
per la sua impossibilità a poterla considerare scienza, perché non solo non può
applicare correttamente l’induzione e non è totalmente verificabile, ma
essenzialmente non permette assolutamente la falsificazione. Popper addirittura
sperava di veder smentite per sempre queste due pseudoscienze prima di morire
(cosa che poi avvenne). Per lui era evidente che entrambe queste due
pseudoscienze non si sottoponevano mai alla falsificazione perché entrambe si
ponevano come leggi scientifiche definitive, incontestabili. In realtà sono
talmente inglobate nel loro schema con il quale leggono la storia, l’economia,
la psiche, i comportamenti, ecc. da non permettere mai di essere falsificate,
anzi qualunque tentativo in questo senso viene inglobato nel loro sistema.
Leggiamo nelle “Congetture e confutazioni” di Popper: Fu durante
l’estate del 1919 che cominciai a sentirmi sempre più insoddisfatto di queste
tre teorie e cominciai a dubitare delle loro pretese di scientificità. Che cosa
non va nel marxismo, nella psicanalisi (Freud) e nella psicologia individuale
(Adler)? Perché queste dottrine sono così diverse dalle teorie fisiche, e
soprattutto dalla teoria della relatività? Meditando sulla questione riscontrai
che i miei amici, ammiratori di Marx, Freud e Adler erano colpiti da alcuni
elementi comuni a queste teorie e soprattutto dal loro apparente potere
esplicativo. Essi sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che
accadeva nei campi a cui si riferivano. Erano teorie omnicomprensive (olistiche = dal
greco “olos” che letteralmente significa “il Tutto”). Lo studio di una
qualunque di esse sembrava avere l’effetto di una conversione o rivelazione
intellettuale che consentiva di levare gli occhi su di una nuova verità
preclusa ai non iniziati. Una volta dischiusi in questo modo gli occhi si
scorgevano ovunque delle conferme (ecco la verifica). Per il marxista qualunque
cosa accade e che legge sulla Pravda trova per forza conferme alla sua teoria,
alla sua visione del mondo, alla sua teoria della storia. Il mondo pullulava di
verifiche della storia, qualunque cosa accadesse la confermava sempre e quindi
non si lasciavano falsificare. La sua validità appariva per ciò manifesta, e
quanto agli increduli, che timidamente cercavano di sollevare qualche
obiezione, si trattava chiaramente di persone che non volevano vedere la verità
manifesta, o perché contraria ai loro interessi di classe, o a causa delle loro
repressioni psicologiche ancora non analizzate (consigliabile allora uno
specifico trattamento clinico). L’elemento più caratteristico di questa
situazione mi parve il flusso incessante delle conferme, cioè delle verifiche.
Un marxista non poteva aprire un giornale senza trovarvi in ogni pagina una
testimonianza in grado di confermare la sua interpretazione della storia, non
soltanto per le notizie, ma anche per la loro presentazione e soprattutto
naturalmente per quello che non diceva. Quanto ad Adler (amico di
Popper) restai molto colpito da una esperienza personale. Nel 1919 gli
riferì di un caso di un bambino che non mi sembrava particolarmente adleriano,
cioè ascrivibile alla sua teoria, ma egli non trovò difficoltà ad analizzare
nei termini della propria teoria dei sentimenti di inferiorità, pur non avendo
nemmeno visto, osservato, analizzato il bambino in causa. Un po’ sconcertato
gli chiesi come poteva essere così sicuro. Risposta: a causa della mia
esperienza di mille casi simili. Al che non potei trattenermi dal commentare: e
con quest’ultimo, suppongo, la sua esperienza vanta ora 1.001 casi.
In questa sua opera Popper critica la pretesa di cogliere il senso della
storia, di trovare cioè la chiave di lettura del processo storico. In altre
parole trovare cosa c’è scritto sul traguardo di questa nostra storia. Qualcuno
ci ha scritto “Comunismo realizzato” (Marx), qualcun altro “Età del
Positivismo” (Comte), altri “la Ragione che illumina il mondo” (illuministi),
altri ancora “il ritorno di Gesù Cristo alla fine dei tempi” (i cristiani),
tutti comunque hanno individuato una direzione di marcia della storia. Il
divenire della storia è mutabile, quindi diveniente, ma il suo traguardo
ipotizzato è visto come immutabile, ma questo per Popper va abbattuto,
quindi lo storicismo è una miseria. Tutti coloro che pretendono di
aver individuato l’elemento che guida la storia, la chiave di lettura della
storia, sono per Popper dei nemici della Società aperta. Popper rilegge tutta
la storia della filosofia criticando questa impostazione storicistica e
criticando fortemente anche “L’Olismo”, cioè l’elemento che spiega il
tutto. Popper rivaluta fortemente i sofisti per la loro convinzione che non
esiste una verità assoluta “l’Uomo è misura di tutte le cose” (Protagora). I
sofisti quindi erano gli uomini della società democratica, dell’Atene
democratica, quella di Pericle, convinti che nessuno ha la verità in tasca,
nessuno ha il criterio di giudizio per dire che una cosa è vera in assoluto, ma
si apre alla discussione, si apre alla democrazia perché non è una Società
chiusa, ma è una Società aperta. Come avevamo già rilevato nel trattare del
pensiero politico di San Tommaso ci eravamo serviti delle osservazioni di
Popper sui suoi concetti di Società aperta e dei suoi nemici, fra i quali
spiccava Platone, visto come un totalitario. Questo perché Platone dice che
esiste un immutabile (il mondo ideale) e dice che il filosofo è colui che
contempla questo mondo immutabile ed eterno, cosa che gli permettere di conoscere
la realtà (la verità) e quindi solo i filosofi hanno la capacità di assumere
ruoli di governo. Conoscono cioè la verità, il bene sommo e quindi è giusto che
abbiano il potere. Ma questa visione di Società di Platone è una Società
chiusa, tirannica, dove governa chi pensa di avere il corretto punto di vista
sulla realtà. Popper quindi è un critico radicale di tutte le forme di
storicismo e olismo, di tutti cioè coloro che credono di aver individuato la
verità sul mondo.
Leggiamo da Emanuele
Severino (“la Filosofia contemporanea” – Ed. BUR Saggi – pag 336): …Popper
respinge anche ogni concezione che, come il marxismo, si illude di conoscere le
leggi necessarie dello sviluppo storico e il significato globale della storia.
Tale significato non esiste e quindi non esiste nemmeno la possibilità di una
rivoluzione globale (non esiste, cioè, un significato globale della
realtà. Popper è interno a questa crisi di pensiero del ‘900 che ha abbattuto
tutti gli “immutabili” e non ha fatto altro che esplicitare Nietzsche: non
esiste direzione, non esiste meta, non esiste alto o basso, non esiste nulla di
definitivo. C’è orrore nella filosofia del ‘900 per tutto ciò che è definitivo,
per ciò che è stabile). Anche in campo sociale, sono possibili solo
trasformazioni parziali, operate in base al metodo che è proprio della scienza:
per tentativi ed errori, dove i tentativi sono le ipotesi che vengono poste al
vaglio della critica razionale, e gli errori sono queste stesse ipotesi quando,
poste così al vaglio, vengono smentite dall’esperienza.
“Società chiusa” è ogni
forma di Società regolata da norme ritenute immodificabili. Ogni tipo di
totalitarismo (di destra o di sinistra) è per Popper una forma di società
chiusa. “Società aperta” è invece la società che sottopone al vaglio della
critica razionale tutte le norme da cui essa si fa guidare. (Cioè la società
che è sempre pronta a discutersi a rimodellarsi a cambiare, perché sa non c’è
nulla di immutabile). Società aperta è quindi la società democratica di
tipo occidentale (liberale).
Leggiamo ora invece
da Vittorio Messori “Pensare la storia” Ed. Sugarco,
un suo articolo in occasione della caduta del muro di Berlino intitolato
“Popper accontentato”: a 87 anni Karl Popper è stato accontentato, da decenni
infatti questo filosofo austriaco ma che da tempo vive a Londra, stava
ripetendo queste parole “Spero di vivere abbastanza a lungo da vedere
sbugiardate e ridotte a pezzi le invenzioni di due ebrei (ebrei e tedeschi come
lo stesso Popper) che hanno scritto in tedesco ‘il Comunismo
scientifico di Marx’ e ‘la Psicanalisi di Freud’. Quanto
alla psicanalisi si sa come negli Stati Uniti, che per decenni ne erano stati succubi, lo
psicanalista si sia ridotto ad una macchietta, protagonista delle battute
di Woody Allen. Quanto al Marxismo è
sotto gli occhi di tutti che fine abbia fatto. Tanto che, come è stato
osservato con ironia o con amarezza, secondo i punti di vista, ormai in Freud e
in Marx ci credono soltanto alcuni frati e suore e magari qualche vescovo del
terzo mondo. Ma perché questa speranza di svergognamento è nutrita tanto
tenacemente da Popper? Perché per lui questi due prodotti dell’ebraismo
laicizzato dell’occidente, che come avevamo già visto sono un surrogato di un
Messia mancato, avevano la pretesa di presentarsi come scienze ma erano
esattamente il loro contrario, proprio perché non tolleravano critiche e
respingevano a priori ogni tentativo di verifica. In effetti chiunque avesse
azzardato qualche ostentazione sul marxismo era subito squalificato come una
vittima dei pregiudizi di classe, nei casi migliori, o come un reazionario che
si oppone al progresso e alla vittoria inevitabile del proletariato nei casi
peggiori. Ogni critico diventava subito un nemico da combattere (non uno che la
pensa diversamente) o un poveraccio da compatire perché non riusciva a
liberarsi dai condizionamenti classisti. Alla pari dell’ideologo marxista anche
per la psicanalisi si era creato un sistema impenetrabile ad ogni critica. Ogni
critica era classificata come una oscura resistenza dell’inconscio, quindi
inverificabile e impermeabile a qualunque tentativo di falsificazione. Chiunque
avesse voluto mettere in discussione la così detta analisi del profondo non era
considerato come un interlocutore da prendere sul serio anche perché poteva
aiutare a capire meglio, ma un malato bisognoso di cure (o la pensi come noi o
sei matto). Come un complessato da sdraiare sul lettino per farlo parlare dei
suoi rapporti infantili con mamma e papà durante la fase orale, poi quella
anale ed infine quella genitale. Bisognava al fine avere il coraggio di rompere
l’incantesimo e a gridare che “il Re è nudo” e Popper era uno che lo gridava ai
quattro venti. Ma ci sono voluti decenni prima di poter cominciare a discutere
i dogmi di Marx e di Freud, protetti come erano da un ricatto che tanto a lungo
aveva paralizzato gli intellettuali per non essere scambiati o per reazionari o
per repressi.
J. Ratzinger
Oggi in genere non c’è
molto interesse per la storia. Perché volgersi indietro a guardare il passato –
si dice – quando il presente è così urgente e carico di attese, e il futuro si
annuncia così grande e importante? Non c’è da perdere tempo a considerare il
passato. Il guaio è che simile convinzione non fa che aumentare la perdita di
memoria, e la perdita di memoria conduce dal canto suo velocemente alla
trascuratezza e alla perdita di consapevolezza [la perdita dell’esperienza e
del vissuto dei nostri padri e dei nostri avi, cioè rendere inutili per la
nostra vita di oggi le cose buone e le cose cattive già sperimentate da loro -
Ndr].
A dire il vero c’è
qualcosa di più preoccupante ancora della smemoratezza, e noi oggi cominciamo
ad avvertirne i tratti: è l’avvelenamento della memoria, cioè il tentativo di
accreditare tutto quanto il passato come una storia di oppressione e di
deviazione, e di farci credere che soltanto ribellandoci contro tutto ciò che è
stato e che è stato fatto, sia possibile costruire un mondo migliore. [buttare
via l’acqua sporca con dentro il bambino, ovvero è bello buono e giusto solo il
nuovo, il moderno. Il vecchio è tutto da buttare - Ndr].
Quando però la memoria
viene avvelenata, con essa resta avvelenato anche l’uomo. Quando questi non può
amare più nulla , quando non può ricevere più niente che valga la pena di
essere trasmesso nel tempo, il mondo stesso finisce per essere nient’altro che
veleno: per quanto l’uomo si dia da fare a ricostruirlo, esso non potrà mai che
consistere di disillusioni e di contrapposizioni.
A fronte di tutto ciò,
la storia della Chiesa, correttamente intesa, è una “ripulitura” e
purificazione della memoria. Essa non è una storia tendenziosa, fatta di tesi
precostituite [come avviene generalmente per la storia scritta da storiografi
al servizio dei regimi totalitari o dei gruppi di potere del momento per
dimostrare la correttezza e la genialità delle scelte fatte da chi appunto
ha in questo momento le redini del potere]. Solo la verità salva; e per
questa ragione la storia della Chiesa deve essere vera “storia”, che pure ci
documenti, senza alcun “abbellimento”, tutta la miseria, l’oppressione, le
deviazioni dell’umano che si sono verificate.
Proprio quando ciò
accade, diviene manifesto che sotto la cenere di tutti i fallimenti umani non
si spegne mai la brace di quel “fuoco” nuovo che Cristo ha introdotto nel
mondo. Alla vista di tutta l’umana meschinità, possiamo esattamente riconoscere
che c’è qualcosa che né essa né il male che la contraddistingue possono
cancellare; una luce, che nessun fallimento ha mai potuto interamente spegnere.
In questo modo si vede che la Chiesa ha potuto sempre trasformare gli uomini
con la potenza non della sua parola umana, ma della parola e dell’amore di Dio,
e ha potuto donare loro quello sguardo misericordioso di salvezza, che dà vita,
[che dà speranza, che dà la forza di andare avanti anche in presenza del male].
(Articolo di J. Ratzinger tratto dal quotidiano tedesco “Rheinische Post, del
17 marzo 1985)
Nel saggio di Fromm del
1957, il filosofo tedesco intende
mostrare come l'amore sia una vera e
propria arte e, in quanto
tale, necessiti di disciplina, concentrazione, pazienza, supremo interesse e
umiltà. In “Dogma e predicazione” J. Ratzinger ce ne parla così.
Il vero e proprio cuore
de cristianesimo è e rimane l’amore del prossimo. In realtà, infatti, ogni
singolo individuo è amato infinitamente da Dio e ha un valore infinito. Come
acutamente ha compreso Pascal, Cristo dice a ciascuno: nella mia agonia, ho
pensato a te. Per te ho versato questa goccia di sangue.
L’uomo non è mai puro
materiale da costruzione del futuro, egli è anche un fine di per sé stesso. Ed
egli non si esaurisce mai totalmente nelle diverse relazioni, ma rimane sempre
un interrogativo mai risolto e carico di una domanda di infinito, che esige una
risposta personale, la quale non può mai venire interamente pianificata. Perciò
non ci saranno mai situazioni che rendano superflua l’iniziativa personale,
premurosa e amorosa per l’uomo […].
Se un uomo è riuscito, grazie al suo
amore, a dare un senso ad un altro individuo, ad un’altra persona, ha reso la
sua vita infinitamente meritevole. Né si potrà mai cancellare il fatto che vi
sono uomini che vivono solo perché hanno incontrato un amore tale da offrire
loro una ragione di vita; cioè continuerà a valere a tutte le latitudini;
questo dono non sarà reso superfluo da nessuna riforma e da nessuna rivoluzione
(o ideologia).
E viceversa: tutte le volte che, pur in
mezzo ad un mondo di inimicizia e di estraneità, ci è venuta incontro una persona,
che lasciandosi alle spalle l’anonimità del collettivo è stata per noi un
“fratello”, qui è accaduta realmente la salvezza […].
Solo aiutando a salvare gli altri, veniamo
salvati noi stessi. Forse noi oggi siamo così spigolosi, talmente miseri nel nostro
essere cristiani, perché cerchiamo così intensamente di aiutare soltanto noi
stessi. (tratto da J. Ratzinger “Dogma e predicazione” Ed. Queriniana
Brescia 1974)
(cfr. Gv 4,8).
La parola “amore”, una delle più grandi del linguaggio umano, è nello
stesso tempo una fra le più svuotate e umiliate, banalizzata e involgarita.
Eppure non c’è lingua che possa rinunciare ad essa, perché se smettessimo di
parlare di amore, smetteremmo di parlare dell’uomo, smetteremmo di parlare di
Dio, il solo che congiunge la terra e il cielo. […]
[…] È sulla croce che la parola “amore” riacquista tutta la sua
originalità. L’uomo non ha bisogno solo di “toccare”, di “prendere” , di
anelare al “potere”. L’uomo ha bisogno di “comprendere”, ha bisogno di
“percepire”, di “ascoltare” , di “ragionare” , di spingersi fino alle
profondità del cuore. È solo se la “ragione analitica” rimane in sé aperta alla
“ragione più alta” e “comprensiva” (che comprende cioè anche ciò che non
si tocca, non si vede, non si mangia, ecc.), essa può davvero dirsi “razionale“
e “conoscere” veramente. Chi non ama, non può neppure conoscere (cfr. Gv 4,8).
Certamente la scienza è importante, il potere tecnologico è importante,
l’economia è importante, ma se tutto resta unicamente finalizzato a sé, essi si
riducono a essere qualcosa di vacuo, ma al contempo gravido di pericoli
per tutta l’umanità. Oggi ne facciamo esperienza diretta, scienza,
tecnologia ed economia (dovremmo dire politica), conservano valore e positività
soltanto se restano inscritte e ordinate a quella ragione che percepisce più di
quanto la fisica è capace di dimostrare, la tecnica di produrre, l’economia di
risolvere, e che, pure, sa mantenersi nel vero.
Dove questa ragione viene “disinserita”, la “ragione analitica” si
trasforma nella tirannide dell’irrazionalismo. (Omelia del 16 maggio 1985, in “Bollettino
diocesano” n. 15 – 1985)
La disparità tra
ricchi e poveri, da statistiche presentate più volte, sta aumentando, tanto è
vero che tutti sanno che l’1% della popolazione mondiale detiene il 50% della
ricchezza. La classe media, vero motore del capitalismo, sta perdendo capacità
di acquisto (e posti di lavoro) e questo mina alla base il sistema industriale
e la relativa economia basata sui consumi e di conseguenza indebolimento del
potere della classe dirigente e delle speculazioni finanziarie. Nessun lavoro
vuol dire nessuno stipendio, quindi niente consumi, niente risparmio, quindi
niente ricchezza per la borghesia, quindi niente capitalismo. Dio è morto, il
socialismo è morto, il feudalesimo è morto, l’imperialismo è morto, il nazismo
è morto, il comunismo è morto, il capitalismo è morto. C’è però un
cristianesimo che nonostante le continue diagnosi di “fase terminale”, continua
ostinatamente a dare segni di vita. Il Dio che è morto è quello inventato dagli
uomini. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è vivo ed è il Dio dei vivi
ed è con noi fino alla fine dei tempi [Ndr].
PROGRAMMA incontri della quarta tappa:
l'eclissi della ragione
- 4t-1-La reazione a Hegel: Schopenhauer e Kierkegaa...
- 4t-2-La sinistra hegeliana: Feuerbach e Marx
- 4t-3-Positivismo e Darwinismo
- 4t-4-Spiritualismo e Psicanalisi
- 4t-5-Nietzsche: la morte di Dio
- 4t-6-Nietzsche: l'oltreuomo
- 4t-7-La Fenomenologia di Husserl
- 4t-8-Heidegger e l'esistenzialismo
- 4t-9-Idealismo italiano
- 4t-10-Neopositivismo e Pragmatismo americano
- 4t-11-La Scuola di Francoforte e Popper
- 4t-12-L'Ermeneutica di Gadamer e Benedetto XVI
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