giovedì 18 maggio 2017

4t-12-L'Ermeneutica di Gadamer e Benedetto XVI

Le Slides e la Dispensa
























Hans-Georg Gadamer  
(Marburgo, 11 febbraio 1900 Heidelberg, 14 marzo 2002) è stato un filosofo tedesco, considerato uno dei maggiori esponenti dell'ermeneutica filosofica grazie alla sua opera più significativa, Verità e metodo . È stato allievo di Paul Natorp e di Martin Heidegger. Gadamer studiò all'Università di Breslavia, passando poi a quella di Marburgo dove, nel 1922, conseguì il dottorato di ricerca presso la cattedra di Paul Natorp con una tesi su L'essenza del piacere nei dialoghi di Platone. Nel 1929 ottenne la libera docenza, mentre dieci anni più tardi divenne professore ordinario, e nel biennio 46-47 rettore dell'Università di Lipsia. Insegnò poi all'Università di Francoforte, quindi a Heidelberg, prendendo la cattedra che era stata di Jaspers, incarico che tenne fino al 1970. Durante questo periodo completò Verità e metodo  (Wahrheit und Methode, 1960). Nel 1973 divenne accademico dei Lincei, nel 1990 venne nominato cittadino onorario di Napoli e nel 2000 gli venne conferita la cittadinanza onoraria di Palermo. Morì il 13 marzo 2002 all'età di 102 anni in una clinica universitaria di Heidelberg.

Gadamer e l’ermeneutica

Da tecnica dell'interpretazione dei testi a disciplina filosofica universale.
Il nucleo fondamentale della ricerca filosofica di Gadamer si muove sul terreno dell'ermeneutica. La parola "ermeneutica" è di etimo greco e rinvia alla hermeneutiké téchne, termine che allude a una costellazione di significati legati all'attività del tradurre, dell'interpretare, e che a sua volta deriva da hermeneúo, verbo che riecheggia Hermes – il nunzio degli dèi.
In passato l'ermeneutica era una dottrina tecnica che si occupava dell'interpretazione dei testi sacri o delle leggi. Intesa nel senso disciplinare del termine, l'ermeneutica è un prodotto essenzialmente moderno. È in quest'epoca infatti che Friedrich Schleiermacher apre la strada a quella che stava per diventare una disciplina filosofica vera e propria. Il problema posto dall'autore era di vedere quali fossero le condizioni preliminari del comprendere, per mezzo delle quali gli interpreti avrebbero potuto evitare ogni fraintendimento durante la ricostruzione (hinein-Versetzung, letteralmente: trasferimento interno) dell'opera.
In questo senso, il compito dell'interprete consisteva non solo nel catturare le intenzioni esplicite dell'autore originario, ma di esplicitare la traccia del "non-detto" sotteso a ogni intento consapevole. Ma se per Schleiermacher il circolo ermeneutico era concluso grazie a un trasferimento empatico (L’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d'animo altrui "mettersi nei panni dell'altro", ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana), per Wilhelm Dilthey, epistemologo delle scienze dello spirito, rimane un compito mai concluso né mai pacificato. Tuttavia, Dilthey riteneva ancora che la comprensione dovesse raggiungere la medesima oggettività propria delle scienze della natura.
In evidente opposizione alla pretesa di monopolio rivendicata dalla metodologia delle scienze empiriche, Martin Heidegger rappresenta un punto di svolta per la storia dell'ermeneutica. Egli prese a occuparsi del problema dell'ermeneutica per sviluppare, con intenti non più epistemologici ma ontologici, la struttura della precomprensione. Secondo Heidegger, infatti, il comprendere rappresenta un modo di essere dell'Esserci (Dasein), la cui esistenza è influenzata da una comprensione preliminare del mondo.
A partire da questo assunto, Gadamer giunge a interrogarsi sulle modalità del comprendere ermeneutico. Per Gadamer, non è possibile tornare indietro rivivendo il passato in modo oggettivo, poiché l'esistenza presente è influenzata da una serie di conoscenze stratificate che anch'egli chiama "pre-comprensioni" (Vorverständnisse) o, più semplicemente, "pregiudizi". Ora, sostiene Gadamer, quando ciascuno emette un giudizio è influenzato dalla propria visione del mondo (Weltansicht), che tuttavia non costituisce un inconveniente, bensì una condizione fondamentale del processo cognitivo.
È per questa ragione che egli può affermare che: "Di per sé, pregiudizio significa solo un giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti gli elementi obiettivamente rilevanti". Secondo questo punto di vista, il pregiudizio non va eliminato, ma abitato con una certa phrónesis ("saggezza", o meglio ancora "prudenza", termine che richiama il latino pro-videre ovvero la capacità di "guardarsi [se videre] intorno [pro]"), concetto che Gadamer recupera esplicitamente da Aristotele: "L'interprete", prosegue Gadamer, "non può proporsi di prescindere da sé stesso e dalla concreta situazione ermeneutica nella quale si trova".
È così che si viene a configurare il "circolo ermeneutico". Ogni interpretazione è infatti influenzata dai nostri pregiudizi storici, nel senso che le nostre conoscenze che caratterizzano la comprensione del presente sono determinate da una continua stratificazione di nozioni che si formano grazie al costante dialogo tra l'opera e i suoi interpreti. Tale circostanza trova un'illustrazione nell'importante, e talvolta frainteso, concetto di "fusione degli orizzonti" (Horizontverschmelzung), il processo che porta il fruitore del testo all'interno del circolo ermeneutico, in cui si fondono due orizzonti: quello dell'interprete, formatosi entro la tradizione e la precomprensione del presente, e quella del testo, che porta con sé l'insieme di tutte le interpretazioni e tradizioni che ha vissuto.

Ripartiamo da Martin Heidegger

Per capire Hans-Georg Gadamer dobbiamo ripartire dal suo maestro Heidegger. Come sappiamo Heidegger vive l’avvento del nazional socialismo come una liberazione di energie e di rinnovamento, ma quello che lo renderà grande nella filosofia del ‘900, e attenuerà il disagio della sua scelta politica, è il suo trattato “Essere e tempo” (1927). Con quest’opera ottiene a Friburgo la cattedra che era stata del suo maestro Husserl. Heidegger nella sua filosofia si pone la domanda di “cos’è l’essere?” e lo fa a partire dalla critica del pensiero occidentale colpevole di aver fatto cadere nell’oblio, questa questione così importante. L’essere, sostiene il filosofo, deve essere interrogato a partire dall’esserci, ovvero dall’uomo e dal suo essere o esserci nel mondo. È grazie alla sua attenzione all’esistenza umana che Heidegger è ricordato come uno dei grandi esponenti dell’esistenzialismo europeo. Il suo lavoro ha fortemente influenzato la filosofia continentale, ma anche la teologia e le scienze umane.



Quando abbiamo affrontato il pensiero di Heidegger avevamo parlato della sua opera “Sentieri interrotti” (Holzwege), raccolta di saggi che ha un titolo intraducibile in italiano. In realtà il titolo vuole indicare sentieri che si perdono nel bosco ma che fanno parte del bosco. Il problema era di capire cosa Heidegger volesse davvero dire con questo titolo. Questa è l’ermeneutica cioè capire cosa stà dietro il termine Holzwege . Ermeneutica è di fatto l’”interpretazione dei testi”. È quello che è avvenuto fra Heidegger e Pietro Chiodi, il suo traduttore in italiano. In questa fase si definì, attraverso un lungo scambio epistolare far i due, che i sentieri che si interrompono o si perdono nel bosco sono le singole ricerche contenute nel libro ed in genere ogni umana ricerca, che si inoltra nel bosco dell’essere per signoreggiarlo, ma che in realtà per Heidegger, finiscono per perdersi in esso. Heidegger vuol dire che l’essere è unità articolata di rivelazione e nascondimento, che è epoché fenomenologica (Epoché husserliana).

Epoché husserliana

Nella fenomenologia husserliana l’epoché, o sospensione del giudizio, è un atto libero, volontario del soggetto volto non alla negazione del mondo, o all’affermazione del dubbio ontologico degli scettici, bensì alla «messa in parentesi» dell’atteggiamento naturale e di tutto quanto esso abbraccia sotto l’aspetto ontico, cioè l’intero mondo naturale che è costantemente «qui per noi», sia nella vita «pratico-naturale» di ciascun essere umano, che nelle scienze, come un mondo preliminarmente essente. Dunque, Husserl attraverso tale tecnica sospensiva intende impedire alle proprie analisi qualunque approccio esperienziale al reale «in un senso ingenuo e diretto»: l’intero mondo «non provato, ma anche non contestato», così com’è posto nell’atteggiamento naturale insieme alle teorie scientifiche o filosofiche ad esso riferentisi, viene messo fuori azione, in parentesi.

 Ogni sentiero in quanto cammino della ricerca umana è ad un tempo via e sviamento, avanzamento e smarrimento. Siamo già in Gadamer, in qualche modo. Interpretare Holzwege semplicemente come “sentieri nel bosco” avrebbe significato inoltrarsi nel bosco tutti attraverso lo stesso sentiero e tutti nello stesso modo (sentiero già tracciato). Mentre l’accesso al bosco è il più vario, cioè ognuno accede all’essere o comunque a un testo da interpretare per una via che è sua, è unica, irripetibile. Ognuno può andare nel bosco per i più svariati motivi.

 Critica alla impostazione scientifica della ricerca

Heidegger, così come Gadamer e così come Hurssel, criticano fortemente l’impostazione scientifica della ricerca. Questo perché la Scienza di fatto vuole signoreggiare le cose, prendere le cose formalizzandole, catalogandole e riducendole ad una schema universale. È come se per vedere il bosco e cogliere il senso del bosco io dovessi osservarlo solo dall’alto, da un aereo, e tutti quindi in questo stesso modo. Questo vorrebbe dire che noi non ci inoltriamo in esso, non ci entriamo, non ci smarriamo in esso.




Heidegger nel suo Holzwege propone una riflessione su Nietzsche della quale il lettore rimane scioccato perché ci dice chiaramente che questo saggio è una riflessione sulla “metafisica di Nietzsche”, proprio quando Nietzsche è identificato come un grande critico della metafisica stessa. Heidegger, invece lo definisce l’ultimo dei metafisici, perché nella sua ermeneutica o interpretazione del pensiero di Nietzsche, ci dice che il vero pensiero di un autore è nel “non detto”, in ciò che noi andiamo ad interpretare. Noi siamo capaci di leggere un testo e di cogliere “la vicinanza del medesimo” dice Heidegger, cioè di leggere Nietzsche come la parabola di tutta la metafisica occidentale che in realtà ha dimenticato l’essere. 

Critica a Platone

Siamo partiti da Platone che affermava che prima di tutto ci sono le idee che sono quelle che ci permettono di cogliere la verità delle cose, il giusto punto di vista. Poi venne Cartesio, e poi Nietzsche. Ma tutto Husserl, tutto Heidegger e poi Gadamer criticano fortemente questa impostazione. Impostazione che per cogliere la realtà ha bisogno di un giusto e corretto punto di vista universale e valido per tutti. Tutti quindi guardano le realtà nello stesso modo, tutti colgono i fenomeni con il metodo scientifico allo stesso modo, tutti si rifanno ad una legge universale, ma in questo modo smarriamo l’essere, non abbiamo la verità delle cose. Per Gadamer, che è il padre dell’ermeneutica, smarriamo la comprensione autentica dei testi. Questo perchè sostanzialmente l’ermeneutica è una interpretazione dei testi. Gadamer sostiene di aver individuato in “Verità e metodo” il metodo dell’interpretazione, come si deve interpretare e com’è questa ermeneutica.


Critica all’illuminismo e al romanticismo

Partiamo dal concetto di distanza ermeneutica, cosa vuol dire. Prendiamo in considerazione il nostro bagaglio di pregiudizi, che è stato svalutato dalla scienza (lo scienziato moderno è privo di pregiudizi e guarda il mondo con un occhio obiettivo e neutrale e non ha nessuna spinta anticipatrice). Il pregiudizio invece è proprio ciò che ci permette di entrare nel bosco, ciascuno per suoi particolari motivi. Il pregiudizio è la spinta anticipatrice che ci spinge ad entrare in ciò che vogliamo conoscere e capire. Il pregiudizio per Gadamer deve esserci.
Questo differenzia Gadamer sia dall’illuminismo che dal romanticismo. Infatti se c’è una corrente di pensiero che ha condannato il pregiudizio, questo è proprio l’illuminismo che affermava che la ragione deve vincere ogni pregiudizio: “abbi il coraggio di servirti della tua ragione” (Kant). Abbandono quindi di tutti i residui della tradizione (quelli buoni e quelli cattivi), libertà dell’uomo da tutto ciò che può nuocere alla “ragione pura”. Capacità di formalizzare la realtà in modo universale.


La ragione illuministica, come strumento conoscitivo è antitradizionalista, vuole abbattere i pregiudizi, dare all’uomo la conoscenza con il lume della ragione per tutti allo stesso modo. Gadamer critica fortemente tutto questo. L’illuminismo ha smarrito l’essere. L’illuminismo non ha detto la verità delle cose. L’illuminismo con la kantiana isola dei soli fenomeni che noi conosciamo a priori, in realtà ha perso la realtà, ha perso l’oggetto. L’illuminismo non interpreta, si illude di conoscere, ma conoscendo smarrisce ciò che conosce.
Al contempo Gadamer critica fortemente anche il romanticismo. Il romanticismo che si contrappone all’illuminismo voleva invece rivalutare la tradizione. È la tradizione che mi dice cosa è la verità, la realtà come ce l’hanno tramandata i nostri padri, che è il frutto di tutta la storia reale passata e che mi rimane a disposizione e mi dice già come guardare il mondo. Per Gadamer entrambe queste posizioni sono sbagliate. Entrambe  sono punti di vista sulla realtà. Non c’è nulla di immutabile, tutto è in movimento.

“Bisogna abbattere gli immutabili”

Anche Gadamer non si sottrae a quello che abbiamo detto essere il denominatore comune di tutta la modernità e di tutta la contemporaneità, “bisogna abbattere gli immutabili”. Non c’è nulla di immutabile, non c’è verità data, non c’è sguardo universale. C’è solo un circolo ermeneutico, una continua interpretazione, sempre rinnovantesi, sempre diveniente. Io interpreto un testo in un modo, i miei padri lo interpretavano in un altro, le generazioni future in un altro ancora. Questo perché ad ognuno quel testo dirà qualcosa di nuovo. Anche Gadamer quindi combatte gli immutabili che sono la vera paura, per non dire terrore di tutta la modernità. La modernità pensa di recuperare la vita distruggendo l’immutabilità e abbandonandosi ad un divenire incessante.
Filosofi come Karl Jaspers, Jean-Paul Sartre, Hannah Arendt, Michel Foucault, Jacques Derrida e naturalmente Hans-Georg Gadamer  si sono confrontati in profondità con il pensiero di Heidegger e ne sono stati profondamente influenzati.

Karl Theodor Jaspers  (Oldenburg,  1883 Basilea,  1969) è stato un filosofo e psichiatra tedesco. Ha dato un notevole impulso alle riflessioni nel campo della psichiatria, della filosofia, ma anche della teologia e della politica.

Jean-Paul- Sartre Parigi, 15 aprile 1980) un filosofo, scrittore, drammaturgo, critico letterario e attivista francese, considerato uno dei più importanti rappresentanti dell'esistenzialismo, che in lui prende la forma di un umanismo ateo in cui ogni individuo è radicalmente libero e responsabile delle sue scelte, ma in una prospettiva soggettivista e relativista. In seguito Sartre diverrà un sostenitore dell'ideologia marxista e del conseguente materialismo storico.

Hannah Arendt (Hannover, 1906  New York,  1975) è stata filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense. La Arendt difese il concetto di «pluralismo» in ambito politico. Grazie al pluralismo, il potenziale per la libertà politica e l'uguaglianza tra le persone si sviluppano. Come risultato dei suoi assunti, la Arendt si trovò contro la democrazia rappresentativa, che criticò fortemente, preferendole un sistema basato sui consigli o forme di democrazia diretta. la Arendt fu studentessa di filosofia di Martin Heidegger . Ebbe una relazione sentimentale segreta con quest'ultimo, scoprendone tardi i suoi rapporti col nazismo, da cui si dissociò, non riuscendo tuttavia mai del tutto a cancellare l'amore e la devozione verso il suo primo maestro. Dopo aver chiuso questa relazione, Hannah Arendt si trasferì a Heidelberg dove si laureò con una tesi sul concetto di amore in Sant'Agostino, sotto la tutela del filosofo (e psichiatra) Karl Jaspers.

Paul-Michel Foucault (Poitiers, 1926  Parigi, 1984) è stato un filosofo, sociologo, storico, accademico e saggista francese. I lavori di Foucault si concentrano su un argomento simile a quello della burocrazia e della connessa razionalizzazione trattato da Max Weber. Egli studiò lo sviluppo delle prigioni, degli ospedali, delle scuole e di altre grandi organizzazioni sociali, dove il sapere è usato per controllare la società. Importanti sono anche gli studi di Foucault sulla sessualità, che egli crede non sia sempre esistita così come la conosciamo oggi e così come soprattutto ne discutiamo. La sodomia era un atto vietato perché contro natura, oggi non è più considerato contro natura (essendo lui stesso omosessuale) e quindi non più perseguibile, ma addirittura protetto. Anche questo è stato un controllo del passato sulla famiglia che ora è passato di mano dalla religione alle nuove “conoscenze” della scienza (?).

Jacques Derrida (Algeri, 15 luglio 1930  Parigi, 9 ottobre 2004), è stato un filosofo francese. È stato fino alla morte direttore di ricerca presso l'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Influenzato dalla fenomenologia di Edmund Husserl e dall'ontologia fondamentale di Martin Heidegger, il suo pensiero si concentrò inizialmente sui problemi epistemologici della filosofia francese degli anni Sessanta, riguardanti lo statuto delle scienze umane, il contributo della psicoanalisi e della linguistica e il superamento dell'umanesimo. In seguito, a partire dagli anni Ottanta e Novanta, l'interrogazione di Derrida si rivolse a temi di carattere etico e politico, fra cui il cosmopolitismo, la natura della democrazia, i diritti umani e animali, l'idea di Europa e la crisi della sovranità. I suoi interventi lo resero una delle voci pubbliche più note nel panorama intellettuale europeo, più volte indicato come possibile vincitore del Premio Nobel per la Letteratura. Nel 2003 viene insignito della laurea honoris causa a Gerusalemme.

L’ermeneutica della continuità

C’è un tratto d’unione tra Gadamer e Benedetto XVI. Questo perché Benedetto XVI, nel suo famoso discorso del 22 dicembre 2005 in occasione degli auguri di Natale, nel suo primo discorso alla Curia Romana e per la celebrazione della conclusione  del Concilio Vaticano II di quarant’anni prima, parlò proprio di ermeneutica, di interpretazione. Ma a proposito di che cosa? Riportiamo un passo di questo discorso che gli è costato l’odio di molti nel mondo cattolico e che non gli è mai stato perdonato. La Verità scotta e il diavolo, il grande divisore, si infila dappertutto.

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI (1)

alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizie e della celebrazione della conclusione  del Concilio Vaticano II di quarant’anni fa (Giovedì, 22 dicembre 2005)

[…] L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, […]. Emerge la domanda: Perché? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna [di fatto della quasi totalità dei teologi].
Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare […]. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti nulla occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.
All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865). È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio […]. (continua in Appendice)
Benedetto XVI aveva cioè osato dire ciò che era ritenuto indicibile, e cioè che nel Concilio vaticano II c’è stata una frattura con la tradizione, una rottura con la verità cattolica a seguito di una interpretazione, di una ermeneutica, sbagliata del Concilio. Il Concilio, ribadiva Benedetto XVI, era stato visto da molti, in particolare dalla totalità dei Teologi che si rifacevano ad Heidegger (Tutto diviene – Essere e tempo) una vera e propria frattura fra pre-Concilio e post-Concilio. Un ricominciare daccapo, abbandonando totalmente il “prima”. Visto così dava da pensare di essere giunti all’anno “zero” della Chiesa. Questo ha di fatto creato una crisi profonda  nella Chiesa (e non solo nella Chiesa) e vediamo ora di capire meglio cosa è successo. Ci facciamo aiutare da un autore, uno dei pochi che non hanno seguito l’onda modernista e per questo sconosciuto e ostracizzato perché fedele alla verità: Romano Amerio.

Romano Amerio (1905 – 1987)

Romano Amerio, grande filosofo e teologo svizzero che risultava ormai introvabile in libreria, in particolare con i suoi due capolavori  "Iota unum" e “Stat Veritas” Ed. Landau. Iota unum ha come sottotitolo: Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX. Romano Amerio, ultimo grande tomista che in epoca moderna riprende il pensiero di san Tommaso, il filosofo dell’essere, non del soggetto, ma della verità dell’essere, fa questo studio in cui passa in rassegna tutte le variazioni che sono state attuate, silenziosamente e quasi inavvertite, nella Chiesa cattolica. Variazioni dottrinali che nella prospettiva cattolica sono da considerarsi una follia totale. Variazioni sulla pena di morte, sulla liturgia, sull’aborto, sul divorzio, sul dialogo ecc. Un tempo si pensava in un modo ora si pensa in un altro, presumibilmente a causa di una errata interpretazione del Concilio vaticano II.

Il Mobilismo

Partiamo da un primo concetto illustrato al capitolo XVII: il Mobilismo. Se c’era un baluardo inattaccabile contro le idee della modernità, contro l’abbattimento degli immutabili, questo era la Chiesa Cattolica. Misteriosamente la Chiesa Cattolica, grazie ad una larga parte dei suoi teologi ed anche di alcuni pastori, ha assorbito alcune idee della modernità, quelle che di fatto hanno frantumato tutto ciò che è immutabile. L’immutabile non esiste, tutto è mobile, tutto deve divenire (Hegel).
Il Mobilismo. Quello che nell’ordine logico è lo scetticismo, nell’ordine metafisico, cioè dell’essere vero, è il mobilismo. Lo scetticismo (o pirronismo da Pirrone - Elide, 365 a.C. circa – 275 a.C. circa) ci dice che non abbiamo un criterio per discernere la verità, e quindi introduce  il “discussionismo” (discutiamo di tutto), questo è il mobilismo. Ora il mobilismo (il contrario dell’assoluto, dell’immutabile) è diventato un carattere della Chiesa post conciliare, nella quale “tutto è messo in discussione e in movimento” e non c’è nessuna parte del sistema cattolico che non sia in fase di mutazione. Nessuna ragione per smettere di rivedere ogni cosa, tutto deve cambiare, tutto deve di nuovo essere discusso e interpretarsi con le categorie della discontinuità.

Il circolo ermeneutico

Quando parlavamo di Heidegger lo avevamo chiamato “il grande cattivo maestro” è lui di fatto il fondatore dell’ermeneutica, cioè del circolo infinito di interpretazioni, egli è il filosofo di riferimento di tutti i maggiori teologi del novecento (meglio, della stragrande maggioranza di loro). Si parla della mobilità del dogma, del divenire del dogma. Infatti il dogma è il vero nemico della filosofia del ‘900, perché vuole definire una verità che secondo il modernismo non c’è, non solo, ma nuoce alla vita dell’uomo. Per questo ogni dogma va rivisto, interpretato e considerato secondo le categorie dell’uomo di oggi. Per esempio, il dogma della transustanziazione che avviene durante la consacrazione dell’ostia, e che il Concilio di Trento aveva definito linguisticamente come la trasformazione della sostanza del pane nella nuova sostanza
del corpo di Cristo, lo si vuole reinterpretare. Dopo 500 anni dal concilio di Trento l’uomo è un altro uomo, un altro soggetto quindi possibile di un’altra interpretazione, tutto deve cambiare.
Come appare dalla storia della filosofia il mobilismo è la mentalità che stima il divenire sopra l’essere, che dà più importanza al divenire che non all’essere. Anche qui c’è dietro un altro cattivo maestro: Nietzsche. Dio, l’immutabile, deve morire perché l’uomo possa vivere e riconsegnarsi a questo divenire incessante, che è il divenire dell’essere, ma è anche il divenire delle interpretazioni. Viene stimato il moto sopra la quiete, l’azione sopra il fine. L’importante è agire, muoversi, non è importante avere uno scopo o un fine immutabile che possa dare un senso pieno all’agire (come da uno studio serio dell’antropologia umana si dovrebbe trarre). Questo è il contrassegno del pensiero moderno: vivere senza senso, ma vivere.
Eraclito di Efeso (panta rei – tutto scorre) insegnò che la realtà è scorrimento, ma lo scorrimento è retto da una inviolabile legge che è il logo. I filosofi “svegli” sanno vedere una unità di fondo nel divenire. È vero che tutto scorre, ma il saggio sa che c’è una ragione al fondo di tutto: il fuoco come metafora del logo, sempre mutevole ma uno, cioè una unità.
Tutto muta, tutto deve mutare, non c’è nulla di immutabile. Il mobilismo che la Chiesa eroicamente combatteva, perché Dio è l’immutabile, ora in questa stessa Chiesa Amerio denuncia che il mobilismo è accolto, è sposato, è propagato (per la gioia dei mass media, dei buonisti e degli innacquatori  della fede cristiana [Ndr]). Tutta la filosofia cristiana concepì il divenire come un accidente delle sostanze finite, mentre solo Dio è indivenibile.

San Tommaso d’Acquino e “l’analogia dell’essere”

Noi diciamo l’essere di noi e di Dio, ma lo diciamo per analogia, per somiglianza, perché non c’è una univocità dell’essere. Dio è l’immutabile, Dio è l’essere, in Lui esistenza ed essenza sono la stessa cosa. La creatura riceve l’essere da Dio e quindi ha un essere derivato, ha un essere mutevole. Sì io esisto, posso dire che io sono, così come Dio è, ma lo dico per assomiglianza, per analogia, non per identità.
La sistemazione teoretica, dice Amerio, più compita del mobilismo è la filosofia di Hegel: l’esistente è il diveniente infinitamente volubile nel tempo e il divenire si comunica a Dio (nella mia filosofia tutto consiste nel concepire l’assoluto non come una sostanza – substanzia – ma come un soggetto che diviene) togliendogli gli attributi dell’immutabilità e della atemporalità assoluta.

Il mobilismo nell’escatologia

Amerio denuncia anche che il mobilismo è entrato pure nell’escatologia, cioè in tutta quella dimensione che va nell’al di là, che riguarda le cose ultime. Cosa diciamo oggi? “anche nell’al di là, l’uomo diverrà”. Ma è logico se Dio stesso è diveniente anche nella visione beatifica non ci sarà più staticità. Qual è oggi la preghiera più “incomprensibile” per l’uomo moderno schiacciato non da due millenni di menzogne, ma da 500 anni di follia moderna? “L’eterno riposo”. Si fa fatica a dirlo, perché dà l’idea di qualcosa che non cambierà più per l’eternità, cioè di veramente finito, mentre abbiamo bisogno di pensare che anche nell’al di là avremo bisogno di conoscere, di divenire in un regno di Dio sempre in trasformazione, in una visione di Dio sempre diveniente. Quindi siamo riusciti a immettere la mobilità financo nell’escatologia e anche dopo morti non ci lasceranno in pace.


L’ecumenismo

Altro argomento sul quale indaga Amerio è l’ecumenismo. In questo concetto dell’unione di tutti i cristiani in un’unica Chiesa, non si parla più come del rientro dei separati, degli eretici, dei scismatici, ecc., ma come una sorta di proposta di convergere insieme (senza pestarci i piedi) in una super Chiesa più alta, l’O.N.U. delle religioni.
A partire dal Concilio Vaticano II viene ammessa la presenza di elementi di santificazione e di verità anche nelle altre Chiese cristiane separate da essa con le quali ritiene di dover perseguire un'azione ecumenica e il riconoscimento dei valori spirituali presenti nelle altre religioni essi stessi frutto dello Spirito Santo. La variazione nel concetto di ecumenismo descritta da Amerio si rifà alla “instruzio” del 1949, prima cioè del Concilio. Dice Amerio, questa variazione sull’ecumenismo è senza dubbio la più significativa che si sia introdotta nel sistema cattolico dopo il Concilio Vaticano II (a causa di una cattiva interpretazione). Vi si trovano uniti tutti i motivi della tentata variazione di fondo che siamo soliti stringere nella formula di perdita delle essenze. La dottrina tradizionale cattolica sull’ecumenismo è stabilita nella Istruzione “Ecclesia Catholica”, sul movimento ecumenico, emanata dal Sant’Uffizio il 20 dicembre 1949, regnante Pio XII. Questa istruzione riprende gli insegnamenti di Pio XI nella sua lettera enciclica Mortalium Animos sulla difesa della verità rivelata da Gesù e che condanna l’ecumenismo (cosa oggi improponibile nella maggior parte degli ambienti cattolici). In quella istruzione si stabilisce che
1.     La Chiesa Cattolica possiede la pienezza del Cristo. Non ha bisogno del contributo di “altri” (un eventuale dialogo o confronto con altri non ci arricchisce, ma arricchisce semmai l’altro e diventa un atto di carità per chi cerca davvero la verità). La Chiesa Cattolica non deve perfezionarsi ad opera delle altre confessioni. Non ne ha bisogno. Cristo ha perfezionato definitivamente tutto quanto era da perfezionare e lancia i suoi apostoli e i suoi discepoli a trasmettere la buona novella a tutti i popoli.
2.     Non si deve perseguire l’unione per via di una progressiva assimilazione delle varie confessioni di fede, né mediante una accomodazione del dogma cattolico ad altro. (Es.: vi da fastidio che Gesù Cristo ha fondato una unica Chiesa con un solo Papa? Troviamo un compromesso! Vi dà fastidio che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio - preoccupazione degli ortodossi -, accomodiamo la faccenda fra addetti ai lavori e non parliamone più, sacrifichiamo la verità ma almeno così possiamo stare insieme.)
3.     L’unica vera unione delle Chiese può farsi soltanto con il ritorno dei fratelli separati alla vera Chiesa di Dio. L’ecumenismo non è mettiamoci insieme, parliamone, dibattiamo e troviamo un punto comune (come in una riunione di marketing dove dobbiamo decidere come conquistare un mercato difficile). L’ecumenismo è tornare alla verità dalla quale ci si è staccati (per orgoglio, per interessi politici, per ignoranza, per dabbenaggine, per odio nei confronti del papa, ecc.). Recuperare la verità sulle ragioni della separazione e ricongiungerci sullo stesso Vangelo, sulla stessa tradizione e sul patrimonio del magistero dell’unica vera Chiesa fondata da Cristo: la Chiesa Cattolica.
4.     I separati che si ricongiungono alla chiesa Cattolica non perdono nulla di sostanziale di quanto appartiene alle loro particolari professioni di fede, ma anzi la ritrovano identica in una dimensione e approfondimento più alto, completo e perfetto. Se da protestante ti fai cattolico non perdi nulla, anzi guadagni e basta. Per esempio guadagni la grazia dei sacramenti che non hai mai ricevuti. Recuperi l’Eucarestia che è la presenza concreta di Dio con noi (Io sarò con voi fino alla fine dei tempi).
5.     Nel decreto del Concilio sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio di Paolo VI (21 novembre 1964.) l’Istruzione sull’ecumenismo del 1949 non è citata mai e nemmeno la parola “ritorno dei separati”. Al suo posto si parla di “conversione”. Le confessioni cristiane, compresa la cattolica, non debbono volgersi l’una all’altra, ma tutte insieme gravitare verso il Cristo totale che comunque si trova al di fuori di esse e verso il quale debbono convergere tutti. Tutti dobbiamo convertirci, perché Cristo è al di là, mica lo possiede la Chiesa Cattolica in esclusiva (ennesima variazione dottrinale). Veramente nel discorso inaugurale del secondo periodo di Paolo VI, lui ripropose la chiara dottrina tradizionale, ma poi il Concilio ha preso un’altra piega. Nonostante le dichiarazioni papali nel decreto Unitatis Redintegratio, il Concilio respinge, non solo il termine di “eretici protestanti”, ma anche il termine di “fratelli separati” e professa la tesi della conversione di tutti i cristiani. L’unità non deve farsi per ritorno dei “separati” (altro termine cancellato) alla Chiesa Cattolica, bensì per conversione di tutti e di tutte le Chiese nel Cristo totale. Il Cristo totale non sussiste in alcuna di esse, ma va reintegrato mediante la convergenza di tutti in una sola Chiesa (quale?). Questo non è ecumenismo, questa non è la dottrina cattolica (ma un romanesco “volemose bene” ed ognuno scelga la strada che gli è più comoda, non roviniamoci i rapporti nell’ostinarci a cercare una unica verità, ognuno ha la sua, l’importante è che a poco a poco convergiamo in qualcosa di comune che chiamiamo Cristo totale. Meglio uniti a braccetto che fissati su dogmi o dottrine rigide che ci fanno litigare). Questa non è la dottrina cattolica. San Paolo ci dice che anche un angelo dal cielo, se dicesse qualcosa di diverso da quello che io vi ho testimoniato, allontanatelo. Questo lo può dire anche un Priore o un Vescovo od un Cardinale, ma se quello che dice non è cattolico, non è cattolico, cioè non è dottrina cattolica, non è oggetto di fede.
6.     Dove gli schemi preparatori del Concilio definivano che la Chiesa di Cristo è la Chiesa Cattolica, il Concilio concede soltanto che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica. Cioè che può sussistere (democraticamente) anche in altre. Non a caso infatti 10 anni fa Benedetto XVI ha dovuto fare un documento in cui ribadiva che questo famoso sussiste era stato interpretato male, era visto più come una occasione di discontinuità, piuttosto che di continuità con la tradizione come doveva essere. La Chiesa di Cristo è la Chiesa Cattolica, non altre. Se c’è una frase del Concilio che potrebbe essere equivoca, questa va confrontata con la tradizione, con la verità di sempre, non con Hegel o Heidegger  o Nietzsche. Non può essere una cosa nuova, una definizione o interpretazione nuova.
7.     Il termine “reversione dei separati”, abbandonato e sostituito con quello di “conversione di tutti” è un problema di nuova interpretazione ed un problema al contempo di linguaggio.

La Neolingua

A proposito di linguaggio vale la pena di riscoprire il romanzo di George Orwell “1984”(scritto nel 1948). Egli immagina una società che è sotto una delle più terribili dittature, perché è una dittatura che va a manipolare i pensieri. In nessuna dittatura, nemmeno in quella nazista e in quella sovietica si era, per fortuna, giunti a tanto. Nessuno in queste pur terribili dittature poteva essere condannato per ciò che pensava, ma non diceva, invece in questa si veniva condannati e torturati per quello che si pensava anche se non lo si estraniava ad altri. Orwell, immagina questa nostra stessa società che è la vera società dittatoriale in cui la dittatura è entrata nel pensiero, introducendo lo “psicoreato”, cioè il reato di pensiero con la “neolingua”. Che cos’è la neolingua? La neolingua era lo strumento inventato dal capo indiscusso del regime che è il Grande Fratello, il cui volto invade tutti i teleschermi ed entra nelle case attraverso telecamere nascoste, in modo da controllare capillarmente la popolazione e i manifesti della propaganda. Questo strumento impedisce di pensare. Cambiando il linguaggio si cambia il pensiero. Se io Grande Fratello cambio o tolgo le parole che esprimono concetti che io non voglio che tu abbia. Io allora ti impedisco di pensare a modo tuo e ti obbligo a pensare a modo mio. Leggiamo un paragrafo di questo romanzo e scopriamo come questa neolingua è usata ai giorni nostri senza che ce ne accorgiamo. Ci sono nel romanzo due personaggi, uno è Winston Smith che è il protagonista del romanzo. Nel libro, Winston è un impiegato del Ministero della Verità, un'organizzazione preposta alla riscrittura dell'intera storia (compresa quella appena passata), per meglio adattarsi alle "verità" divulgate dal Grande Fratello. Il compito di Winston è dunque quello di riscrivere i documenti storici, censurando qualunque informazione gli venga passata dai superiori (libri e giornali) che non rispecchi la linea imposta dal regime, che varia su base giornaliera. L’altro è Syme è un altro impiegato del Ministero della Verità, che collabora alla redazione dell'Undicesima Edizione del Dizionario di Neolingua. Talvolta si incontra con Winston alla mensa ministeriale, dove lui gli espone le linee essenziali del suo lavoro.
Winston comunque sente che c’è qualcosa che non va. I due vanno a pranzo insieme e: “come va il dizionario” dice Winston, alzando la voce per superare il rumore della sala. “procede lentamente” dice Syme, “adesso sono agli aggettivi, è un argomento affascinante”. Sentendo domande sulla neolingua, il volto di Syme si era illuminato all’istante. Spinse da parte la gavetta, prese un pezzo di pane e riprese “l’undicesimo dizionario è quella definitivo, stiamo dando alla lingua la sua forma finale, quella che avrà quando sarà l’unica ad essere usata, sarà usata solo la neolingua. Quando avremo finito, la gente come te Winston, dovrà impararla da capo. Tu credi, immagino, che il nostro compito principale consista nell’inventare nuove parole. Neanche per idea, noi le parole le distruggiamo a dozzine a centinaia, giorno per giorno, stiamo riducendo il linguaggio all’osso. L’undicesima edizione conterrà solo parole che non diventeranno obsolete prima del 2050. È qualcosa di bello la distruzione delle parole. Naturalmente c’è una strage di verbi e di aggettivi, ma non mancano centinaia e centinaia di nomi di cui si può fare tranquillamente a meno. Non mi riferisco solo ai sinonimi, sto parlando anche dei contrari. Che bisogno c’è di una parola che è solo l’opposto di un’altra, ogni parola contiene già in se stessa il suo opposto. Prendiamo la parola “buono” per esempio. Se hai a disposizione una parola come “buono”, che bisogno c’è di avere anche la parola “cattivo”, “sbuono” andrà altrettanto bene, anzi meglio, perchè a differenza dell’altra costituisce l’opposto esatto di buono. Ancora se desideri un’accezione più forte di buono, che senso hanno tutte quella varianti vaghe e inutili come eccellente, splendido e via dicendo: “plusbuono” sarà più che sufficiente e rende perfettamente il senso e così “arciplusbuono”. Non capisci che lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera di azione del pensiero. Una lingua creata per ridurre al minimo la sfera d’azione del pensiero. Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere. Ogni concetto di cui si possa aver bisogno sarà espresso da una sola parola”.
Quello descritto nel romanzo oggi sta accadendo sul serio. La neolingua è qualcosa che ruota solo intorno ad un ruolo semantico positivo. “Sbuono” al posto di cattivo elimina la parte negativa e mantiene psicologicamente la parte positiva, buono rimane nella parola “sbuono”, la parola cattivo sparisce e rimane comunque l’idea della bontà.
Passiamo a quello che riguarda le variazioni dei vocaboli nella nostra storia del pensiero occidentale. Nell’archelingua, cioè la nostra vecchia lingua, la parola “eretico” era usata per esempio per indicare un eretico protestante. Abbiamo forse sentito qualche volta questa parola in bocca ai nostri preti? Mai più, ora non è più un eretico, nel senso tradizionale, cioè che ha abbracciato una eresia condannata dalla Chiesa, ma un “fratello separato”, che lascia intendere che di fatto non è un eretico, ma un fratello solo temporaneamente separato dalla Chiesa Cattolica. “Infedele” pure, caso mai sentiamo parlare di un “fratello islamico” e con questo eliminiamo tutto ciò che rappresenta l’Islam, una religione che rifiuta il Vangelo, che ha un Dio che non è padre e non è amore, ma che sottomette gli uomini (Islàm = Sottomissione) e incita alla conquista del mondo anche con la violenza. Sentiamo forse parlare di “peccato mortale” o di Inferno o del diavolo nelle omelie dei nostri parroci? (eppure sono continuamente citati nel Vangelo). Per non parlare poi di parole come cieco o storpio o spastico o negro o moro, che sono praticamente proibite e sostituite d’ufficio in “non vedente”, “diversamente abile”, “uomo di colore”, ecc. quindi l’eresia è cancellata e rimane la fratellanza, non c’è più il malato o il sofferente, ma colui che ha abilità diverse da quelle normali, rimane solo la parte positiva, il male non esiste.
Se io uso solo il polo semantico positivo non esiste più la separazione che fa il linguaggio sull’essere distinguendo nettamente il positivo, dal negativo. Elimino tutto ciò che può richiamare il negativo e rimane solo tutto ciò che richiama il positivo o meglio ciò che il “grande fratello” vuole (cioè il potere o il gruppo di potere vuole). Il pensiero  e la ragione hanno ambiti sempre più ristretti e obbligati. Rimaniamo così disarmati, non più in stato di attenzione, nei confronti dell’aspetto negativo contenuto nelle parole che ci allertano sul male, cioè che rappresentano i sintomi del male. Il male è cancellato. Per esempio, se l’eretico, colui che potrebbe con le sue idee minare la mia fede e condannarmi all’inferno, io lo chiamo mio “fratello separato”, io lo sento come fratello e non come chi vuol dannarmi l’anima e non mi metto in guardia, ma abbasso le mie difese.
Ma noi stessi parlavamo ancora con l’archelingua solo fino a 70 anni fa. Prendiamo per esempio il Catechismo di San Pio X a domande e risposte.
Domanda: chi è fuori dalla comunione dei santi? (cioè della Chiesa)
Risposta: è fuori dalla comunione dei santi chi è fuori dalla Chiesa, ossia i dannati, gli infedeli, gli ebrei, gli eretici, gli apostati, gli scismatici, gli scomunicati.
Domanda: chi sono gli infedeli?
Risposta: gli infedeli sono i non battezzati che non credono in alcun modo nel Salvatore promesso, cioè nel Messia o Cristo, come gli idolatri e i maomettani.
70 anni fa si parlava così. Oggi non più perché sono state tolte le parole che potevano creare uno psicoreato. Oggi invece c’è l’ecumenismo.
Continuiamo
Domanda: chi sono gli ebrei?
Risposta: gli ebrei sono i non battezzati che professano la legge di Mosè e non credono che Gesù sia il Messia, il Cristo promesso.
Domanda: chi sono gli eretici?
Risposta: gli eretici sono i battezzati che si ostinano a non credere a qualche verità rivelata da Dio e insegnata dalla Chiesa, per esempio i protestanti.
Se 70 anni fa si parlava così, e oggi no, è certamente accaduto qualcosa. Cosa è accaduto? Certamente una cosa anche positiva. Si possono riformulare alcune verità in un modo più vicino alla sensibilità di oggi, cosa che Giovanni XXIII ha ben ribadito, si può ridire la verità di sempre in un modo nuovo. Quindi la verità di sempre in un modo nuovo, non una interpretazione diversa dove l’eretico (da cui si dovrebbe fuggire per non perdere l’anima), diventa il fratello che ha un’idea diversa dalla mia e quindi una idea che può essere anche accettata. Non è più allora un semplice cambio di parole, ma si vanno a toccare i contenuti, a cambiare la realtà. (Vedi anche  di Pier Giorgio Liverani “Dizionario dell’Antilingua” Le parole dette per non dire quello che si ha paura di dire – Ed. Ares Milano).

la festa di Halloween

Qualcuno ci ha mai spiegato che la festa di Halloween (31 ottobre), che ha assunto  negli Stati Uniti forme accentuatamente macabre e commerciali è in realtà una festa di venerazione del demonio e che vuole farci dimenticare la morte dell’anima nei dannati  e che è alimentata dalle sette demoniache? E che noi seguiamo pedestremente senza preoccuparci di attrezzare i nostri figli a difendersi da ogni manipolazione consumistica e ideologica? Ce lo facciamo spiegare da padre Gabriele Amort, noto esorcista non sempre gradito perché parla fuori dai denti, cioè con l’archelingua : ''Penso che la società italiana stia perdendo il senno, il senso della vita, l'uso della ragione e sia sempre più malata. Festeggiare la festa di Halloween è rendere un osanna al diavolo. Il quale, se adorato, anche soltanto per una notte, pensa di vantare dei diritti sulla persona. Allora non meravigliamoci se il mondo sembra andare a catafascio e se gli studi di psicologi e psichiatri pullulano di bambini insonni, vandali, agitati, e di ragazzi ossessionati e depressi, potenziali suicidi''. ''Mi dispiace moltissimo che l'Italia, come il resto d'Europa, si stia allontanando da Gesù il Signore e, addirittura, si metta a omaggiare satana'', ''la festa di Halloween è una sorta di seduta spiritica presentata sotto forma di gioco. L'astuzia del demonio sta proprio qui. Se ci fate caso tutto viene presentato sotto forma ludica, innocente. Anche il peccato non è più peccato al mondo d'oggi. Ma tutto viene camuffato sotto forma di esigenza, libertà o piacere personale. L'uomo è diventato il dio di se stesso, esattamente ciò che vuole il demonio'' (Tratto da http://medjugorje.altervista.org/ )
Della parola “festa di Halloween” rimane la parola “festa”, l’immagine della morte e del teschio diventa una simpatica zucca. I bambini vengono mascherati da allegri diavoletti o buffe streghe esorcizzando così, la morte, il demonio e il male che essi rappresentano, tutto in un clima di festa, “satanica” però.

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI (2)

alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizie e della celebrazione della conclusione  del Concilio Vaticano II di quarant’anni fa (Giovedì, 22 dicembre 2005)
 (continua)
Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra (ibid., pp. 1066 s.). La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la sola ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello Stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’“ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna. Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che come tali lavorano con un metodo limitato all'aspetto fenomenico della realtà, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare. Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande che ora, durante il Vaticano II, attendevano una risposta. Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato. In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.
Sono tutti temi di grande portata su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento. Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.
Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8). Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’“apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un "segno di contraddizione" (Lc 2,34) – non senza motivo Papa Giovanni Paolo II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli Esercizi Spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme. La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo. La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento. Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.

La Dottrina Cattolica sull'Ecumenismo

«Vi è attualmente una curiosa contraffazione dell'apostolato; contraffazione che consiste nel fare come gli altri, nel pensare come gli altri, nel vivere come gli altri, allo scopo di stabilire un dialogo più fruttuoso; un tale metodo, molto evidentemente, non converte gli altri alla nostra fede, ma ci converte alla loro incredulità. Noi dobbiamo gettare un ponte tra Cristo e il mondo non per attraversarlo noi, ma per aiutare gli altri a raggiungerlo. Non è abbandonando il Vangelo che si convertono gli uomini a Cristo.» (Ivan Gobry “Amour coniugal et fecondité”).

“Ut unum sint”, enciclica sull’impegno ecumenico

di San Giovanni Paolo II,  25 maggio 1995

Ut unum sint! L'appello all'unità dei cristiani, che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha riproposto con così appassionato impegno, risuona con sempre maggiore vigore nel cuore dei credenti”.
Piena unità ed evangelizzazione

[…] 98. Il movimento ecumenico del nostro secolo, più delle imprese ecumeniche dei secoli scorsi, di cui tuttavia non va sottovalutata l'importanza, è stato contraddistinto da una prospettiva missionaria. Nel versetto giovanneo che serve da ispirazione e da motivo conduttore - "siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17,21) - è stato sottolineato perché il mondo creda con tanto vigore da correre il rischio di dimenticare a volte che, nel pensiero dell'evangelista, l'unità è, soprattutto, per la gloria del Padre. È evidente, comunque, che la divisione dei cristiani è in contraddizione con la Verità che essi hanno la missione di diffondere, e dunque essa ferisce gravemente la loro testimonianza. L'aveva ben compreso ed affermato il mio Predecessore, Papa Paolo VI, nella sua Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi: "In quanto evangelizzatori, noi dobbiamo offrire ai fedeli di Cristo l'immagine non di uomini divisi da litigi che non edificano affatto, ma di persone mature nella fede, capaci di ritrovarsi insieme al di sopra delle tensioni concrete, grazie alla ricerca comune, sincera e disinteressata della verità. Sì, la sorte dell'evangelizzazione è certamente legata alla testimonianza di unità della Chiesa [...]. A questo punto vogliamo sottolineare il segno dell'unità tra tutti i cristiani come via e strumento di evangelizzazione. La divisione dei cristiani è un grave stato di fatto che perviene ad intaccare la stessa opera di Cristo".
Come, infatti, annunciare il Vangelo della riconciliazione, senza al contempo impegnarsi ad operare per la riconciliazione dei cristiani? Se è vero che la Chiesa, per impulso dello Spirito Santo e con la promessa dell'indefettibilità, ha predicato e predica il Vangelo a tutte le nazioni, è anche vero che essa deve affrontare le difficoltà derivanti dalle divisioni. Messi di fronte a missionari in disaccordo fra loro, sebbene essi si richiamino tutti a Cristo, sapranno gli increduli accogliere il vero messaggio? Non penseranno che il Vangelo sia fattore di divisione, anche se esso è presentato come la legge fondamentale della carità? 
99. Quando affermo che per me, Vescovo di Roma, l'impegno ecumenico è "una delle priorità pastorali" del mio pontificato, il mio pensiero va al grave ostacolo che la divisione costituisce per l'annuncio del Vangelo. Una Comunità cristiana che crede a Cristo e desidera, con l'ardore del Vangelo, la salvezza dell'umanità, in nessun modo può chiudersi all'appello dello Spirito che orienta tutti i cristiani verso l'unità piena e visibile. Si tratta di uno degli imperativi della carità che va accolto senza compromessi. L'ecumenismo non è soltanto una questione interna delle Comunità cristiane. Esso riguarda l'amore che Dio destina in Gesù Cristo all'insieme dell'umanità, e ostacolare questo amore è una offesa a Lui e al suo disegno di radunare tutti in Cristo. Papa Paolo VI scriveva al Patriarca ecumenico Athenagoras I: "Possa lo Spirito Santo guidarci sulla via della riconciliazione, affinché l'unità delle nostre Chiese diventi un segno sempre più luminoso di speranza e di conforto per l'umanità tutta".
 […] San Cipriano: « Dio non accoglie il sacrificio di chi è in discordia, anzi comanda di ritornare indietro dall'altare e di riconciliarsi prima col fratello. Solo così le nostre preghiere saranno ispirate alla pace e Dio le gradirà. Il sacrificio più grande da offrire a Dio è la nostra pace e la fraterna concordia, è il popolo radunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ».

Le apparizioni della Madonna

Non possiamo non concludere questo corso senza un particolare riferimento alla Madonna, corredentrice con Cristo, la cui vera devozione è presente nella sola religione cattolica, e che si preoccupa dei suoi figli attraverso le sue numerose apparizioni. “Nessuna apparizione è indispensabile alla fede. La rivelazione è terminata con Gesù Cristo. Egli stesso è la Rivelazione. Ma non possiamo impedire a Dio di parlarci anche attraverso sua Madre (e nostra Madre) con segni straordinari e persone semplicissime che denunciano la debolezza delle culture che ci dominano, marchiate di razionalismo e di positivismo. Le apparizioni, principalmente quelle di Lourdes e di Fatima, hanno un loro posto preciso nella Chiesa dell’ultimo secolo. Mostrano che la rivelazione, unica, conclusa e dunque non superabile, non è cosa morta, è viva e vitale. Infatti da Fatima è stato lanciato un segnale severo, che va contro la faciloneria imperante, un richiamo alla serietà della vita e della storia, ai pericoli che incombono sull’umanità. Gesù stesso non ha temuto di dire: Se non vi convertirete, morirete tutti (Lc 13, 3). La conversione è una esigenza perenne della vita cristiana e le apparizioni di Maria ce lo ricordano continuamente e con insistenza riconfermando l’urgenza di penitenza, di preghiera e di conversione”.
(tratto da: J. Ratzinger “Rapporto sulla fede” ed. San Paolo, 2005)

Parlare di preghiera, penitenza e conversione in questo contesto sociale, è molto arduo e difficoltoso, perché l'uomo, come dice la Madonna di Medjugorje, sta creando "un mondo nuovo senza Dio" un mondo senza futuro, gioia e pace, senza vita eterna. L'uomo è tutto proteso a raggiungere fini materialistici, molto concreti, per soddisfare i propri sensi e le proprie ambiziosi (il peccato originale). Egli non riconosce più l'esistenza di Dio nella storia e nella propria vita, si ritiene signore del bene e del male è Dio lui stesso. I risultati sono evidenti: ideologie criminali, ingiustizie sociali, corruzione, sopraffazioni, madri che sopprimono i propri figli, migrazioni di massa, distruzione della famiglia, guerre civili (fratricidi), vendette, terrorismo, violente crisi economiche, ecc.


Le troviamo nelle trecentocinquanta pagine di “Una storia della Chiesa” di Angela Pellicciari. Poche, ma sufficienti però per tracciare una sintesi articolata delle caratteristiche della Chiesa attraverso i secoli. Questo libro parla di fatti, documenti, storie, profezie, peccati e santità, che permettono di distinguere il vero dal falso, la propaganda anticattolica dall'effettiva realtà ecclesiale. Che raccontano la gloria della vita dei martiri e dei santi accanto alle concrete difficoltà, ambiguità e compromessi dei rapporti dei pontefici col potere temporale. L'autrice sceglie, fra i tantissimi, quegli avvenimenti che possono aiutare a comprendere i principali nodi, sfide e difficoltà che la Chiesa si è trovata ad affrontare nel corso del tempo. (Angela Pellicciari “Una storia della Chiesa ed. Cantagalli, 2015)

Benedetto XVI & la Ragione

Decisivo per conoscere e capire il momento attuale del pensiero occidentale è il magistero di Benedetto XVI, in particolare quanto da lui evidenziato a riguardo della grande tematica della Ragione. Le sue parole a Ratisbona, il discorso “bloccato” all’Università La Sapienza a Roma (Università nata nel 1303 per volontà di papa Bonifacio  VIII  con bolla pontificia “In Supremae praeminentia Dignitatis”), l’incontro con il mondo della cultura a Parigi, il discorso al Reichstag in Germania, le sue encicliche, le sue catechesi e le sue udienze, sono sicuramente un contributo decisivo per la soluzione della grave crisi che ha investito l’uomo contemporaneo. È necessario, infatti, recuperare “il coraggio di aprirsi all’ampiezza piena della Ragione” come disse a Regensburg nel 2006 ai rappresentanti della Scienza, se si vuole uscire dalle strettoie imposte dalla mentalità razionalistica  scientifica e dalle sue conseguenze disumane. Nella Fides et Ratio, Giovanni Paolo II ha sottolineato la necessità di “non perdere la passione per la verità ultima”, riconoscendo nella fede, “che provoca la ragione ad uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono, e vero”, l’”avvocato convinto e convincente della ragione”.
Benedetto XVI ha saputo indicare con estrema chiarezza il passaggio epocale del nostro tempo: se l’epoca apertasi con la modernità è finita e viviamo in quella che molti chiamiamo post -  modernità, ciò non significa che le sue contraddizioni e le sue conseguenze non siano ancora presenti. Benedetto XVI con il suo magistero ha invitato l’uomo a superare definitivamente la concezione illuministica e razionalistica della ragione, che, oggi tende a riproporsi, in modo ancora più radicale, attraverso il tecno-scientismo assoluto. Questo non sostiene l’uomo nel suo cammino verso la verità, ma lo spinge alla ricerca del potere, potere di conoscere gli oggetti per manipolarli ed utilizzarli, così come conoscere l’uomo per manipolarlo e utilizzarlo. Ecco perché, finita l’epoca delle ideologie politiche (definibili anche come manipolazioni di massa) Benedetto XVI ha considerato la tecno-scienza come la nuova inquietante prospettiva che grava sull’uomo: “il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l’umanità  al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un “a priori” dal quale non potrebbe più uscire e quindi non incontrare mai più l’Essere e la Verità. Cioè non poter più trovare un senso alla vita più appagante di quello che siamo costretti a produrre da noi stessi. Questa visione rende oggi così forte la mentalità tecnicistica da far coincidere il vero con il possibile o il fattibile e conseguentemente azzerando completamente il passato (mentalità astorica). Ma quando l’unico criterio della verità è l’efficienza e l’utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato”.
La posizione di Benedetto XVI non è di condanna della scienza, della quale non si possono disconoscere i grandi meriti, anzi nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia. Il papa emerito denuncia invece la falsa pretesa della “ragione del potere e del fare” di essere la “ragione intera” e non solo una parte di essa.
Per questo motivo nel discorso agli uomini di scienza all’Università di Regensburg, nella visita al Parlamento federale tedesco e al Collage des Bernardins, nel discorso che avrebbe dovuto tenere nella sua visita “rifiutata” all’Università La Sapienza di Roma, l’insistenza di Benedetto XVI  è stata posta sulla necessità di recuperare un più adeguato concetto di ragione riportando in primo piano la dimensione della verità: “l’uomo vuole conoscere, vuole verità” “la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene”. La cultura è cultura della vita se è cultura della verità. La ragione che ricerca è la ragione di un uomo  che vive, ossia che cerca e ama, che cerca e soffre. La ragione è mossa dalla necessità logica di un susseguirsi di domande che scaturiscono nell’impatto con il reale: io chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Qual è il senso ultimo della realtà? La ricerca delle risposte a questi interrogativi è lo spazio in cui si gioca la libertà. La ragione e la libertà sono l’espressione della persona che cerca il vero per essere fino in fondo sé stessa. La ragione è l’espressione sintetica della personalità umana insieme all’affettività. Maltrattare queste due dimensioni vuol dire scardinare il rapporto dell’uomo con Dio e con il mondo e quindi il disfacimento della cultura, della società e della famiglia.
Benedetto XVI (probabile futuro dottore della Chiesa) ha aperto una stagione che ha fatto riscoprire il fascino della ragione, come sfida, come cammino verso il mistero. Ha fatto sentire la magnificenza della civiltà cattolica e della grande civiltà occidentale che nasce dal coinvolgimento di movimenti perenni, che tali rimangono: il domandare greco, il profetismo ebraico, la fede cattolica e la moderna libertà di coscienza. Egli ha aperto orizzonti di incontro con l’uomo di oggi proprio in forza della sua straordinaria capacità di parlare della ragione e della fede oltre ad aver dato un contributo fondamentale alla ripresa di identità dell’avvenimento cristiano. (Tratto da: Luigi Negri “Il cammino della Chiesa” ed. Ares 2015 – vedi anche “Verità della Rivelazione” I filosofi moderni della “Fides et Ratio” a cura di R. Di Ceglie, ed. Ares 2003)

L’angoscia di fronte al futuro (J. Ratzinger)

Quale periodo della storia dell’umanità ha, più del nostro, sperimentato un’angoscia maggiore di fronte al proprio futuro? Forse l’uomo d’oggi si accanisce così tanto nel presente solo perché non è in grado di guardare in faccia il futuro: solo il pensarvi gli procura degli incubi.
In altri termini: noi non abbiamo più paura che un giorno il sole possa essere vinto dalle tenebre e non sorgere più. Temiamo piuttosto l’oscurità stessa che nasce dagli uomini, e abbiamo con ciò solo scoperto quale sia la vera “oscurità”: in questo secolo XX gonfio di disumanità (come nel successivo [Ndr]). Questa “oscurità”  l’avvertiamo più terribile ancora di quanto poterono immaginarla le generazioni che ci hanno preceduto. Proviamo angoscia al pensiero che il bene possa perdere qualsiasi efficacia nel mondo; che finisca per non avere più alcun senso cercare la giustizia, la verità, l’ amare e vivere moralmente. Nel mondo vale solo la legge di chi sa meglio farsi strada a gomitate, perché il corso delle cose darebbe comunque ragione a chi è senza scrupoli e alla violenza bruta (cioè senza vincoli, morali, religiosi, ideologici, psicologici, economici o altro [Ndr]), non a chi è timorato di Dio. Lo vediamo: dominano il denaro, il potere, la minaccia atomica, il cinismo, (il  terrorismo più atroce e crudele che non si sia mai visto [Ndr]), l’assenza di ogni riferimento al sacro. Sovente ci sorprendiamo in preda al timore che, alla fine, nel caotico flusso delle cose non vi sia alcun senso, e ci pare che, in definitiva, la storia del mondo non contempli altro che stolti o vincenti. (Scarti, come direbbe papa Francesco e Super uomini come direbbe Nietzshe [Ndr]). Il presentimento che le forze oscure aumentino via via, e che il bene sia sempre più impotente, domina dappertutto. Alla vista di come va il mondo, ci prende un sentimento pressappoco simile a quello che in passato, gli uomini dovettero provare quando, in autunno e in inverno, il sole sembrava combattere contro la propria agonia. Vincerà il sole la sua battaglia? Il bene conserverà un senso e una forza nel mondo?
Nella stalla di Betlemme ci è dato il segno che ci permette di rispondere con letizia: sì. Questo bimbo infatti, il figlio unigenito di Dio, è posto come segno e garanzia che nella storia del mondo, l’ultima parola è di Dio: di colui che è Via, Verità e Vita = Amore. (Tratto da J. Ratzinger  “Dogma e predicazione”, ed. Queriniana 1974)

Una profezia del 1969

Nel 1969, mentre infuriava la contestazione dentro e fuori la Chiesa, il giornalista Vittorio Messori chiedeva al giovane teologo J. Ratzinger (che aveva partecipato come esperto al Concilio Vaticano II) quale sarebbe stato il futuro del cattolicesimo.

Da questa crisi emergerà una Chiesa che avrà perso molto: edifici, fedeli, sacerdoti, privilegi, luoghi di culto costruiti con sacrificio in tanti secoli. Una Chiesa cattolica diventata minoranza anche dove riuniva popoli interi, politicamente e socialmente irrilevante, umiliata e costretta a ricominciare dalle origini. Ma sarà anche una Chiesa che, attraverso questa apparente disfatta, ritroverà sé stessa e rinascerà, alleggerita e semplificata, più vigorosa e più missionaria”. “Si ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti di fedeli con pochi mezzi e con molta convinzione e tenacia che rimetteranno la fede in Cristo risorto (vero Dio e vero Uomo) al centro della loro vita e della loro speranza. Sarà una Chiesa più spirituale senza tentazioni di sinistra o di destra”. “Ma intanto gli uomini avranno scoperto di vivere in un mondo di solitudine e di indigenza. Vedranno allora in quel piccolo gregge di cattolici superstiti qualcosa non di anacronistico, ma di totalmente nuovo. Lo riscopriranno come una inaspettata speranza, come la risposta che avevano sempre cercato in segreto”.

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