venerdì 19 maggio 2017

4t-10-Neopositivismo e Pragmatismo americano

le Slides e la Dispensa
































ma l'uomo e il suo destino sono



IL NEOPOSITIVISMO


Movimento filosofico (anche detto positivismo logico o empirismo logico) sorto, sviluppatosi ed esauritosi tra il terzo e il sesto decennio del XX secolo.

La filosofia neopositivista si richiama al positivismo ottocentesco, alla sua tesi del ruolo privilegiato ricoperto dalle scienze sperimentali nel processo di acquisizione di conoscenza, nonché alle sue istanze anti-metafisiche. La dizione ‘positivismo logico’ implica che l’attuazione del programma di rifondazione della conoscenza su basi empiriche doveva sfruttare gli strumenti messi a disposizione dai rivoluzionari sviluppi ottenuti nel campo della logica. Tale connubio tra positivismo e logica era reso possibile dalle tesi esposte da Ludvig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922), una delle opere da cui il Circolo di Vienna ebbe a trarre grande stimolo teorico nonostante il suo autore rifiutasse recisamente di farne parte.
Nel Tractatus,  Wittgenstein presenta un’immagine della relazione tra linguaggio e mondo basata su un isomorfismo, sicché una proposizione ha senso quando la sua forma raffigura un fatto possibile, ed è vera quando questo fatto accade davvero.

Sfruttando tale indicazione e combinandola con l’idea che alla base dell’attività dello scienziato vi sono dei procedimenti induttivi, i neopositivisti formulavano il criterio empirico di significanza, secondo cui una proposizione ha significato se, e solo se, è verificabile, stabilendo quindi che il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica empirica, metodo in mancanza del quale la proposizione è priva di significato cognitivo. Con ciò la tradizionale opposizione positivistica alla metafisica trovava un criterio decisivo: una teoria metafisica non è falsa, bensì “senza senso” da un punto di vista cognitivo; essa conserverebbe unicamente un significato emotivo.
Il neopositivismo ricupera l’ottimismo del positivismo, lo radicalizza e lo porta alle estreme conseguenze. Siamo intorno al 1924 e il neopositivismo muove i suoi primi passi intorno ad un salotto filosofico, il famoso Circolo di Vienna, formato da scienziati e filosofi. Sarà del 1929 il loro manifesto programmatico dal titolo “la concezione scientifica del mondo”. Il neopositivismo rappresenta il più radicale tentativo di distruzione della metafisica (distruzione della metafisica = distruzione della religione e secolarizzazione assicurata, direbbe il mio vecchio parroco [Ndr]).
Per il neopositivismo, la metafisica, che aveva interessato fino ad ora tutta quanta la filosofia, non aveva in pratica nessun senso. Questo sforzo radicale di attaccare da una parte la metafisica e dall’altra di sostenere che in fondo la vera ragione umana è inverata solo nella razionalità scientifica, è il sacrosanto obiettivo del neopositivismo. L’uomo può essere uomo, solo quando la sua ragione coincide con la ragione scientifica. È talmente radicale l’approccio del neopositivismo che si vogliono scartare anche tutte quelle dimensioni emotive, storiche, sociali, intuitive, spirituali, ecc. che pur fanno parte della storia dell’uomo da sempre. L’uomo se vuole essere se stesso deve ragionare solo in maniera scientifica, non c’è altro modo di rapportarsi alla realtà. Questo non dipende dagli usi, dai costumi, dalla società e da eventuali sue convinzioni intime morali o spirituali o sentimentali. Tutte le forme di cultura che hanno preceduto il neopositivismo vengono cassate, cancellate, non prese in considerazione nemmeno come fatto storico e culturale. La ricerca della verità e di un senso che sta dietro le cose spirituali, come in quelle materiali è questione  azzerata. Le relazioni: mondo, Dio, uomo non interessano, sono una perdita di tempo. Per i neopositivisti la realtà non ha un senso in sé stessa, ma glielo diamo noi con la nostra capacità di usare gli strumenti più adatti per la sua conoscenza scientifica. C’è quindi un nucleo incontrovertibile, una dimensione razionale e scientifica, che ha i caratteri della verità intangibile e definitiva con la quale il neopositivismo intende fondare la concezione scientifica del mondo.
L’800 vedeva la scienza in grado di dire sempre la verità. Nel ‘900 la scienza invece capisce che tutto quello che dice non è sempre incontrovertibile (ha già avuto delusioni in merito), che quello che dice può dimostrarsi sbagliato, che quello che dice può essere falsificabile. Anzi sa che proprio da questa possibilità di falsificazione può poi venire un vero progresso per la scienza. Si deve però tener ferma la sola lettura razionale della realtà. Questo è il punto di partenza del neopositivismo.
Come si arriva a questo? Primo punto è che si arriva a questa determinazione per l’esperienza. Ogni conoscenza non può che venire dall’esperienza, sensibile ed epistemica. Cioè noi conosciamo solo ciò che possiamo conoscere, che possiamo toccare e sperimentare.
Secondo punto è l’intersoggettività del sapere. Vuol dire che la conoscenza diventa sapere quando è anche condivisa da altri. Quando la conoscenza è condivisibile allora è accettabile. Caratteristica del neopositivismo è che esso è esclusivo, non ammette altro che il suo punto di vista, il resto non esiste. Cioè non si può contrapporgli qualcosa per poi discuterne e ricavare qualcosa di migliore.
Veniamo infatti da una storia di scontri fra idee e architetture filosofiche che si combattono fra loro. Quando parlavamo di Socrate si diceva che in fondo lui cercava un elemento di unione fra gli uomini sui principi universali. Noi possiamo comunicare e capirci se possiamo riferirci agli universali. Concetti condivisi da tutti. Questo modo di pensare il neopositivismo lo sposta esclusivamente su ciò che noi conosciamo e che possiamo conoscere, che possiamo toccare, sperimentare e condividere con gli altri.
Ricordiamo la divisione dell’umanità tra gli “svegli” e i “dormienti” che proponeva la filosofia di Eraclìto, cioè la presenza di pochi eletti che avevano capito la realtà, mentre la massa ignorante era esclusa da questa comprensione. Il neopositivismo invece punta sull’intersoggettività del sapere, sulla condivisione del sapere con tutti.
Per lo scienziato neopositivista non c’è niente che non si possa conoscere, tutto può essere conosciuto. Non ci sono zone insondabili della realtà. La realtà, il  mondo è tutto in superficie, perché se io penso che ci sia una zona inesplorabile è assurdo che la vada a cercare, perché non avrò mai un riscontro empirico e questo fa decadere la mia ragione scientifica. Tutto quello che io posso conoscere lo conosco o lo conoscerò. Il nucleo fondante della “critica alla ragion pura” di Kant era: ma la metafisica si può considerare come scienza? E la risposta era no. Perché noi non possiamo avere conoscenza di ciò che non ci è dato dai sensi e che cogliamo con le categorie di spazio e tempo. Quando si bypassa l’esperienza sensibile non si può avere conoscenza. Con Kant la metafisica veniva poi recuperata in ambito morale, ma questo non vale per i neopositivisti che estremizzano la cosa dicendo che proprio non dobbiamo andare in nessun modo e in nessun caso oltre ciò che non è possibile conoscere con la ragione, non ha nemmeno senso parlarne.
Il neopositivismo si trova in sintonia con tutto quel mondo culturale progressista e ultra progressista moderno che sta sradicando dal pensiero tutte quelle categorie filosofiche e teologiche che hanno caratterizzato i pensatori greci, quelli medioevali e financo l’illuminismo, il positivismo, l’empirismo, ecc. tutti quei movimenti di emancipazione dell’uomo che di fatto non lo portavano a sganciarsi definitivamente dalle vecchie concezioni del sapere.

Wittgenstein  e il neopositivismo

Nato a Vienna il 26 aprile 1889, mostra un ingegno precocissimo per tutte le attività che hanno in qualche modo a che fare con l'intelletto e con le materie astratte.
Prima di dedicarsi interamente alla filosofia, si laurea in Ingegneria e sviluppa interessi molto legati alla logica e alla matematica. La sua carriera professionale è disordinata quanto la sua vita, tanto che il suo percorso accademico contempla periodi passati a insegnare come Maestro nelle scuole elementari tanto quanto cattedre di Ingegneria al Politecnico.
Unico libro pubblicato in vita da Wittgenstein fu il Tractatus logico-philosophicus, dedicato alla memoria del suo amico David Pinsent, la cui prefazione venne curata dal filosofo e matematico Bertrand Russell, suo maestro; tale libro è considerato una delle opere filosofiche più importanti del Novecento. Le raccolte di appunti, le lezioni, i diari, le lettere – che costituiscono tutto il resto della sua vastissima opera, detta nel complesso il secondo Wittgenstein – vennero pLudwig Josef Johann Wittgenstein (Vienna,  1889  Cambridge, 1951) è stato  un filosofo, ingegnere e logico austriaco, autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio, è considerato da molti, specialmente nel mondo accademico anglosassone, il massimo pensatore del XX secolo. Ludwig Wittgenstein è una figura emblematica della filosofia del '900. Nella sua opera complessa e multiforme Wittgenstein ha spaziato all'interno di varie discipline occupandosi di logica, di matematica, di filosofia del linguaggio e di psicologia. Pubblicate solo dopo la sua morte.

Ludwig Wittgenstein  si muove a suo agio in questo contesto, anche se è più un filosofo del linguaggio, perché introduce un principio che è il principio di verificazione. Wittgenstein si rifà a diversi pensatori che abbiamo già trattato sulla conoscenza a priori e a posteriori del mondo e dice: i giudizi che noi esprimiamo a priori, quelli che derivano dalla nostra sensibilità, in fondo non ci dicono nulla.
Se io dico “piove” o “non piove”, do un giudizio analitico a priori che in fondo è sempre vero. Wittgenstein dice che posso fare solo delle tautologie (ripetere quanto già detto), perché dal punto di vista scientifico questo non mi produce nulla. Anzi non si possono nemmeno dedurre delle cose da principi a priori. Non posso dire che siccome esiste il mondo allora deve esistere Dio. Non posso dire che siccome esiste un certo evento allora ne deduco un’altra cosa.
La verità è tale solo se c’è un confronto e una verifica empirica, principio di verificazione. Se io esprimo un giudizio sulla realtà e questo giudizio è falsificabile o verificabile empiricamente nella realtà allora a questo punto  il giudizio ha un senso. Ma se io voglio esprimere un giudizio sulla realtà, ma questo giudizio non è verificabile, né falsificabile, allora questo giudizio non ha senso, non dovrebbe nemmeno essere nominato. Questo non vuol dire che la metafisica è falsa, vuol solo dire che la metafisica non ha senso, anzi non dovrebbe nemmeno essere posta la domanda. Wittgenstein dice che non esiste qualcosa che non si può conoscere, perché se tutto si può conoscere, ciò che non si può conoscere non esiste.
Quindi tutti i massimi problemi esistenziali, quelli che avevano mosso i primi filosofi e tutta la storia della filosofia, e che noi pensiamo qui ed ora della nostra vita, dalla nostra esistenza, non hanno senso è inutile pensarci sopra. Sono problemi privi di significato, perché non possono avere una risposta, una risposta che provenga da una valida soluzione scientifica, pratica ed empirica. Allora Wittgenstein dice: bisogna fare come per l’analisi logica del linguaggio. Quando faccio metafisica utilizzo parole che poi non riesco a giustificare perché faccio un errore nel modo concreto di costruire la frase.
“il metodo corretto della filosofia, dice Wittgenstein, sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi. Posso dire solo cose che riguardano la scienza naturale. Dunque qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare. Ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che a certi segni nelle sue proposizioni egli non ha dato significato alcuno. I problemi possono essere risolti solo dalla scienza. La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di essa, cioè non c’è nessun problema della vita, dimenticatelo. Tutto passa e dobbiamo morire. Il neopositivismo vede il divenire come il regno del progresso e della libertà, di ciò che si deve realizzare, di ciò che si deve scoprire”.
Si è entrati in un contesto radicale del modo di pensare, forse il più radicale incontrato fino ad ora. “Su ciò su cui non si può parlare si deve tacere” Wittgenstein.
Tutta la scienza moderna poi si relativizza e abbatte ogni residuo di metafisica diffondendo un secolarismo così massiccio da influenzare anche la Chiesa Cattolica (diciamo di tentare di secolarizzare la stessa Chiesa Cattolica, il famoso fumo nel tempio di Paolo VI). Questa filosofia neopositivista ha ormai permeato ogni ambiente ed ogni contesto per cui anche chi non sa nemmeno che è esistito Wittgenstein tende a ragionare così.
Ma allora in questa realtà del ‘900 cosa è rimasto di cristiano? Cosa è rimasto di cattolico? Diciamo che nonostante che la fede sembra stia per dissolversi nel nulla continua però imperterrita la lotta per estirparla del tutto. La domanda dei più di fronte alle grandi tragedie del ‘900 ed ora a quelle del nuovo millennio è “ma Dio dov’è”. Questo sembra voler confermare che Dio davvero non c’è più. Ma allora perché continua con così tanta insistenza la banalizzazione di ogni pratica religiosa in Europa e addirittura una sempre più feroce persecuzione dei cristiani nel mondo? Vuol dire che il cristianesimo resiste ancora nonostante tutto?

Il Crocefisso di Don Camillo

Giovannino Guareschi in uno dei suoi famosissimi racconti di Don Camillo immagina questo colloquio fra Don Camillo e il Crocifisso nel momento in cui è in corso un feroce sciopero contro gli allevatori di bovini che rischia di far morire un ingente patrimonio di bestiame che è anche una importante risorsa per tutto il paese. Don Camillo è fuori dalla grazia di Dio e si lamenta con il Crocefisso della stupidità umana che per fare dispetto ai padroni manda in malora proprio le risorse di cui la gente ha bisogno.
Non ti crucciare don Camillo, gli risponde il Signore, lo so che vedere gli uomini che lasciano perire la grazia di Dio è per te peccato mortale. Lo sai che io sono sceso da cavallo per raccogliere una briciola di pane. Ma bisogna perdonarli perché non lo fanno per offendere Dio. Essi cercano affannosamente la giustizia in terra perché non hanno più fede nella giustizia divina e ricercano disperatamente i beni della terra perché non hanno fede nella ricompensa divina e perciò credono solo a quello che si vede e si tocca. Le macchine volanti sono per loro gli angeli infernali di questo inferno terrestre che essi tentano invano di far diventare un paradiso. È la troppa cultura che porta all’ignoranza, perché se la cultura non è sorretta dalla fede, ad un certo punto l’uomo vede soltanto la matematica delle cose. L’armonia di questa matematica diventa il suo Dio e dimentica che è Dio che ha creato questa matematica, questa armonia. Ma il tuo Dio non è fatto di numeri don Camillo. Nel cielo del tuo paradiso volano gli angeli del bene. Il progresso fa diventare sempre più piccolo il mondo per gli uomini. Un giorno quando le macchine correranno a 100 miglia al minuto, il mondo sembrerà agli uomini microscopico. Allora l’uomo si troverà come un passero sul pomolo di un altissimo pennone e si affaccerà sull’infinito. Nell’infinito ritroverà Dio e la fede nella vera vita e odierà le macchine che hanno ridotto il mondo ad una manciata di numeri e le distruggerà con le sue stesse mani. Ma ci vorrà ancora del tempo don Camillo, quindi rassicurati, la tua bicicletta e il tuo motorino non corrono per ora nessun pericolo. Il Cristo sorrise e don Camillo lo ringraziò di averlo messo al mondo”.

Ha ancora senso la preghiera?

L’arrabbiatura di don Camillo è di fatto una preghiera in cui l’irascibile parroco (a modo suo) chiede a Dio di salvare il mondo, che è il nucleo vero e proprio della preghiera come afferma J. Ratzinger in una delle sue numerose opere.
Dio è buono e c’è anche per le piccole cose e per i piccoli. Per questo ci è permesso, senza vergognarci, di esporgli anche le nostre piccole cose (anche le arrabbiature) […] e attraverso esse pervenire a ciò che è il nucleo vero e proprio della preghiera: chiedere a Dio di salvare il mondo.
[…] dobbiamo aver fiducia nel fatto che Lui, e Lui solo, è in grado di salvarci (ieri, oggi e domani). Là dove noi cristiani ci allontaniamo da tale convinzione e accediamo all’opinione che ciò lo dovremmo fare soltanto con le nostre proprie mani; là dove non confidiamo più in Dio, là senza dubbio le nostre porte si chiudono per Lui, e il mondo diventa ingovernabile e irredimibile (come oggi!).
Essere una persona che prega significa essere una persona che crede. E ciò a sua volta significa: essere una persona che spera (e che quindi fa progetti e si impegna a diffondere il bene). O, detto in altri termini: un individuo che non crede soltanto che forse da qualche parte esista un essere supremo di cui per altro egli non sa nulla e che, per parte sua, non dà alcun segno di sé, ma che crede nel fatto che Dio è Dio, e che perciò a noi è lecito sperare. Questi crede nel fatto che Dio è Dio; e cioè, che il mondo non gli è indifferente, né che gli è scappato di mano. Ciò significa che noi dobbiamo dischiudere (aprire) il mondo soltanto a Dio, perché egli vuole e può agire, anche quando fa diversamente da come ci eravamo immaginati nelle nostre preghiere”. (tratto da: J.Ratzinger “Servitori della vostra gioia” ed. Ancora, 1989)

IL PRAGMATISMO AMERICANO


Per pragmatismo si intende l'indirizzo filosofico contemporaneo, affermatosi a cavallo tra XIX e XX secolo negli Stati Uniti, secondo il quale l'attività pratica, che agisce direttamente sulla realtà, deve avere la preminenza sulle attività speculative, e la verità, o la validità di una teoria è affidata alla sua verifica pratica, nella quale la funzione fondamentale dell'intelletto è di consentire una conoscenza obiettiva della realtà, e non è separabile dalla funzione di consentire un'efficace azione su di essa.
Un pragmatista avrà l’atteggiamento mentale e il comportamento di chi privilegia la pratica e la concretezza rispetto alla teoria, agli schemi astratti e ai principi ideali. La pratica utilità si sostituisce al concetto tradizionale di verità teoretica come criterio di scelta tra diverse dottrine.
Cioè, l’oggetto della nostra azione quali conseguenze pratiche ha? Allora la nostra concezione di quegli effetti è la totalità della nostra concezione dell’oggetto. Nel momento in cui noi sappiamo qual è la nostra conoscenza dell’oggetto e ne conosciamo tutte le conseguenze pratiche, allora possiamo dire che di quell’oggetto conosciamo tutto.
Pragmatismo è la filosofia della prassi, teorizzata al massimo. È la filosofia dell’utilità. Utilità non solo in termini materiali, ma anche in senso allargato.Il pragmatismo è la filosofia dell’utilità che individua gli oggetti in base alle loro conseguenze. Io conosco quell’oggetto se ne conosco pienamente le sue conseguenze pratiche.
Questo non solo è il pragmatismo americano, ma rappresenta proprio lo spirito americano. All’inizio il pragmatismo americano era addirittura chiamato “americanismo”, coniato poi in “pragmatismo” da Ch. S. Peirce intorno al 1872 e i suoi esponenti sono ovviamente americani: oltre a Pierce, abbiamo W. Jam Fiske, F.E. Abbot, O. W. Holmes, J. B. Warner, N. St. John Green, Ch. Write, William James (psicologo) e tutti esperti in materie scientifiche. Questi illustri personaggi infatti erano impregnati di puritanesimo, di illuminismo, di romanticismo, di darwinismo poi in modo particolare e rappresentano il pragmatismo americano a tutto tondo. Incarnava in pieno l’ottimismo americano. L’empirismo inglese, che i padri pellegrini hanno portato in America, non era imbevuto delle polemiche che invece attraversavano l’Europa fra metafisici, realisti, gnostici e agnostici, credenti e non credenti, ecc. l’America era un paese più predisposto e aperto a nuove filosofie.

Pragmatismo: La filosofia delle azioni e dei fatti - Enciclopedia dei ragazzi (2006) di Paolo Casini –


I pragmatisti si consideravano eredi dell’empirismo anglosassone, di cui ripresero e svilupparono l’interesse per l’analisi linguistica, ancorandolo fortemente alla realtà.

Le dispute inutili della filosofia

 

I pragmatisti avevano forti riserve sul modo tradizionale di affrontare il problema della conoscenza da parte della filosofia, riserve che emergono chiaramente dal seguente brano di William James: «Uno scoiattolo – scrive il filosofo statunitense – è aggrappato a un lato di un tronco di un albero, mentre dal lato opposto dell’albero si trova un essere umano. L’osservatore cerca di vedere lo scoiattolo girando rapidamente attorno al tronco, ma per quanto si muova velocemente lo scoiattolo si muove altrettanto velocemente in direzione opposta, così che non è mai possibile vederlo». Si può dire che l’uomo gira intorno allo scoiattolo o no? A due osservatori in disaccordo sulla questione, il filosofo fa notare che la domanda è ambigua. L’uomo, infatti, occupa via via i quattro punti cardinali secondo una sequenza opposta a quella dello scoiattolo, e in questo senso si può dire che gli gira attorno; ma in un altro senso non riesce a farlo, perché lo scoiattolo si muove conservando la propria posizione, con il ventre rivolto verso l’uomo. La questione si riduce all’analisi della parola «intorno», ma non ha risposta.

L’analisi linguistica di Peirce


Il pragmatismo è un metodo, affermò James, che ha i suoi precedenti nel perpetuo interrogare di Socrate e nell’analisi linguistica tipica dell’empirismo inglese. Charles Sanders Peirce, nel saggio Come rendere chiare le nostre idee (1878), aveva indicato il motivo più sottile di ogni nostra scelta negli effetti pratici che attribuiamo ai nostri pensieri o atti di volontà. Peirce e William James avevano fondato nel 1875 un Metaphysical club («club metafisico») presso l’università statunitense di Cambridge e si influenzarono a vicenda. Peirce, passato dalla geodesia alla logica e alla matematica, derivò il criterio di verità dalla ricerca sperimentale e applicò ai problemi della conoscenza un’impostazione ‘realista’. William James, medico e psicologo, fu piuttosto un ‘nominalista’ attento al flusso del pensiero, all’analisi delle idee e degli atti di volontà.

Peirce, affermando che ogni pensiero è un segno strettamente legato alla natura del linguaggio, propose l’analisi dei segni linguistici per ottenere il massimo di chiarezza nella comunicazione. La sua tecnica si applicava in particolare alle parole difficili e ai concetti astratti con due criteri, uno negativo e uno positivo. Il criterio negativo è quello di vagliare i problemi filosofici privi di soluzione condivise, cioè posti da parole che hanno significati diversi o sono prive di significato, mostrando come ogni proposizione ontologico-metafisica è irrilevante o assurda. Il criterio positivo è quello di spiegare o ricostruire il significato di concetti poco chiari. Peirce si dedicò all’analisi di termini correnti in fisica, come durezza, forza, peso, mediante ‘ricette’ capaci di precisare in quali condizioni queste o altre qualità si presentano. Qualora un segno sia intraducibile in una proposizione di questo tipo, secondo Peirce il suo significato è vuoto.

La teoria utilitaristica di William James


La nostra concezione di un oggetto, secondo Peirce, coincide dunque con la cognizione che noi abbiamo delle sue conseguenze pratiche. Il che è diverso dal dire che il significato di un concetto coincide con l’effetto pratico che esso ha per noi quando lo usiamo. Questo criterio ‘utilitario’ fu introdotto da James, per il quale la verità di un’idea sta nel suo cash value, nel suo «valore in contanti».
I due cofondatori del pragmatismo constatarono che le loro vie divergevano: Peirce preferì ridefinire la sua teoria generale dei segni, mai compiuta, con il termine pragmaticismo. James scelse come terreno di prova i fatti di esperienza vissuta e rivolse le sue raffinate attitudini di psicologo ai valori morali e alla fede religiosa, definendo la volontà di credere un «beneficio vitale». Il pragmatismo, assai discusso in Europa, negli Stati Uniti ha avuto i suoi continuatori in John Dewey e nei neopragmatisti George H. Mead, Donald Davidson, Richard Rorty.

Non ci sono idee fuori dall’esperienza

(uno studio approfondito del pragmatismo americano)

Il mondo che sta di fronte a questi filosofi è accolto con tutto quello che c’è dentro: pensiero, azione, errori, cose che vanno bene e cose che vanno male. Non dobbiamo uscire da questo mondo in cui siamo pienamente immersi. I pragmatisti si opposero addirittura al primo Wittgentein perché anche nella conoscenza noi non possiamo appellarci a delle idee che siano fuori dalla storia, fuori dall’esperienza. Gli stessi empiristi, a cui loro si richiamavano, ritenevano l’esperienza un dato oggettivo, ma questa oggettività è qualcosa di non umano. Dicevano i pragmatisti che non ci deve essere nulla di non umano. Non c’è un dato oggettivo, scientifico, positivista a cui noi possiamo appellarci. Non ci sono idee fuori dall’esperienza, dalla storia del mondo. Non ci sono delle categorie asettiche e pure come prospettava Kant, alle quali noi appellarci per reinterpretare la realtà. È tutta una osmosi, noi siamo immersi nell’esperienza che facciamo. Il  mondo è plasmato dalla nostra mente. In altre parole siamo all’apice di quello che desiderava Hegel. Siamo all’annullamento totale di tutto ciò che non è ritenuto umano. Le idee platoniche non sono considerate umane perché non sono frutto della nostra esperienza. Il dato oggettivo non esiste perché è frutto della nostra interpretazione. Le categorie kantiane all’interno della mente sono qualcosa di non reale, non sperimentabile, mentre noi siamo immersi nell’esperienza e nella storia e con questo noi abbiamo un “continuum”, nella storia e nel tempo non c’è un presente, c’è solo un passato e un futuro, il presente come appare è già svanito. Una osmosi con l’esperienza che abbiamo di fronte. L’unico modo di relazionarci, di poter vivere, di poter trarre delle idee è quello della prassi (attività pratica, contrapposta all’attività teorica o speculativa). La prassi è quella che dà la verità, l’agire. Io conosco veramente l’oggetto che ho davanti in base alle conseguenze che esso può avere, all’utilità che l’oggetto può avere, per me, per la società, per la comunità.
 Una finestra per esempio è una apertura nel muro, ma a cosa serve? Serve a far passare l’aria e la luce, serve per far passare un mobile in caso di trasloco, serve come via di fuga per un incendio, serve per vedere chi passa in strada? Con questo però non posso dire di aver scoperto l’essenza della finestra. Qual è allora la verità sull’oggetto finestra? È l’utilizzo che ne posso farne, è quanto sia utile per me. Una realtà che è di fronte a me ma non è oggettiva, non è non umana, non c’è nulla di non umano. Tutto è plasmato dal soggetto (soggettivismo della filosofia moderna) e al contempo è la realtà in cui io sono immerso. Un continuum, un’osmosi (un’influenza reciproca) dalla quale non si può uscire. Avevamo già visto Croce che con Gentile nella loro riforma dell’idealismo hegeliano, hanno voluto eliminare ciò che in Hegel era ritenuto fuori della storia. Qui ora siamo veramente giunti nella prassi totale, nella storia, nel vissuto, nell’esperienza. Una esperienza che oscilla fra dubbio e credenza. Come viviamo noi? Abbiamo un dubbio? Allora cerchiamo e poi troviamo una soluzione. La soluzione diventa poi per noi una credenza che ci permette poi di risolvere problemi analoghi (concetto di “problem solving” = metodologia di analisi, diagnosi e terapia per risolvere un problema, applicatissimo dall’era industriale e in medicina).
Il valore delle idee e dei concetti che abbiamo sono semplicemente una condensazione di esperienze passate, di esperienze future, sempre comunque del soggetto e della comunità a cui il soggetto appartiene, sono “cash value”, cioè esperienze subito vendibili o usabili potremmo dire, nella prassi. Perché andare a ricercare dei valori che siano sopra ai fatti, magari valori eterni con i quali poter giudicare i fatti. Perché pensare che la realtà debba imprimersi in noi come se la nostra mente fosse uno specchio. Perché dividere il pensiero dalla realtà, quando invece è un tutt’uno, è tutta una osmosi continua di storia e di esperienza. Le poche condensazioni che ci sono, le idee, vengono dall’esperienza. Una esperienza che cambia darwinisticamente. Idee che cambiano perché sono semplicemente dei significati, dei segni sulla base della loro utilità pratica. Questa è la realtà dei fatti. La materia e l’utilità pratica di ciò che abbiamo intorno. Dalle cose alle idee e ai pensieri. Ecco perché i pragmatisti ritenevano che le loro filosofia fosse un corridoio nel quale si aprono tante stanze, tante porte e queste porte sono le varie filosofie che hanno caratterizzato la storia della filosofia. Queste sono tutte valide, perché tutte si affacciano sul fronte della loro utilità pratica in quel determinato momento storico.
Siamo immersi in una realtà che è tutta umana, non c’è nulla che vada al di fuori dell’umano. La verità è una verità pratica, utile. L’esperienza è una infinità di possibilità, di infinite possibilità. Un infinito mondo di significati. Il significato è un segno che rimanda ad un oggetto e c’è qualcuno che interpreta questo collegamento. Chi è questo qualcuno? Per esempio la comunità. Come la comunità scientifica certifica e rende valida una ipotesi per studiare un certo fenomeno, così in generale la comunità umana ritiene cosa sia utile e quindi vero in quel momento per la crescita della comunità (comunità che diventa così una comunità educante). Utile quindi per la crescita dei valori comuni, dello stare bene insieme. Qui si spiega il carattere interventista dell’America. Facciamo e poi vediamo se quello che abbiamo deciso di fare ha le conseguenze che ci aspettavamo, altrimenti correggiamo il tiro, grazie all’esperienza passata e a quella che stiamo facendo ora.
Grande è quindi l’ottimismo americano, è la comunità, è la democrazia che ci permette di decidere insieme cosa è più utile fare e quindi farlo. Osservando le conseguenze facciamo di fatto un processo di verifica delle decisioni prese e ne prendiamo delle altre (concetto di “verificabilità” come nelle scienze). Non c’è nulla al di fuori delle relazioni umane di non umano. Tutte le idee e le filosofie sono o sono state utili all’uomo nei vari periodi della storia e quindi sono tutte umane. Perché tutte sono state frutto di una osmosi e di una intensa relazione con l’uomo. È l’apice della immanentizzazione del pensiero, dell’identificazione radicale e senza vie di uscita fra pensiero e realtà.
Il vero basato sull‘utile per la comunità, ma anche per la religione stessa, dimostra che il pragmatismo riesce ad inserirsi un po’ dappertutto. Il pragmatismo ha una forte componente teistica, cioè crede che ci sia una superiore entità che sorregge la materia, a sorreggere questo stato di cose. È quasi mistico per certi aspetti, dove l’importante è l’utilità pratica, l’importante è sceglier insieme quale sia la via, provando, agendo, sperimentando.
L’opinione finale sulla quale tutti corrono, è ciò che intendiamo con verità (Peirce). Tutti coloro che indagano si troveranno in definitiva d’accordo che ciò che intendiamo con verità è il reale. La realtà è l’oggetto verso il quale la nostra intenzione, pratica, utile, pur anco spirituale ma pur sempre utile, è indirizzato. L’oggetto è composto a partire dall’intenzionalità che interpreta quella che si ritiene, comunitariamente, essere la realtà. L’anima è il significato del pensiero e non può indirizzarsi ad altro che alla produzione della credenza. Le credenze, in breve, sono in realtà regole per l’azione e tutta la funzione del pensare non è che un passo verso la formazione di abitudini di azione. Addirittura per i pragmatisti, e specie per Peirce, non c’è nemmeno l’induzione, cioè il detrarre da alcuni fenomeni una regola comune come hanno fatto Galilei, Newton e altri, cioè una regola universale. Con i pragmatici si possono vedere alcuni fatti e da questi trarne una regola che sia poi utile per agire, ma non che possa dirsi o usarsi come universale. Queste possono al più diventare delle credenze, cioè delle vie per agevolare il “problem solving”, per affrontare una esperienza e una realtà difficile o piena di ostacoli. I pragmatisti sono decisamente contrari a tutto ciò che può andare oltre la storia, oltre l’esperienza. Tutti coloro che hanno ricercato nella metafisica, nei principi generali, nelle categorie kantiane, qualcosa che potesse spiegare il mondo e arginare l’errore non hanno risolto nulla.
La realtà è fatta di bene e di male, di dubbio e di credenza in cui siamo immersi. In questa realtà siamo e in questa dobbiamo affrontare i nostri problemi. Le cose vengono definite dai sensi, i quali a loro volta sono definiti dall’uso e a questo punto possiamo parlare di sostanze, ma sono semplicemente delle sostanze che derivano da esperienze passate. Il sentimento è molto importante per i pragmatisti, così come la programmazione futura. Non abbiamo qualcosa di oggettivo, ma sempre qualcosa di interlacciato con le nostre interpretazioni e con quelle degli altri, sia di chi ci ha preceduto sia di chi verrà dopo di noi. Anche se il pragmatismo accetta e vede come utili per il loro tempo anche teorie e filosofie che abbiamo definito “contro-intuitive”, questi di fatto è molto più vicino a noi e al nostro bisogno istintivo di chiamare le cose con il loro nome e di conoscerle, capirle e poterle gestire.
Juan Donoso Cortés (1809  1853) marchese di Valdegamas, ambasciatore spagnolo nel 1852, scrive: “Se la luce della nostra ragione non è stata oscurata (non si è eclissata) essa è sufficiente, anche senza l’ausilio della fede, a scoprire la verità. Se la fede non è necessaria, la ragione è sovrana e indipendente. I progressi della verità dipendono dai progressi della ragione, questi dal suo esercizio che consiste nella discussione. Dunque è la discussione la vera legge fondamentale delle società moderne, è l’unico crogiuolo in cui si separano, dopo che si sono fuse, le verità dagli errori”.

Commenti al Pragmatismo

Questo è a grandi linee il pragmatismo, ma basta accendere la televisione guardare la pubblicità per capire il pragmatismo. In essa  per rendere pubblica una cosa se ne esalta l’utilità, la capacità di risolvere un problema, non si usa nessuna tematica al di fuori della nostra esperienza, nulla al di fuori delle nostre interpretazioni o di quelle che si vivono nelle nostre comunità di riferimento.
Alla televisione troviamo dunque programmi di intrattenimento che sono come un’arena nella quale dei gladiatori, con dibattiti e discussioni anche feroci, cercano la verità ma che applicano coerentemente il politically correct”, cioè rispettando scrupolosamente la verità di ciascuno dei partecipanti alla discussione. Proibito affermare qualcosa di assoluto o di dogmatico. Peccato che spesso il crogiuolo, proprio mentre sta separando la verità dall’errore venga spento perchè è ritenuto giusto dare la “pari opportunità” al male come al bene, lasciando lo spettatore, magari emozionato, ma certamente confuso e caso mai attratto dalle idee di chi è riuscito meglio degli altri gladiatori ad affermarsi a parole. La verifica che, quanto detto dagli uni o dagli altri corrisponda a verità, di fatto non c’è quasi mai. L’onnipotenza della dialettica = l’arte di saper argomentare e l’onnipotenza dell’eristica = l’arte di saper vincere in una discussione, sono dai tempi di Protagora e dei sofisti (IV secolo a. C.) i veri protagonisti di ogni discussione o dibattito pubblico, sì, ma, e la ricerca della Verità? [Ndr].
È evidente che ormai è questa la filosofia che domina il mondo, cioè la filosofia del liberalismo, la filosofia del soggettivismo, la filosofia dell’utilitarismo, la filosofia del consumismo, la filosofia del relativismo, della morale su misura di ciò che in un certo momento è più utile e conveniente e che, nonostante lasci spazio anche al deismo e al misticismo, comunque mette al centro l’uomo, la mente umana, la volontà e soprattutto il linguaggio e la discussione come criterio per valutare se una cosa è giusta o no.
In altri termini: è giusto ciò che dice la maggioranza (la maggioranza della comunità “educante”). Il problema è allora quello di esaltare il sistema di governo basato sulla democrazia dove è il popolo che decide attraverso i suoi rappresentanti (e non un monarca o un dittatore). Resta da capire se questi rappresentanti del popolo sovrano sono stati eletti per la loro bravura, competenza, capacità, onestà e spirito di servizio, o perché più abili di altri a “vendersi bene” e ad essere sostenuti dai gruppi di potere che di fatto governano dietro le quinte? [Ndr].

Il pragmatismo nella vita della Chiesa 

“Nella prima metà degli anni 70, racconta l’ex Cardinale Ratzinger, un amico fece un viaggio in Olanda, dove la Chiesa faceva sempre più parlare di sé, vista dagli uni come l’immagine di una Chiesa migliore per il domani, dagli altri come sintomo di una decadenza che era la logica conseguenza dell’atteggiamento assunto. Al suo ritorno ci parlò di seminari vuoti, assenza di vocazioni religiose, ritorno allo stato laicale di preti e religiosi, la scomparsa della confessione, la caduta della frequenza alla Messa domenicale, ecc. ma ci parlò anche di numerose iniziative per attirare in Parrocchia la gente”.
Iniziative del tutto simili a quelle proposte da altre associazioni o organizzazioni nate per riempire il tempo libero della gente per filantropia o per business. Queste iniziative erano di fatto semplicemente in concorrenza con le altre, e anche se alcune erano molto buone e interessanti, non avevano modificato per nulla la situazione. L’allontanamento dalla fede continua a crescere e le persone che frequentano queste iniziative parrocchiali continuano a non vedersi in Chiesa. Non è l’abilità nel proporre intrattenimenti che può aumentare la fede né tantomeno la dialettica o il saperci fare, ma il suo contrario: l’amore gratuito per il prossimo vissuto dai cristiani, che può attirare quelli che sono stufi dei palliativi di felicità che il mondo offre. (Sintesi della pag. 35s di “Guardare Cristo” di J. Ratzinger, ed. Jaca Book 1989)
“Andate dunque in tutto il mondo e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19). Questo dinamismo missionario, non si può trasformarlo in: “Andate nel mondo e diventate voi stessi come tutti gli altri!”. Il granello di senape del Vangelo è qualcosa di sacro e non si identifica col mondo, ma è destinato a penetrarlo e a lievitarlo tutto intero.
In una intervista del 1975 a Eugenio Ionesco, uno dei padri del teatro dell’assurdo,  ha detto: “la Chiesa non vuol perdere la sua clientela, anzi vuol guadagnarne di nuova. Ciò però la porta ad una mondanizzazione davvero deplorevole. La Chiesa così corre a perdersi nel mondo”. L’uomo che cerca Dio, non lo va a cercare nelle cose del mondo e tantomeno in una Chiesa che gli propone cose simili a quelle che già gli propone il mondo. L’uomo che cerca Dio è assetato della proposta radicale del Vangelo. (Sintesi della pag. 108s di “Servitori della vostra gioia” di J. Ratzinger, ed. Ancora 1989)
Estratto dal testo dell'intervento tenuto dall’ex cardinale Joseph Ratzinger, durante un incontro tra la Congregazione per la Dottrina della Fede e i Presidenti della omonima Commissione delle Conferenze Episcopali dell'America Latina, tenutosi a Guadalajara (Messico) nel maggio 1996, in cui veniva analizzata la situazione della fede e della teologia, nel contesto contemporaneo della vita della Chiesa.

Oltre  […] al grande pragmatismo delle teologie della liberazione vi è anche però il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale in apparenza ogni cosa procede normalmente, ma in realtà la fede si logora e decade nella meschinità. Penso qui a due fenomeni, ai quali guardo con preoccupazione. Il primo riguarda il tentativo che si manifesta a diversi livelli, di estendere il principio della maggioranza e della minoranza alla fede e ai costumi e quindi di «democratizzare» decisamente la Chiesa. Ciò che non è gradito alla maggioranza non può essere vincolante, così sembra. Ma di quale maggioranza si tratta in realtà? Domani sarà diversa da oggi?
Una fede che siamo in grado di stabilire noi non è una vera fede. E una minoranza non può lasciarsi imporre una fede da una maggioranza. La fede e la sua pratica ci provengono dal Signore attraverso la Chiesa e l'esercizio dei sacramenti, altrimenti non esistono. Molti rinunciano a credere perché sembra loro che la fede possa essere definita da una qualche istanza burocratica, che sia cioè una specie di programma di partito, chi ne ha il potere può definire ciò che bisogna credere, e quindi tutto dipende dal fatto di giungere al potere nella Chiesa oppure - cosa più logica e più plausibile - non credere affatto.
L'altro punto, su cui voglio richiamare l'attenzione, riguarda la liturgia. Le varie fasi della riforma liturgica hanno fatto sorgere l'idea che la liturgia possa venir mutata a piacere. [Corre infatti il pensiero che] se c'è qualcosa che non si può cambiare questo riguarderebbe tutt'al più le parole della consacrazione, mentre tutto il resto lo si potrebbe fare anche diversamente. Ne deriva una tremenda conseguenza logica: se questo lo può fare un'autorità centrale, perché non anche le istituzioni locali? E se le istituzioni locali, perché allora non anche la stessa comunità?
Dopo le tendenze razionaliste e puritane degli anni Settanta e anche degli anni Ottanta ci si è stancati oggi delle liturgie delle parole e si desidera una liturgia dell'esperienza, che si avvicina molto agli orientamenti del New Age: si ricerca ciò che è rumoroso ed estatico, non la «logikè latreia», la rationabilis oblatio (la liturgia secondo ragione, conforme al logos), di cui parla Paolo e con lui la liturgia romana (Rom 12, 1). Certo, quello che voglio sottolineare non si riferisce alla situazione normale delle nostre comunità. Ma queste tendenze sono comunque evidenti [e serpeggiano anche in qualche sacrestia. Ndr]. Si richiede perciò una certa vigilanza, per non cadere in potere di un vangelo diverso da quello che il Signore ci ha donato, pietre invece di pane.

La negazione del valore storico dei Vangeli

Perché non suffragati da fonti extra bibliche (di Alberto Torresani)
     Fino alla fine del Settecento, la Bibbia era stata considerata un documento attendibile e ciò che essa racconta era inserito nel sapere dei popoli cristiani che perciò potevano rispondere ai fondamentali interrogativi dell’esistenza: chi sono, da dove vengo e dove vado. La risposta, accolta da tutti, era che all’inizio c’è un Dio creatore della natura comprendente le terre e i mari, le piante, gli animali, l’uomo. Quest’ultimo era ritenuto una creatura privilegiata perché dotata di una intelligenza che lo rendeva simile a Dio. Tuttavia, per meritare l’amicizia di Dio occorreva che l’uomo fosse dotato di libera volontà, che aderisse liberamente al progetto di Dio, proprio come gli angeli. Ma l’uomo e una parte degli angeli non seppero sostenere la prova, vollero essere come Dio, giudici del bene e del male e perciò precipitarono nell’abisso. Tuttavia, la bontà di Dio e l’amore verso la creatura più elevata presente sulla terra, indussero Dio ad assumere la natura umana, riscattando l’uomo dall’abiezione in cui era caduto. Il Logos è il Figlio di Dio che ha unito la sua divinità alla natura umana, entrando nella storia come il figlio di Maria, nato a Betlemme e condannato a morte da Ponzio Pilato su richiesta dei capi del suo popolo. Ma nel terzo giorno Cristo è risorto e poi è asceso al cielo, lasciando la Chiesa come sacramento di salvezza per tutti gli uomini.
     Questi dati essenziali, alla fine del Settecento, non furono considerati probanti. Fin dal secolo precedente era avvenuta la rivoluzione scientifica, in qualche modo resa vincente dal nuovo metodo instaurato da Galilei e Newton mediante lo sviluppo mirabile della matematica. Non si doveva chiedersi perché avvenivano i movimenti della natura, bensì spiegare come avvenivano, mediante la misura delle forze impegnate in quegli eventi permessa dalla matematica. Si finì per considerare scientifico solamente ciò che si può misurare, mentre tutto il resto è favola, leggenda, poesia.
     All’inizio dell’Ottocento, con la fondazione della nuova università di Berlino operata da Wilhelm von Humboldt, si ebbe il trionfo del metodo storico-critico che consiste nell’attribuire valore di verità solamente a quei dati che vengono forniti da due fonti tra loro indipendenti che affermano la stessa cosa. Per quanto riguarda la Bibbia, quasi tutte le sue affermazioni non sono suffragate da fonti extra-bibliche e perciò non hanno valore storico. La Bibbia fu equiparata ai poemi omerici e ai miti di fondazione delle religioni più varie. Intanto, le scienze della natura facevano progressi travolgenti. L’età del mondo fu calcolata dalla geologia prima in milioni e poi miliardi di anni. I resti di animali scomparsi da milioni di anni come i dinosauri inducevano a pensare come molto probabile l’evoluzione di tutti gli esseri  -piante, animali, uomo- a partire dalla materia dotata di tensione che induceva il movimento evolutivo. La storia testimoniata da fonti scritte occupava un piccolo segmento, perché il segmento maggiore era formato dagli uomini ancora privi della scrittura. Poiché si cercavano prove evidenti di ogni affermazione, vennero costruite le epoche storiche partendo del paleolitico, quando gli uomini erano in grado di scheggiare rozzamente le pietre con primitivi strumenti di lavoro; seguita dall’epoca neolitica quando i manufatti appaiono molto meglio trattati. Poi avvenne la fusione dei metalli più teneri come il rame e lo stagno, che associati formano il bronzo. Infine la tecnologia permise la fusione del metallo più diffuso in natura ma anche il più esigente in fatto di temperatura, il ferro che opportunamente trattato permette di ottenere l’acciaio.
     L’Ottocento è anche il secolo della storia. L’archeologia permise di riportare alla luce i resti di antiche civiltà; la scrittura delle lingue più antiche fu decifrata e furono tradotti e letti i poemi più antichi dell’umanità, in particolare la letteratura dell’antico Egitto e quella dei popoli della Mesopotamia. Giunti a questo punto, si finì per affermare che la Bibbia aveva dei precedenti nelle culture egiziana e mesopotamica, molto più antichi della cultura ebraica, condensata nella Bibbia, unico frutto di un piccolo popolo che avrebbe utilizzato le opere di quei grandi popoli per costruire la propria tradizione, peraltro senza lo splendore dell’architettura e delle altre arti figurative. Alla fine dell’Ottocento, lo studio della Bibbia riprese vigore, ma sempre subordinato alle esigenze del metodo storico-critico. Anche il Nuovo Testamento fu vivisezionato alla ricerca delle fonti che l’avevano generato. Venne posta in dubbio l’esistenza storica di Cristo, perché non compare con rilievo sufficiente nelle fonti pagane del tempo. Il Vangelo di Giovanni fu attribuito al III secolo perché solamente nell’epoca di Plotino si sarebbe impiegato il termine logos. Insomma, il Cristo della storia sarebbe un mito e i Vangeli avrebbero proposto un Cristo della fede, elaborato dalla comunità cristiana. Il fatto capitale è la resurrezione di Cristo, ma poiché essa non ammette dimostrazione scientifica, misurabile, certamente deve trattarsi di un mito. E perciò, se un fantomatico profeta di nome Gesù è esistito, è morto e tale sarebbe rimasto, ma i suoi discepoli, dopo un primo smarrimento, avrebbero sentito rinascere nel loro cuore la fiducia nel suo insegnamento e l’avrebbero proclamato risorto.
     In realtà, la ricerca scientifica progrediva. In Egitto, il clima asciutto ha permesso di ritrovare papiri che la paleografia riesce a datare con notevole precisione, con uno scarto in più o in meno di circa dieci anni. Fu trovata una sezione piuttosto ampia del Vangelo di Giovanni datato al 117. Perciò, verso la data indicata, un manoscritto del Vangelo di Giovanni era tanto diffuso da comparire in Egitto, usato per un certo tempo e poi scartato per vari motivi, finendo in una discarica. La scoperta più clamorosa del XX secolo è avvenuta nei pressi del Mar Morto, nel 1947 e anni seguenti, quando furono ritrovati alcuni rotoli di pelle col testo di Isaia per intero e frammenti di molti altri testi della Bibbia: si sa con certezza che gli Esseni, che avevano una comunità monastica in quella zona, sigillarono quelle grotte al più tardi nell’anno 68. Un piccolo frammento di papiro, di diciassette lettere greche distribuite su quattro righe, è stato attribuito al Vangelo di Marco che perciò sarebbe stato presente all’interno di una comunità non cristiana ancor prima dell’anno indicato.
     Un poco alla volta si comprese che il divario tra il Cristo della storia e il Cristo della fede poteva essere colmato. Per esempio, nel Vangelo di Marco compare la vicenda della tempesta sedata, affermando che Gesù dormiva a poppa della barca “su un cuscino” (Cfr Mc 4, 38). La notizia è del tutto inutile, ma secondo molti critici è frutto di “autopsia” ossia di aver visto la scena e perciò di poterla riferire con l’evidenza della memoria visiva. Quando Andrea e Giovanni andarono per la prima volta a casa di Gesù, ricordano che “era circa l’ora decima” (cfr Gv 1, 39), ossia le quattro del pomeriggio, ancora una volta si tratta di una notizia inutile, che può avere origine dalla memoria fortemente suggestionata dall’evento, piuttosto che dalla libera invenzione della fantasia di un romanziere.
     Attualmente nessuno storico mette in dubbio l’esistenza storica di Cristo, anche se sono molti coloro che negano la sua natura divina, anche per giustificare la mancata adesione al cristianesimo. Si trascura il fatto che il metodo storico-critico, o quello della misurabilità scientifica, possono applicarsi solamente a realtà fisiche che escludono la loro dipendenza da realtà non misurabili. Il dato fondamentale della Bibbia è che tutte le cose sono state create da Dio. Negando Dio come elemento non misurabile, segue che le scienze positive non tengano in alcun conto tale ipotesi e reagiscono vivacemente a ogni intrusione del soprannaturale all’interno della loro disciplina. La fisica, che tra le scienze della natura appare la più avanzata, afferma di poter spiegare l’universo con le ordinarie leggi finora trovate. La cosmologia riesce a immaginare tutto l’universo concentrato in una sfera del diametro di un pallone di calcio, alla temperatura di duecento miliardi di gradi, con pressioni da capogiro, con uno scarto di poche frazioni di secondo prima del grande scoppio da cui ha avuto origine tutto l’universo. Se si arrischia a suggerire che questa mirabile costruzione dell’intelligenza umana esige una razionalità superiore, ossia postula un progetto circa l’universo dotato delle leggi di sviluppo appena accennate, esplode la protesta di gran parte degli scienziati che ribadiscono le tesi del caso, della necessità, dell’evoluzione, del successo degli eventi favorevoli alla vita ecc. La difesa della concezione atea viene condotta con metodi fideistici, dimenticando che fin dai tempi di Kant, se non si può dimostrare con la ragione l’esistenza di Dio, perché non si tratta di un problema fenomenico che ammette prova evidente, a minor ragione si può dimostrare la non esistenza di Dio, dal momento che ancora una volta non si tratta di un problema fenomenico con soluzione fisica. La termodinamica che ammette solamente il passaggio del più caldo al meno caldo, col principio dell’entropia affermante che l’universo è destinato a bruciare tutti i combustibili con una fine vicina allo zero assoluto rimane il fondamento della cosmologia attuale: perciò l’ipotesi di un universo eterno, come pensavano gli antichi, con perenne ritorno all’identico, cade. Rimane da spiegare questa grandiosa fiammata da cui tutto deriva, destinata a spegnersi tra alcuni miliardi di anni, senza causa plausibile della sua esistenza, in luogo del nulla che sarebbe molto più semplice da ammettere.
     Il papa Benedetto XVI, il maggiore teologo del XX secolo, si colloca alla fine della parabola descritta dalla cultura occidentale a partire dalla fine del secolo XVIII. Nei due secoli successivi è stato celebrato il trionfo delle scienze positive che hanno indotto l’uomo a ritenersi signore della natura, in grado di padroneggiare l’incredibile forza contenuta nell’atomo, ossia ancora una volta l’uomo ha cercato affermarsi come uguale a Dio. Con l’ingegneria sociale si è voluto creare l’uomo nuovo che fa a meno di Dio, a costo di orrori inenarrabili che avrebbero dovuto strappare ogni dipendenza dell’umanità da Dio. La caduta delle ideologie del XX secolo non ha segnato il ritorno dell’umanità a Dio, bensì ha preso a percorrere la parabola del nichilismo, riservando la razionalità di tipo matematico alle scienze della natura (con descrizioni fisico-matematiche che la gente non comprende), lasciando in tutto il resto l’umanità in preda ai capricci di una libertà senza vincoli considerata l’unico valore da difendere. Perciò, è in un ambiente come quello descritto che il papa Ratzinger ha proposto i suoi tre volumi sul mistero di Gesù di Nazaret. In modo brillante ha esaminato e risolto le contraddizioni storiche avverse ad ammettere la sua esistenza in terra e la sua divinità in quanto Figlio di Dio, una pretesa inaudita che esige l’assenso di fede, ossia credere in forza del fatto che Dio è amore e che non può imbrogliare i suoi fedeli. Non si crede perché si è compreso fino in fondo qualcosa, bensì perché si ha fiducia in chi propone l’atto di fede perché da lui non può venire inganno.
     Rimane da completare il quadro. Tre sono le religioni monoteistiche. Alcuni affermano che, senza saperlo, esse adorano lo stesso Dio. Forse è vero che le tre religioni monoteistiche - cristiani, ebrei, musulmani - dovrebbero unire i loro sforzi avendo un nemico comune, l’ateismo, ma non si può affermare che sono varianti della stessa religione.
     L’ebraismo ha rifiutato Cristo come se fosse un sobillatore del popolo: egli è stato condannato a morte come bestemmiatore, anche se nel corso del processo non furono trovati testimoni attendibili. Finì per prevalere la considerazione politica ossia esser meglio che uno solo, anche se innocente, perisse per il popolo, piuttosto che subire la distruzione del popolo. Il tentativo di liberarsi dai Romani, iniziato nel 66 e concluso drammaticamente nel 70 al tempo di Tito e Vespasiano, comportò la distruzione del popolo ebraico e la sua dispersione (diaspora) nel mondo. Per gli ebrei attuali, Cristo rimane un semplice uomo che tuttavia ha impartito un insegnamento del tutto analogo a quello dei maggiori rabbini della sua epoca. Gli ebrei pii perciò, senza rinnegare le vere e proprie calunnie contenute nel Talmud, rifiutano Cristo perché non ha collocato in primo piano, la sua famiglia e il suo popolo. Esistono, a rigore, gli ebrei “messianici”, che riconoscono il Cristo come il Messia e che però vogliono rimanere ebrei e non essere chiamati cristiani, anche perché non sono ben visti dagli ebrei ortodossi e vivono un po’ nascostamente.
     I musulmani rifiutano Cristo, ma ammettono che è stato un grande profeta, onorano sua madre Maria, proclamandola vergine, ma non Madre di Dio: se i cristiani si sottomettessero agli islamici, potrebbero continuare a esistere, anche se sarebbero considerati in errore nell’interpretare la Bibbia. Infatti, l’ultimo e supremo profeta, è stato Maometto, dopo il quale non è ammissibile alcuna nuova rivelazione. I musulmani non concedono altra lettura del Corano che non sia la sua ripetizione letterale, non importa se compresa o meno dal fedele, che con atti esterni deve limitarsi a confermare la sua condizione di sottomesso all’Islam. Perciò è implicita la teoria della doppia verità: se tutto ciò che è contenuto nel Corano è vero, qualora le scienze trovassero qualcosa in contrasto col Corano o nel Corano, si deve ammettere che le due verità non possono essere considerate contrapposte, ma debbono vivere entrambe. Un atteggiamento questo che di fatto ha paralizzato da sempre la filosofia e la teologia islamiche.
Il cristianesimo, o per meglio dire il cattolicesimo, stante il declino di quasi tutte le comunità protestanti uscite dalla rivoluzione di Lutero, ha accettato la sfida del metodo storico-critico e i tre volumi di papa Benedetto XVI su Gesù possono testimoniare la piena plausibilità della fede cattolica che resiste ad ogni confronto con le scienze della natura, con la filosofia, nel caso che ciò avvenga senza pregiudizi.

La mentalità astorica


Nel corso del XX secolo il contesto culturale ha vissuto un profondo cambiamento, ma se da un lato il pericolo di una riduzione della storia ad una analisi neutrale dei documenti è stato in parte superato dagli stessi storici, dall’altro questo stesso atteggiamento, ancora presente, ha finito per produrre una mentalità astorica. Non si tratta più solo di affrontare una storiografia ostile al cristianesimo e alla Chiesa, ma sempre di più una mentalità per la quale la storia è qualcosa di “inutile”.
Oggi è la storiografia stessa ad attraversare una crisi più seria, dovendo lottare per la propria esistenza in una società plasmata dal positivismo e dal materialismo. Entrambe queste ideologie hanno condotto ad uno sfrenato entusiasmo per il progresso che, alimentato da spettacolari scoperte e successi tecnologici, malgrado le disastrose esperienze del secolo scorso, determina la concezione della vita di ampi settori della società. Il passato appare, così, solo come uno sfondo buio, sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse […]. Tipico di questa mentalità è il disinteresse per la storia […]. Ciò produce una società che, dimentica del proprio passato e quindi sprovvista di criteri acquisiti attraverso l’esperienza, non è più in grado di progettare un’armonica convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi futuri. Tale società si presenta particolarmente vulnerabile alla manipolazione ideologica.[…]. Prodotto inevitabile di tale sviluppo è una società ignara del proprio passato e quindi priva di memoria storica. […]. Come la perdita della memoria provoca nell’individuo la perdita dell’identità, in modo analogo questo fenomeno si verifica per la Società nel suo complesso”. (Benedetto XVI, “Discorso al Pontificio Comitato di Scienze storiche”, 7 marzo 2008)
Tenendo presente queste parole di Benedetto XVI, si capisce bene perché è di vitale importanza, per il nostro presente, conoscere bene la nostra storia e quella del pensiero occidentale. La singola persona e analogamente il popolo cristiano,  che non conosca adeguatamente la propria tradizione è come se non avesse consistenza culturale e quindi responsabilità (di trasmettere ai propri figli e agli altri il patrimonio culturale ereditato). Privare una persona del significato della sua storia e della sua cultura è il primo passo per iniziare a renderla schiava (dei mass media per esempio) e di non avere presenza significativa e incisiva nella società. Sarà ridotta a pura istintività e reattività irriflessiva di fronte ai problemi della vita e dei rapporti con gli altri. Sarà un uomo o un popolo che agisce senza sapere le ragioni del suo agire e che così perde la comprensione del valore della propria vita. La sua esistenza rischia di essere senza significato per se e per gli altri. (Tratto da: Luigi Negri “Il cammino della Chiesa” ed. Ares Milano 2015)

"Dominus Iesus" di Joseph Card. Ratzinger


Al Prefetto Joseph Card. Ratzinger siamo debitori di quel contributo fondamentale per la ripresa di identità  dell’avvenimento cristiano che è la Dichiarazione "Dominus Iesus" circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, per chiarire la posizione della fede cattolica nei confronti delle filosofie e delle pseudo religioni con le quali ci stiamo confrontando nel modernismo. Riportiamo qui alcuni suoi passi.

1.     Il Signore Gesù, prima di ascendere al cielo, affidò ai suoi discepoli (tutti noi) il mandato di annunciare il Vangelo al mondo intero e di battezzare tutte le nazioni: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,15-16); «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18-20; cf. anche Lc 24,46-48; Gv17,18; 20,21; At 1,8).
2.     La Chiesa, nel corso dei secoli, ha proclamato e testimoniato con fedeltà il Vangelo di Gesù. Al termine del secondo millennio cristiano, però, questa missione è ancora lontana dal suo compimento. È per questo più che mai attuale oggi il grido dell'apostolo Paolo sull'impegno missionario di ogni battezzato: «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è una necessità che mi si impone: guai a me se non predicassi il vangelo!» (1 Cor9,16). Ciò spiega la particolare attenzione che il Magistero ha dedicato a motivare e a sostenere la missione evangelizzatrice della Chiesa, soprattutto in rapporto alle tradizioni religiose del mondo. […] Proseguendo su questa linea, l'impegno ecclesiale di annunciare Gesù Cristo, «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), si avvale oggi anche della pratica del dialogo interreligioso, che certo non sostituisce, ma accompagna la missio ad gentes. […]. Tale dialogo, che fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa,  comporta un atteggiamento di comprensione e un rapporto di conoscenza reciproca e di mutuo arricchimento, nell'obbedienza alla verità e nel rispetto della libertà.
3.     […] Questa dichiarazione interviene per richiamare ai Vescovi, ai teologi e a tutti i fedeli cattolici alcuni contenuti dottrinali imprescindibili, che possano aiutare la riflessione teologica a maturare soluzioni conformi al dato di fede e rispondenti alle urgenze culturali contemporanee. […] Per questo la Dichiarazione riprende la dottrina insegnata in precedenti documenti del Magistero, con l'intento di ribadire le verità , che fanno parte del patrimonio di fede della Chiesa.
4.     Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Di conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità , pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo.
Le radici di queste affermazioni sono da ricercarsi in alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata. Se ne possono segnalare alcuni: la convinzione della inafferrabilità e inesprimibilità della verità divina, nemmeno da parte della rivelazione cristiana; l'atteggiamento relativistico nei confronti della verità , per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale che si pone tra mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo di chi, considerando la ragione come unica fonte di conoscenza, diventa « incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere» [8]; la difficoltà a comprendere e ad accogliere la presenza di eventi definitivi ed escatologici nella storia; lo svuotamento metafisico dell'evento dell'incarnazione storica del Logos eterno, ridotto a mero apparire di Dio nella storia; l'eclettismo di chi, nella ricerca teologica, assume idee derivate da differenti contesti filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica, né alla loro compatibilità con la verità cristiana; la tendenza, infine, a leggere e interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa.
In base a tali presupposti, che si presentano con sfumature diverse, talvolta come affermazioni e talvolta come ipotesi, vengono elaborate alcune proposte teologiche, in cui la rivelazione cristiana e il mistero di Gesù Cristo e della Chiesa perdono il loro carattere di verità assoluta e di universalità salvifica, o almeno si getta su di essi un'ombra di dubbio e di insicurezza.
5.     Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo.
Deve essere, infatti,  fermamente creduta l'affermazione che nel mistero di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, il quale è « la via, la verità e la vita » (Gv 14,6), si dà la rivelazione della pienezza della verità divina: « Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare » (Mt 11,27); « Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato » (Gv 1,18); « È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza » (Col 2,9‑10).
Fedele alla parola di Dio, il Concilio Vaticano II insegna: « La profonda verità , poi, sia su Dio sia sulla salvezza dell'uomo, risplende a noi per mezzo di questa rivelazione nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione ». E ribadisce: « Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede il Padre (cf. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e manifestazione di Sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione dai morti e, infine, con l'invio dello Spirito di verità compie e completa la rivelazione e la conferma con la testimonianza divina [...]. L'economia cristiana, dunque, in quanto è l'alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non si dovrà attendere alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cf. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13) ».
Per questo l'enciclica Redemptoris missio ripropone alla Chiesa il compito di proclamare il Vangelo, come pienezza della verità : « In questa Parola definitiva della sua rivelazione, Dio si è fatto conoscere nel modo più pieno: egli ha detto all'umanità chi è. E questa autorivelazione definitiva di Dio è il motivo fondamentale per cui la Chiesa è per sua natura missionaria. Essa non può non proclamare il vangelo, cioè la pienezza della verità che Dio ci ha fatto conoscere intorno a se stesso» Solo la rivelazione di Gesù Cristo, quindi, « immette nella nostra storia una verità universale e ultima, che provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai ».
6.     È quindi contraria alla fede della Chiesa la tesi circa il carattere limitato, incompleto e imperfetto della rivelazione di Gesù Cristo, che sarebbe complementare a quella presente nelle altre religioni.
13.  È anche ricorrente la tesi che nega l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo. Questa posizione non ha alcun fondamento biblico. Infatti, deve essere fermamente creduta, come dato perenne della fede della Chiesa, la verità di Gesù Cristo, Figlio di Dio, Signore e unico salvatore, che nel suo evento di incarnazione, morte e risurrezione ha portato a compimento la storia della salvezza, che ha in lui la sua pienezza e il suo centro.
16.  Il Signore Gesù, unico Salvatore, non stabilì una semplice comunità di discepoli, ma costituì la Chiesa come mistero salvifico: Egli stesso è nella Chiesa e la Chiesa è in Lui (cf.Gv 15,1ss.; Gal 3,28; Ef 4,15-16; At 9,5); perciò, la pienezza del mistero salvifico di Cristo appartiene anche alla Chiesa, inseparabilmente unita al suo Signore. Gesù Cristo, infatti, continua la sua presenza e la sua opera di salvezza nella Chiesa ed attraverso la Chiesa (cf.Col 1,24-27), che è suo Corpo (cf. 1 Cor 12, 12-13.27; Col 1,18). E così come il capo e le membra di un corpo vivo pur non identificandosi sono inseparabili, Cristo e la Chiesa non possono essere confusi ma neanche separati, e costituiscono un unico « Cristo totale ». Questa stessa inseparabilità viene espressa nel Nuovo Testamento anche mediante l'analogia della Chiesa come Sposa di Cristo (cf. 2 Cor 11,2; Ef 5,25-29; Ap 21,2.9
17.  Esiste quindi un'unica Chiesa di Cristo, che sussiste nella Chiesa Cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui [58]. Le Chiese che, pur non essendo in perfetta comunione con la Chiesa Cattolica, restano unite ad essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e la valida Eucaristia, sono vere Chiese particolari [59]. Perciò anche in queste Chiese è presente e operante la Chiesa di Cristo, sebbene manchi la piena comunione con la Chiesa cattolica, in quanto non accettano la dottrina cattolica del Primato che, secondo il volere di Dio, il Vescovo di Roma oggettivamente ha ed esercita su tutta la Chiesa [60].
Invece le comunità ecclesiali che non hanno conservato l'Episcopato valido e la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico [61], non sono Chiese in senso proprio; tuttavia i battezzati in queste comunità sono dal Battesimo incorporati a Cristo e, perciò, sono in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa [62]. Il Battesimo infatti di per sé tende al completo sviluppo della vita in Cristo mediante l'integra professione di fede, l'Eucaristia e la piena comunione nella Chiesa [63].
« Non possono, quindi, i fedeli immaginarsi la Chiesa di Cristo come la somma – differenziata ed in qualche modo unitaria insieme – delle Chiese e Comunità ecclesiali; né hanno facoltà di pensare che la Chiesa di Cristo oggi non esista più in alcun luogo e che, perciò, debba esser soltanto oggetto di ricerca da parte di tutte le Chiese e comunità » [64]. Infatti «gli elementi di questa Chiesa già data esistono, congiunti nella loro pienezza, nella Chiesa Cattolica e, senza tale pienezza, nelle altre Comunità » [65]. «Perciò le stesse Chiese e comunità separate, quantunque crediamo che abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso. Poiché lo Spirito di Cristo non recusa di servirsi di esse come strumenti di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità che è stata affidata alla Chiesa Cattolica» [66].
18.  La missione della Chiesa è « di annunciare il regno di Cristo e di Dio e di instaurarlo tra tutte le genti; di questo Regno essa costituisce sulla terra il germe e l'inizio » [68]. Da un lato, la Chiesa è « sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità del genere umano » [69]; essa è quindi segno e strumento del Regno: chiamata ad annunciarlo e ad instaurarlo. Dall'altro lato, la Chiesa è il « popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo » [70]; essa è dunque « il regno di Cristo già presente in mistero » [71], costituendone perciò il germe e l'inizio. Il Regno di Dio ha infatti una dimensione escatologica: è una realtà presente nel tempo, ma la sua piena realizzazione arriverà soltanto col finire o compimento della storia [72].
23.  La presente Dichiarazione, nel riproporre e chiarire alcune verità di fede, ha inteso seguire l'esempio dell'Apostolo Paolo ai fedeli di Corinto: « Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto » (1 Cor 15,3). Di fronte ad alcune proposte problematiche o anche erronee, la riflessione teologica è chiamata a riconfermare la fede della Chiesa e a dare ragione della sua speranza in modo convincente ed efficace.
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nell'Udienza concessa il giorno 16 giugno 2000 al sottoscritto Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, con certa scienza e con la sua autorità apostolica ha ratificato e confermato questa Dichiarazione, decisa nella Sessione Plenaria, e ne ha ordinato la pubblicazione.




[…] In tanta confusione di opinioni, Ci reca un po' di consolazione il vedere coloro che un tempo erano stati educati nei principî del razionalismo, ritornare oggi, non di rado, alle sorgenti della verità rivelata, e riconoscere e professare la parola di Dio, conservata nella Sacra Scrittura, come fondamento della Teologia. Nello stesso tempo però reca dispiacere il fatto che non pochi di essi, quanto più fermamente aderiscono alla parola di Dio, tanto più sminuiscono il valore della ragione umana, e quanto più volentieri innalzano l'autorità di Dio Rivelatore, tanto più aspramente disprezzano il Magistero della Chiesa, istituito da Cristo Signore per custodire e interpretare le verità rivelate da Dio. Questo disprezzo non solo è in aperta contraddizione con la Sacra Scrittura, ma si manifesta falso anche con la stessa esperienza. Poiché frequentemente gli stessi "dissidenti" si lamentano in pubblico della discordia che regna fra di loro nel campo dogmatico, cosicché, pur senza volerlo, riconoscono la necessità di un vivo Magistero.
Ora queste tendenze, che più o meno deviano dalla retta strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi e dai teologi cattolici, che hanno il grave còmpito di difendere le verità divine ed umane e di farle penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare se prima non sono bene conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni si nasconde un po' di verità, sia infine, perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche che teologiche.

Se i nostri cultori di filosofia e di teologia da queste dottrine, esaminate con cautela, cercassero solo di cogliere i detti frutti, non vi sarebbe motivo perché il Magistero della Chiesa avesse a interloquire. Ma, benché Noi sappiamo bene che gli insegnanti e i dotti cattolici in genere si guardano da tali errori, è noto però che non mancano nemmeno oggi, come ai tempi apostolici, […] coloro che, amanti più del conveniente delle novità e timorosi di essere ritenuti ignoranti delle scoperte fatte dalla scienza in quest'epoca di progresso, cercano di sottrarsi alla direzione del sacro Magistero e perciò sono nel pericolo di allontanarsi insensibilmente dalle verità Rivelate e di trarre in errore anche gli altri. […]                                        "Humani Generis" -  Roma, 22 del mese di Agosto dell'anno 1950






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