ma l'uomo e il suo destino sono
IL NEOPOSITIVISMO
Movimento filosofico (anche detto positivismo logico o empirismo logico) sorto, sviluppatosi ed
esauritosi tra il terzo e il sesto decennio del XX secolo.
La filosofia neopositivista si richiama al positivismo ottocentesco, alla sua tesi del ruolo privilegiato ricoperto dalle scienze sperimentali nel processo di acquisizione di conoscenza, nonché alle sue istanze anti-metafisiche. La dizione ‘positivismo logico’ implica che l’attuazione del programma di rifondazione della conoscenza su basi empiriche doveva sfruttare gli strumenti messi a disposizione dai rivoluzionari sviluppi ottenuti nel campo della logica. Tale connubio tra positivismo e logica era reso possibile dalle tesi esposte da Ludvig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922), una delle opere da cui il Circolo di Vienna ebbe a trarre grande stimolo teorico nonostante il suo autore rifiutasse recisamente di farne parte.
Nel Tractatus, Wittgenstein
presenta un’immagine della relazione tra linguaggio e mondo basata su un
isomorfismo, sicché una proposizione ha
senso quando la sua forma raffigura un fatto possibile, ed è vera quando questo
fatto accade davvero.
Sfruttando tale indicazione e combinandola con l’idea che
alla base dell’attività dello scienziato vi sono dei procedimenti induttivi, i
neopositivisti formulavano il criterio empirico di significanza, secondo cui una proposizione ha significato se, e
solo se, è verificabile, stabilendo quindi che il significato di una
proposizione è il metodo della sua verifica empirica, metodo in mancanza del
quale la proposizione è priva di significato cognitivo. Con ciò la tradizionale
opposizione positivistica alla metafisica trovava un criterio decisivo: una
teoria metafisica non è falsa, bensì “senza senso” da un punto di vista
cognitivo; essa conserverebbe unicamente un significato emotivo.
Per il neopositivismo, la metafisica, che aveva interessato fino
ad ora tutta quanta la filosofia, non aveva in pratica nessun senso. Questo
sforzo radicale di attaccare da una parte la metafisica e dall’altra di
sostenere che in fondo la vera ragione umana è inverata solo nella razionalità
scientifica, è il sacrosanto obiettivo del neopositivismo. L’uomo può essere
uomo, solo quando la sua ragione coincide con la ragione scientifica. È
talmente radicale l’approccio del neopositivismo che si vogliono scartare anche
tutte quelle dimensioni emotive, storiche, sociali, intuitive, spirituali, ecc.
che pur fanno parte della storia dell’uomo da sempre. L’uomo se vuole essere se
stesso deve ragionare solo in maniera scientifica, non c’è altro modo di
rapportarsi alla realtà. Questo non dipende dagli usi, dai costumi, dalla
società e da eventuali sue convinzioni intime morali o spirituali o
sentimentali. Tutte le forme di cultura che hanno preceduto il neopositivismo
vengono cassate, cancellate, non prese in considerazione nemmeno come fatto
storico e culturale. La ricerca della verità e di un senso che sta dietro le
cose spirituali, come in quelle materiali è questione azzerata. Le relazioni: mondo, Dio, uomo non
interessano, sono una perdita di tempo. Per i neopositivisti la realtà non ha
un senso in sé stessa, ma glielo diamo noi con la nostra capacità di usare gli
strumenti più adatti per la sua conoscenza scientifica. C’è quindi un nucleo
incontrovertibile, una dimensione razionale e scientifica, che ha i caratteri
della verità intangibile e definitiva con la quale il neopositivismo intende
fondare la concezione scientifica del mondo.
L’800 vedeva la scienza in grado di dire sempre la verità. Nel
‘900 la scienza invece capisce che tutto quello che dice non è sempre
incontrovertibile (ha già avuto delusioni in merito), che quello che dice può
dimostrarsi sbagliato, che quello che dice può essere falsificabile. Anzi sa
che proprio da questa possibilità di falsificazione può poi venire un vero
progresso per la scienza. Si deve però tener ferma la sola lettura razionale
della realtà. Questo è il punto di partenza del neopositivismo.
Come si arriva a questo? Primo punto è che si arriva a questa
determinazione per l’esperienza. Ogni
conoscenza non può che venire dall’esperienza, sensibile ed epistemica.
Cioè noi conosciamo solo ciò che possiamo conoscere, che possiamo toccare e
sperimentare.
Secondo punto è l’intersoggettività del sapere. Vuol dire che la conoscenza diventa sapere quando è anche
condivisa da altri. Quando la conoscenza è condivisibile allora è
accettabile. Caratteristica del neopositivismo è che esso è esclusivo, non
ammette altro che il suo punto di vista, il resto non esiste. Cioè non si può
contrapporgli qualcosa per poi discuterne e ricavare qualcosa di migliore.
Veniamo infatti da una storia di scontri fra idee e architetture
filosofiche che si combattono fra loro. Quando parlavamo di Socrate si diceva
che in fondo lui cercava un elemento di unione fra gli uomini sui principi
universali. Noi possiamo comunicare e capirci se possiamo riferirci agli
universali. Concetti condivisi da tutti. Questo modo di pensare il
neopositivismo lo sposta esclusivamente su ciò che noi conosciamo e che
possiamo conoscere, che possiamo toccare, sperimentare e condividere con gli
altri.
Ricordiamo la divisione dell’umanità tra gli “svegli” e i
“dormienti” che proponeva la filosofia di Eraclìto, cioè la presenza di pochi
eletti che avevano capito la realtà, mentre la massa ignorante era esclusa da
questa comprensione. Il neopositivismo invece punta sull’intersoggettività del
sapere, sulla condivisione del sapere con tutti.
Per lo scienziato neopositivista non c’è niente che non si possa
conoscere, tutto può essere conosciuto. Non ci sono zone insondabili della
realtà. La realtà, il mondo è tutto in
superficie, perché se io penso che ci sia una zona inesplorabile è assurdo che
la vada a cercare, perché non avrò mai un riscontro empirico e questo fa
decadere la mia ragione scientifica. Tutto quello che io posso conoscere lo
conosco o lo conoscerò. Il nucleo fondante della “critica alla ragion pura” di
Kant era: ma la metafisica si può considerare come scienza? E la risposta era
no. Perché noi non possiamo avere conoscenza di ciò che non ci è dato dai sensi
e che cogliamo con le categorie di spazio e tempo. Quando si bypassa
l’esperienza sensibile non si può avere conoscenza. Con Kant la metafisica veniva
poi recuperata in ambito morale, ma questo non vale per i neopositivisti che estremizzano
la cosa dicendo che proprio non dobbiamo andare in nessun modo e in nessun caso
oltre ciò che non è possibile conoscere con la ragione, non ha nemmeno senso
parlarne.
Il neopositivismo si trova in sintonia con tutto quel mondo
culturale progressista e ultra progressista moderno che sta sradicando dal
pensiero tutte quelle categorie filosofiche e teologiche che hanno
caratterizzato i pensatori greci, quelli medioevali e financo l’illuminismo, il
positivismo, l’empirismo, ecc. tutti quei movimenti di emancipazione dell’uomo
che di fatto non lo portavano a sganciarsi definitivamente dalle vecchie
concezioni del sapere.
Wittgenstein e il neopositivismo
Nato
a Vienna il 26 aprile 1889, mostra un ingegno precocissimo per tutte le
attività che hanno in qualche modo a che fare con l'intelletto e con le materie
astratte.
Prima di dedicarsi interamente alla filosofia,
si laurea in Ingegneria e sviluppa interessi molto legati alla logica e alla
matematica. La sua carriera professionale è disordinata quanto la sua vita,
tanto che il suo percorso accademico contempla periodi passati a insegnare come
Maestro nelle scuole elementari tanto quanto cattedre di Ingegneria al
Politecnico.
Unico
libro pubblicato in vita da Wittgenstein fu il Tractatus logico-philosophicus,
dedicato alla memoria del suo amico David
Pinsent, la cui prefazione venne curata dal filosofo e matematico Bertrand Russell, suo maestro; tale
libro è considerato una delle opere filosofiche più importanti del Novecento. Le raccolte di appunti, le
lezioni, i diari, le lettere – che costituiscono tutto il resto della sua
vastissima opera, detta nel complesso il
secondo Wittgenstein –
vennero pLudwig Josef Johann Wittgenstein (Vienna, 1889 – Cambridge, 1951) è stato un filosofo, ingegnere e logico austriaco, autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio, è considerato da molti, specialmente nel mondo accademico anglosassone, il massimo pensatore del XX secolo. Ludwig Wittgenstein è una figura emblematica della filosofia del '900. Nella sua opera complessa e multiforme Wittgenstein ha spaziato all'interno di varie discipline occupandosi di logica, di matematica, di filosofia del linguaggio e di psicologia. Pubblicate solo dopo la sua morte.
Ludwig Wittgenstein
si muove a suo agio in questo contesto, anche se è più un filosofo del
linguaggio, perché introduce un principio che è il principio di verificazione. Wittgenstein si rifà a diversi pensatori che abbiamo già trattato sulla
conoscenza a priori e a posteriori del mondo e dice: i giudizi che noi
esprimiamo a priori, quelli che derivano dalla nostra sensibilità, in fondo non
ci dicono nulla.
Se io dico “piove” o “non piove”,
do un giudizio analitico a priori che in fondo è sempre vero. Wittgenstein dice
che posso fare solo delle tautologie (ripetere quanto già detto),
perché dal punto di vista scientifico questo non mi produce nulla. Anzi non si
possono nemmeno dedurre delle cose da principi a priori. Non posso dire che
siccome esiste il mondo allora deve esistere Dio. Non posso dire che siccome
esiste un certo evento allora ne deduco un’altra cosa.
La verità è tale solo se c’è un
confronto e una verifica empirica, principio di verificazione. Se io esprimo un
giudizio sulla realtà e questo giudizio è falsificabile o verificabile
empiricamente nella realtà allora a questo punto il giudizio ha un senso. Ma se io voglio
esprimere un giudizio sulla realtà, ma questo giudizio non è verificabile, né
falsificabile, allora questo giudizio non ha senso, non dovrebbe nemmeno essere
nominato. Questo non vuol dire che la metafisica è falsa, vuol solo dire che la
metafisica non ha senso, anzi non dovrebbe nemmeno essere posta la domanda.
Wittgenstein dice che non esiste qualcosa che non si può conoscere, perché se
tutto si può conoscere, ciò che non si può conoscere non esiste.
Quindi tutti i massimi problemi
esistenziali, quelli che avevano mosso i primi filosofi e tutta la storia della
filosofia, e che noi pensiamo qui ed ora della nostra vita, dalla nostra
esistenza, non hanno senso è inutile pensarci sopra. Sono problemi privi di
significato, perché non possono avere una risposta, una risposta che provenga
da una valida soluzione scientifica, pratica ed empirica. Allora Wittgenstein
dice: bisogna fare come per l’analisi logica del linguaggio. Quando faccio
metafisica utilizzo parole che poi non riesco a giustificare perché faccio un
errore nel modo concreto di costruire la frase.
“il metodo corretto della
filosofia, dice Wittgenstein, sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò
che può dirsi. Posso dire solo cose che riguardano la scienza naturale. Dunque
qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare. Ogni volta che altri voglia
dire qualcosa di metafisico, mostrargli che a certi segni nelle sue
proposizioni egli non ha dato significato alcuno. I problemi possono essere
risolti solo dalla scienza. La risoluzione del problema della vita si scorge
allo sparire di essa, cioè non c’è nessun problema della vita, dimenticatelo.
Tutto passa e dobbiamo morire. Il neopositivismo vede il divenire come il regno
del progresso e della libertà, di ciò che si deve realizzare, di ciò che si
deve scoprire”.
Si è entrati in un contesto
radicale del modo di pensare, forse il più radicale incontrato fino ad ora. “Su
ciò su cui non si può parlare si deve tacere” Wittgenstein.
Tutta la scienza moderna poi si
relativizza e abbatte ogni residuo di metafisica diffondendo un secolarismo
così massiccio da influenzare anche la Chiesa Cattolica (diciamo di tentare di
secolarizzare la stessa Chiesa Cattolica, il famoso fumo nel tempio di Paolo VI). Questa filosofia neopositivista ha
ormai permeato ogni ambiente ed ogni contesto per cui anche chi non sa nemmeno
che è esistito Wittgenstein tende a ragionare così.
Ma allora in questa realtà del ‘900 cosa è rimasto di
cristiano? Cosa è rimasto di cattolico? Diciamo che nonostante che la fede sembra
stia per dissolversi nel nulla continua però imperterrita la lotta per
estirparla del tutto. La domanda dei più di fronte alle grandi tragedie del
‘900 ed ora a quelle del nuovo millennio è “ma Dio dov’è”. Questo sembra voler
confermare che Dio davvero non c’è più. Ma allora perché continua con così
tanta insistenza la banalizzazione di ogni pratica religiosa in Europa e
addirittura una sempre più feroce persecuzione dei cristiani nel mondo? Vuol dire
che il cristianesimo resiste ancora nonostante tutto?
Il
Crocefisso di Don Camillo
Ha ancora
senso la preghiera?
L’arrabbiatura di don Camillo è di fatto una preghiera in
cui l’irascibile parroco (a modo suo) chiede a Dio di salvare il mondo, che è
il nucleo vero e proprio della preghiera come afferma J. Ratzinger in una delle
sue numerose opere.
“Dio è buono e c’è
anche per le piccole cose e per i piccoli. Per questo ci è permesso, senza
vergognarci, di esporgli anche le nostre piccole cose (anche le arrabbiature)
[…] e attraverso esse pervenire a ciò che è il nucleo vero e proprio della
preghiera: chiedere a Dio di salvare il
mondo.
[…] dobbiamo
aver fiducia nel fatto che Lui, e Lui solo, è in grado di salvarci (ieri, oggi
e domani). Là dove noi cristiani ci allontaniamo da tale convinzione e
accediamo all’opinione che ciò lo dovremmo fare soltanto con le nostre proprie
mani; là dove non confidiamo più in Dio, là senza dubbio le nostre porte si
chiudono per Lui, e il mondo diventa ingovernabile e irredimibile (come oggi!).
Essere una persona che prega significa essere una persona
che crede. E ciò a sua volta significa: essere una persona che
spera (e che quindi fa progetti e si impegna a diffondere il bene). O, detto in
altri termini: un individuo che non crede soltanto che forse da qualche parte
esista un essere supremo di cui per altro egli non sa nulla e che, per
parte sua, non dà alcun segno di sé, ma che crede nel fatto che Dio è Dio, e
che perciò a noi è lecito sperare. Questi crede nel fatto che Dio è Dio; e
cioè, che il mondo non gli è indifferente, né che gli è scappato di mano. Ciò
significa che noi dobbiamo dischiudere (aprire) il mondo soltanto a Dio, perché
egli vuole e può agire, anche quando fa diversamente da come ci eravamo
immaginati nelle nostre preghiere”. (tratto da: J.Ratzinger “Servitori
della vostra gioia” ed. Ancora, 1989)
IL
PRAGMATISMO AMERICANO
Per pragmatismo si intende l'indirizzo filosofico contemporaneo, affermatosi a cavallo
tra XIX e XX
secolo negli Stati Uniti, secondo il quale
l'attività pratica, che agisce direttamente sulla realtà, deve avere la preminenza sulle
attività speculative, e la verità,
o la validità di una teoria è affidata alla sua verifica pratica, nella quale la
funzione fondamentale dell'intelletto è
di consentire una conoscenza obiettiva della realtà, e non è
separabile dalla funzione di consentire un'efficace azione su di essa.
Un
pragmatista avrà l’atteggiamento mentale
e il comportamento di chi privilegia la pratica e la
concretezza rispetto alla teoria, agli schemi astratti e ai principi ideali. La
pratica utilità si sostituisce al
concetto tradizionale di verità teoretica come criterio di scelta tra
diverse dottrine.
Cioè,
l’oggetto della nostra azione quali conseguenze pratiche ha? Allora la nostra concezione
di quegli effetti è la totalità della nostra concezione dell’oggetto. Nel momento
in cui noi sappiamo qual è la nostra conoscenza dell’oggetto e ne conosciamo
tutte le conseguenze pratiche, allora possiamo dire che di quell’oggetto
conosciamo tutto.
Pragmatismo
è la filosofia della prassi, teorizzata al massimo. È la filosofia
dell’utilità. Utilità non solo in termini materiali, ma anche in senso
allargato.Il pragmatismo è la filosofia dell’utilità che individua gli oggetti
in base alle loro conseguenze. Io conosco quell’oggetto se ne conosco
pienamente le sue conseguenze pratiche.
Questo
non solo è il pragmatismo americano, ma rappresenta proprio lo spirito
americano. All’inizio il pragmatismo americano era addirittura chiamato
“americanismo”, coniato poi in “pragmatismo” da Ch. S. Peirce intorno al 1872 e
i suoi esponenti sono ovviamente americani: oltre a Pierce, abbiamo W. Jam Fiske,
F.E. Abbot, O. W. Holmes, J. B. Warner, N. St. John Green, Ch. Write, William James
(psicologo) e tutti esperti in materie scientifiche. Questi illustri personaggi
infatti erano impregnati di puritanesimo, di illuminismo, di romanticismo, di
darwinismo poi in modo particolare e rappresentano il pragmatismo americano a
tutto tondo. Incarnava in pieno l’ottimismo americano. L’empirismo inglese, che
i padri pellegrini hanno portato in America, non era imbevuto delle polemiche
che invece attraversavano l’Europa fra metafisici, realisti, gnostici e
agnostici, credenti e non credenti, ecc. l’America era un paese più predisposto
e aperto a nuove filosofie.
Pragmatismo:
La filosofia delle azioni e dei fatti - Enciclopedia dei ragazzi (2006) di Paolo Casini –
I pragmatisti si
consideravano eredi dell’empirismo anglosassone, di cui ripresero e
svilupparono l’interesse per l’analisi linguistica, ancorandolo fortemente alla
realtà.
Le dispute inutili della filosofia
I pragmatisti
avevano forti riserve sul modo tradizionale di affrontare il problema della conoscenza da parte della
filosofia, riserve che emergono chiaramente dal seguente brano di William
James: «Uno scoiattolo – scrive il filosofo statunitense – è aggrappato a un
lato di un tronco di un albero, mentre dal lato opposto dell’albero si trova un
essere umano. L’osservatore cerca di vedere lo scoiattolo girando rapidamente
attorno al tronco, ma per quanto si muova velocemente lo scoiattolo si muove
altrettanto velocemente in direzione opposta, così che non è mai possibile
vederlo». Si può dire che l’uomo gira intorno allo scoiattolo o no? A due
osservatori in disaccordo sulla questione, il filosofo fa notare che la domanda
è ambigua. L’uomo, infatti, occupa via via i quattro punti cardinali secondo
una sequenza opposta a quella dello scoiattolo, e in questo senso si può dire
che gli gira attorno; ma in un altro senso non riesce a farlo, perché lo
scoiattolo si muove conservando la propria posizione, con il ventre rivolto
verso l’uomo. La questione si riduce all’analisi della parola «intorno», ma non
ha risposta.
L’analisi linguistica di Peirce
Il pragmatismo è
un metodo, affermò James, che ha i suoi precedenti nel perpetuo interrogare di Socrate e nell’analisi
linguistica tipica dell’empirismo inglese. Charles
Sanders Peirce, nel saggio Come rendere chiare le nostre idee (1878), aveva indicato il motivo più
sottile di ogni nostra scelta negli effetti pratici che attribuiamo ai nostri
pensieri o atti di volontà. Peirce e William James avevano fondato nel 1875 un Metaphysical
club («club
metafisico») presso l’università statunitense di Cambridge e si influenzarono a
vicenda. Peirce, passato dalla geodesia alla logica e alla matematica, derivò il
criterio di verità dalla ricerca sperimentale e applicò ai problemi della
conoscenza un’impostazione
‘realista’. William James, medico e psicologo, fu piuttosto un ‘nominalista’ attento
al flusso
del pensiero, all’analisi delle idee e degli atti di volontà.
La teoria utilitaristica di William James
I due
cofondatori del pragmatismo constatarono che le loro vie divergevano: Peirce
preferì ridefinire la sua teoria generale dei segni, mai compiuta, con il
termine pragmaticismo. James scelse come terreno di prova i fatti
di esperienza vissuta e rivolse le sue raffinate attitudini di psicologo ai
valori morali e alla fede religiosa, definendo la volontà
di credere un
«beneficio vitale». Il pragmatismo, assai discusso in Europa, negli Stati Uniti
ha avuto i suoi continuatori in John Dewey e nei neopragmatisti George H. Mead,
Donald Davidson, Richard Rorty.
Non ci
sono idee fuori dall’esperienza
(uno
studio approfondito del pragmatismo americano)
Il
mondo che sta di fronte a questi filosofi è accolto con tutto quello che c’è
dentro: pensiero, azione, errori, cose che vanno bene e cose che vanno male.
Non dobbiamo uscire da questo mondo in cui siamo pienamente immersi. I
pragmatisti si opposero addirittura al primo Wittgentein perché anche nella
conoscenza noi non possiamo appellarci a delle idee che siano fuori dalla
storia, fuori dall’esperienza. Gli stessi empiristi, a cui loro si
richiamavano, ritenevano l’esperienza un dato oggettivo, ma questa oggettività
è qualcosa di non umano. Dicevano i pragmatisti che non ci deve essere nulla di
non umano. Non c’è un dato oggettivo, scientifico, positivista a cui noi
possiamo appellarci. Non ci sono idee fuori dall’esperienza, dalla storia del
mondo. Non ci sono delle categorie asettiche e pure come prospettava Kant, alle
quali noi appellarci per reinterpretare la realtà. È tutta una osmosi, noi
siamo immersi nell’esperienza che facciamo. Il
mondo è plasmato dalla nostra mente. In altre parole siamo all’apice di
quello che desiderava Hegel. Siamo all’annullamento totale di tutto ciò che non
è ritenuto umano. Le idee platoniche non sono considerate umane perché non sono
frutto della nostra esperienza. Il dato oggettivo non esiste perché è frutto
della nostra interpretazione. Le categorie kantiane all’interno della mente
sono qualcosa di non reale, non sperimentabile, mentre noi siamo immersi
nell’esperienza e nella storia e con questo noi abbiamo un “continuum”, nella
storia e nel tempo non c’è un presente, c’è solo un passato e un futuro, il
presente come appare è già svanito. Una osmosi con l’esperienza che abbiamo di
fronte. L’unico modo di relazionarci, di poter vivere, di poter trarre delle
idee è quello della prassi (attività pratica,
contrapposta all’attività teorica o speculativa).
La prassi è quella che dà la verità, l’agire. Io conosco veramente l’oggetto
che ho davanti in base alle conseguenze che esso può avere, all’utilità che
l’oggetto può avere, per me, per la società, per la comunità.
Il
valore delle idee e dei concetti che abbiamo sono semplicemente una
condensazione di esperienze passate, di esperienze future, sempre comunque del
soggetto e della comunità a cui il soggetto appartiene, sono “cash value”, cioè
esperienze subito vendibili o usabili potremmo dire, nella prassi. Perché
andare a ricercare dei valori che siano sopra ai fatti, magari valori eterni
con i quali poter giudicare i fatti. Perché pensare che la realtà debba
imprimersi in noi come se la nostra mente fosse uno specchio. Perché dividere
il pensiero dalla realtà, quando invece è un tutt’uno, è tutta una osmosi
continua di storia e di esperienza. Le poche condensazioni che ci sono, le
idee, vengono dall’esperienza. Una esperienza che cambia darwinisticamente.
Idee che cambiano perché sono semplicemente dei significati, dei segni sulla
base della loro utilità pratica. Questa è la realtà dei fatti. La materia e
l’utilità pratica di ciò che abbiamo intorno. Dalle cose alle idee e ai
pensieri. Ecco perché i pragmatisti ritenevano che le loro filosofia fosse un
corridoio nel quale si aprono tante stanze, tante porte e queste porte sono le
varie filosofie che hanno caratterizzato la storia della filosofia. Queste sono
tutte valide, perché tutte si affacciano sul fronte della loro utilità pratica
in quel determinato momento storico.
Siamo
immersi in una realtà che è tutta umana, non c’è nulla che vada al di fuori
dell’umano. La verità è una verità pratica, utile. L’esperienza è una infinità
di possibilità, di infinite possibilità. Un infinito mondo di significati. Il
significato è un segno che rimanda ad un oggetto e c’è qualcuno che interpreta
questo collegamento. Chi è questo qualcuno? Per esempio la comunità. Come la
comunità scientifica certifica e rende valida una ipotesi per studiare un certo
fenomeno, così in generale la comunità umana ritiene cosa sia utile e quindi
vero in quel momento per la crescita della comunità (comunità che diventa così
una comunità educante). Utile quindi per la crescita dei valori comuni, dello
stare bene insieme. Qui si spiega il carattere interventista dell’America.
Facciamo e poi vediamo se quello che abbiamo deciso di fare ha le conseguenze
che ci aspettavamo, altrimenti correggiamo il tiro, grazie all’esperienza
passata e a quella che stiamo facendo ora.
Grande
è quindi l’ottimismo americano, è la comunità, è la democrazia che ci permette
di decidere insieme cosa è più utile fare e quindi farlo. Osservando le
conseguenze facciamo di fatto un processo di verifica delle decisioni prese e
ne prendiamo delle altre (concetto di “verificabilità” come nelle scienze). Non
c’è nulla al di fuori delle relazioni umane di non umano. Tutte le idee e le
filosofie sono o sono state utili all’uomo nei vari periodi della storia e
quindi sono tutte umane. Perché tutte sono state frutto di una osmosi e di una
intensa relazione con l’uomo. È l’apice della immanentizzazione del pensiero,
dell’identificazione radicale e senza vie di uscita fra pensiero e realtà.
Il vero basato sull‘utile per la comunità, ma anche per
la religione stessa, dimostra che il pragmatismo riesce ad inserirsi un po’ dappertutto.
Il pragmatismo ha una forte componente teistica, cioè crede che ci sia una
superiore entità che sorregge la materia, a sorreggere questo stato di cose. È
quasi mistico per certi aspetti, dove l’importante è l’utilità pratica,
l’importante è sceglier insieme quale sia la via, provando, agendo,
sperimentando.
L’opinione finale sulla quale tutti corrono, è ciò che
intendiamo con verità (Peirce). Tutti coloro che indagano si troveranno in
definitiva d’accordo che ciò che intendiamo con verità è il reale. La realtà è
l’oggetto verso il quale la nostra intenzione, pratica, utile, pur anco
spirituale ma pur sempre utile, è indirizzato. L’oggetto è composto a partire
dall’intenzionalità che interpreta quella che si ritiene, comunitariamente,
essere la realtà. L’anima è il significato del pensiero e non può indirizzarsi
ad altro che alla produzione della credenza. Le credenze, in breve, sono in
realtà regole per l’azione e tutta la funzione del pensare non è che un passo
verso la formazione di abitudini di azione. Addirittura per i pragmatisti, e
specie per Peirce, non c’è nemmeno l’induzione, cioè il detrarre da alcuni
fenomeni una regola comune come hanno fatto Galilei, Newton e altri, cioè una
regola universale. Con i pragmatici si possono vedere alcuni fatti e da questi
trarne una regola che sia poi utile per agire, ma non che possa dirsi o usarsi
come universale. Queste possono al più diventare delle credenze, cioè delle vie
per agevolare il “problem solving”, per affrontare una esperienza e una realtà
difficile o piena di ostacoli. I pragmatisti sono decisamente contrari a tutto
ciò che può andare oltre la storia, oltre l’esperienza. Tutti coloro che hanno
ricercato nella metafisica, nei principi generali, nelle categorie kantiane,
qualcosa che potesse spiegare il mondo e arginare l’errore non hanno risolto
nulla.
La realtà è fatta di bene e di male, di dubbio e di
credenza in cui siamo immersi. In questa realtà siamo e in questa dobbiamo
affrontare i nostri problemi. Le cose vengono definite dai sensi, i quali a
loro volta sono definiti dall’uso e a questo punto possiamo parlare di
sostanze, ma sono semplicemente delle sostanze che derivano da esperienze
passate. Il sentimento è molto importante per i pragmatisti, così come la programmazione
futura. Non abbiamo qualcosa di oggettivo, ma sempre qualcosa di interlacciato
con le nostre interpretazioni e con quelle degli altri, sia di chi ci ha
preceduto sia di chi verrà dopo di noi. Anche se il pragmatismo accetta e vede
come utili per il loro tempo anche teorie e filosofie che abbiamo definito
“contro-intuitive”, questi di fatto è molto più vicino a noi e al nostro
bisogno istintivo di chiamare le cose con il loro nome e di conoscerle, capirle
e poterle gestire.
Juan Donoso Cortés (1809 – 1853) marchese di Valdegamas, ambasciatore spagnolo nel 1852, scrive: “Se la luce della nostra ragione non è stata
oscurata (non si è eclissata) essa è sufficiente, anche senza l’ausilio della
fede, a scoprire la verità. Se la fede non è necessaria, la ragione è sovrana e
indipendente. I progressi della verità dipendono dai progressi della ragione,
questi dal suo esercizio che consiste nella discussione. Dunque è la
discussione la vera legge fondamentale delle società moderne, è l’unico
crogiuolo in cui si separano, dopo che si sono fuse, le verità dagli errori”.
Commenti
al Pragmatismo
Questo è a grandi linee il pragmatismo, ma basta
accendere la televisione guardare la pubblicità per capire il pragmatismo. In
essa per rendere pubblica una cosa se ne
esalta l’utilità, la capacità di risolvere un problema, non si usa nessuna
tematica al di fuori della nostra esperienza, nulla al di fuori delle nostre
interpretazioni o di quelle che si vivono nelle nostre comunità di riferimento.
È evidente che ormai è questa la filosofia che domina il
mondo, cioè la filosofia del liberalismo, la filosofia del soggettivismo, la
filosofia dell’utilitarismo, la filosofia del consumismo, la filosofia del
relativismo, della morale su misura di ciò che in un certo momento è più utile
e conveniente e che, nonostante lasci spazio anche al deismo e al misticismo,
comunque mette al centro l’uomo, la mente umana, la volontà e soprattutto il
linguaggio e la discussione come criterio per valutare se una cosa è giusta o
no.
In altri termini: è giusto ciò che dice la maggioranza
(la maggioranza della comunità “educante”). Il problema è allora quello di
esaltare il sistema di governo basato sulla democrazia dove è il popolo che
decide attraverso i suoi rappresentanti (e non un monarca o un dittatore).
Resta da capire se questi rappresentanti del popolo sovrano sono stati eletti
per la loro bravura, competenza, capacità, onestà e spirito di servizio, o
perché più abili di altri a “vendersi bene” e ad essere sostenuti dai gruppi di
potere che di fatto governano dietro le quinte? [Ndr].
Il pragmatismo
nella vita della Chiesa
“Nella prima metà degli anni 70, racconta l’ex Cardinale
Ratzinger, un amico fece un viaggio in Olanda, dove la Chiesa faceva sempre più
parlare di sé, vista dagli uni come l’immagine di una Chiesa migliore per il
domani, dagli altri come sintomo di una decadenza che era la logica conseguenza
dell’atteggiamento assunto. Al suo ritorno ci parlò di seminari vuoti, assenza
di vocazioni religiose, ritorno allo stato laicale di preti e religiosi, la
scomparsa della confessione, la caduta della frequenza alla Messa domenicale,
ecc. ma ci parlò anche di numerose iniziative per attirare in Parrocchia la
gente”.
Iniziative del tutto simili a quelle proposte da altre
associazioni o organizzazioni nate per riempire il tempo libero della gente per
filantropia o per business. Queste iniziative erano di fatto semplicemente in
concorrenza con le altre, e anche se alcune erano molto buone e interessanti,
non avevano modificato per nulla la situazione. L’allontanamento dalla fede
continua a crescere e le persone che frequentano queste iniziative parrocchiali
continuano a non vedersi in Chiesa. Non è l’abilità nel proporre
intrattenimenti che può aumentare la fede né tantomeno la dialettica o il
saperci fare, ma il suo contrario: l’amore gratuito per il prossimo vissuto dai
cristiani, che può attirare quelli che sono stufi dei palliativi di felicità che il mondo offre. (Sintesi
della pag. 35s di “Guardare Cristo”
di J. Ratzinger, ed. Jaca Book 1989)
“Andate dunque in tutto il mondo e fate discepoli tutti i
popoli” (Mt 28,19). Questo dinamismo missionario, non si può trasformarlo in:
“Andate nel mondo e diventate voi stessi come tutti gli altri!”. Il granello di
senape del Vangelo è qualcosa di sacro e non si identifica col mondo, ma è
destinato a penetrarlo e a lievitarlo tutto intero.
In una intervista del 1975 a Eugenio Ionesco, uno dei
padri del teatro dell’assurdo, ha detto:
“la Chiesa non vuol perdere la sua clientela, anzi vuol guadagnarne di nuova.
Ciò però la porta ad una mondanizzazione davvero deplorevole. La Chiesa così
corre a perdersi nel mondo”. L’uomo che cerca Dio, non lo va a cercare nelle
cose del mondo e tantomeno in una Chiesa che gli propone cose simili a quelle
che già gli propone il mondo. L’uomo che cerca Dio è assetato della proposta
radicale del Vangelo. (Sintesi della pag. 108s di “Servitori della vostra gioia” di J. Ratzinger, ed. Ancora 1989)
Estratto
dal testo dell'intervento tenuto dall’ex
cardinale Joseph Ratzinger, durante un incontro tra la Congregazione per la
Dottrina della Fede e i Presidenti della omonima Commissione delle Conferenze
Episcopali dell'America Latina, tenutosi a Guadalajara
(Messico) nel maggio 1996, in cui veniva analizzata la situazione della fede
e della teologia, nel contesto contemporaneo della vita della Chiesa.
Oltre […] al grande pragmatismo delle teologie della liberazione vi è anche però il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale in apparenza ogni cosa procede normalmente, ma in realtà la fede si logora e decade nella meschinità. Penso qui a due fenomeni, ai quali guardo con preoccupazione. Il primo riguarda il tentativo che si manifesta a diversi livelli, di estendere il principio della maggioranza e della minoranza alla fede e ai costumi e quindi di «democratizzare» decisamente la Chiesa. Ciò che non è gradito alla maggioranza non può essere vincolante, così sembra. Ma di quale maggioranza si tratta in realtà? Domani sarà diversa da oggi?
Oltre […] al grande pragmatismo delle teologie della liberazione vi è anche però il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale in apparenza ogni cosa procede normalmente, ma in realtà la fede si logora e decade nella meschinità. Penso qui a due fenomeni, ai quali guardo con preoccupazione. Il primo riguarda il tentativo che si manifesta a diversi livelli, di estendere il principio della maggioranza e della minoranza alla fede e ai costumi e quindi di «democratizzare» decisamente la Chiesa. Ciò che non è gradito alla maggioranza non può essere vincolante, così sembra. Ma di quale maggioranza si tratta in realtà? Domani sarà diversa da oggi?
Una
fede che siamo in grado di stabilire noi non è una vera fede. E una minoranza
non può lasciarsi imporre una fede da una maggioranza. La fede e la sua pratica
ci provengono dal Signore attraverso la Chiesa e l'esercizio dei sacramenti,
altrimenti non esistono. Molti rinunciano a credere perché
sembra loro che la fede possa essere definita da una qualche istanza
burocratica, che sia cioè una specie di programma di partito, chi ne ha il
potere può definire ciò che bisogna credere, e quindi tutto dipende dal fatto
di giungere al potere nella Chiesa oppure - cosa più logica e più plausibile - non
credere affatto.
L'altro punto, su cui voglio richiamare
l'attenzione, riguarda la liturgia. Le varie fasi della riforma liturgica hanno
fatto sorgere l'idea che la liturgia possa venir mutata a piacere. [Corre
infatti il pensiero che] se c'è qualcosa che non si può cambiare questo
riguarderebbe tutt'al più le parole della consacrazione, mentre tutto il resto
lo si potrebbe fare anche diversamente. Ne deriva una tremenda conseguenza
logica: se questo lo può fare un'autorità centrale, perché non anche le
istituzioni locali? E se le istituzioni locali, perché allora non anche la
stessa comunità?
Dopo
le tendenze razionaliste e puritane degli anni Settanta e anche degli anni
Ottanta ci si è stancati oggi delle liturgie delle parole e si desidera una
liturgia dell'esperienza, che si avvicina molto agli orientamenti del New Age:
si ricerca ciò che è rumoroso ed estatico, non la «logikè latreia», la
rationabilis oblatio (la liturgia secondo ragione, conforme al logos), di cui
parla Paolo e con lui la liturgia romana (Rom 12, 1). Certo, quello che voglio sottolineare non si riferisce
alla situazione normale delle nostre comunità. Ma queste tendenze sono comunque
evidenti [e serpeggiano anche in qualche sacrestia. Ndr]. Si richiede perciò
una certa vigilanza, per non cadere in potere di un vangelo diverso da quello
che il Signore ci ha donato, pietre invece di pane.
La negazione del valore storico dei Vangeli
Perché non suffragati da fonti extra bibliche (di
Alberto Torresani)
Fino alla fine
del Settecento, la Bibbia era stata considerata un documento attendibile e ciò
che essa racconta era inserito nel sapere dei popoli cristiani che perciò
potevano rispondere ai fondamentali interrogativi dell’esistenza: chi sono, da
dove vengo e dove vado. La risposta, accolta da tutti, era che all’inizio c’è
un Dio creatore della natura comprendente le terre e i mari, le piante, gli
animali, l’uomo. Quest’ultimo era ritenuto una creatura privilegiata perché
dotata di una intelligenza che lo rendeva simile a Dio. Tuttavia, per meritare
l’amicizia di Dio occorreva che l’uomo fosse dotato di libera volontà, che
aderisse liberamente al progetto di Dio, proprio come gli angeli. Ma l’uomo e
una parte degli angeli non seppero sostenere la prova, vollero essere come Dio,
giudici del bene e del male e perciò precipitarono nell’abisso. Tuttavia, la
bontà di Dio e l’amore verso la creatura più elevata presente sulla terra,
indussero Dio ad assumere la natura umana, riscattando l’uomo dall’abiezione in
cui era caduto. Il Logos è il Figlio
di Dio che ha unito la sua divinità alla natura umana, entrando nella storia
come il figlio di Maria, nato a Betlemme e condannato a morte da Ponzio Pilato
su richiesta dei capi del suo popolo. Ma nel terzo giorno Cristo è risorto e
poi è asceso al cielo, lasciando la Chiesa come sacramento di salvezza per
tutti gli uomini.
Questi dati essenziali, alla fine del
Settecento, non furono considerati probanti. Fin dal secolo precedente era
avvenuta la rivoluzione scientifica, in qualche modo resa vincente dal nuovo
metodo instaurato da Galilei e Newton mediante lo sviluppo mirabile della
matematica. Non si doveva chiedersi perché
avvenivano i movimenti della natura, bensì spiegare come avvenivano, mediante la misura delle forze impegnate in quegli
eventi permessa dalla matematica. Si finì per considerare scientifico solamente
ciò che si può misurare, mentre tutto il resto è favola, leggenda, poesia.
All’inizio dell’Ottocento, con la
fondazione della nuova università di Berlino operata da Wilhelm von Humboldt,
si ebbe il trionfo del metodo storico-critico che consiste nell’attribuire
valore di verità solamente a quei dati che vengono forniti da due fonti tra
loro indipendenti che affermano la stessa cosa. Per quanto riguarda la Bibbia,
quasi tutte le sue affermazioni non sono suffragate da fonti extra-bibliche e
perciò non hanno valore storico. La Bibbia fu equiparata ai poemi omerici e ai
miti di fondazione delle religioni più varie. Intanto, le scienze della natura
facevano progressi travolgenti. L’età del mondo fu calcolata dalla geologia
prima in milioni e poi miliardi di anni. I resti di animali scomparsi da
milioni di anni come i dinosauri inducevano a pensare come molto probabile
l’evoluzione di tutti gli esseri -piante,
animali, uomo- a partire dalla materia dotata di tensione che induceva il
movimento evolutivo. La storia testimoniata da fonti scritte occupava un
piccolo segmento, perché il segmento maggiore era formato dagli uomini ancora
privi della scrittura. Poiché si cercavano prove evidenti di ogni affermazione,
vennero costruite le epoche storiche partendo del paleolitico, quando gli
uomini erano in grado di scheggiare rozzamente le pietre con primitivi
strumenti di lavoro; seguita dall’epoca neolitica quando i manufatti appaiono
molto meglio trattati. Poi avvenne la fusione dei metalli più teneri come il
rame e lo stagno, che associati formano il bronzo. Infine la tecnologia permise
la fusione del metallo più diffuso in natura ma anche il più esigente in fatto
di temperatura, il ferro che opportunamente trattato permette di ottenere
l’acciaio.
L’Ottocento è anche il secolo della
storia. L’archeologia permise di riportare alla luce i resti di antiche
civiltà; la scrittura delle lingue più antiche fu decifrata e furono tradotti e
letti i poemi più antichi dell’umanità, in particolare la letteratura
dell’antico Egitto e quella dei popoli della Mesopotamia. Giunti a questo
punto, si finì per affermare che la Bibbia aveva dei precedenti nelle culture
egiziana e mesopotamica, molto più antichi della cultura ebraica, condensata
nella Bibbia, unico frutto di un piccolo popolo che avrebbe utilizzato le opere
di quei grandi popoli per costruire la propria tradizione, peraltro senza lo
splendore dell’architettura e delle altre arti figurative. Alla fine
dell’Ottocento, lo studio della Bibbia riprese vigore, ma sempre subordinato
alle esigenze del metodo storico-critico. Anche il Nuovo Testamento fu
vivisezionato alla ricerca delle fonti che l’avevano generato. Venne posta in
dubbio l’esistenza storica di Cristo, perché non compare con rilievo
sufficiente nelle fonti pagane del tempo. Il Vangelo di Giovanni fu attribuito
al III secolo perché solamente nell’epoca di Plotino si sarebbe impiegato il
termine logos. Insomma, il Cristo
della storia sarebbe un mito e i Vangeli avrebbero proposto un Cristo della
fede, elaborato dalla comunità cristiana. Il fatto capitale è la resurrezione
di Cristo, ma poiché essa non ammette dimostrazione scientifica, misurabile,
certamente deve trattarsi di un mito. E perciò, se un fantomatico profeta di
nome Gesù è esistito, è morto e tale sarebbe rimasto, ma i suoi discepoli, dopo
un primo smarrimento, avrebbero sentito rinascere nel loro cuore la fiducia nel
suo insegnamento e l’avrebbero proclamato risorto.
In realtà, la ricerca scientifica
progrediva. In Egitto, il clima asciutto ha permesso di ritrovare papiri che la
paleografia riesce a datare con notevole precisione, con uno scarto in più o in
meno di circa dieci anni. Fu trovata una sezione piuttosto ampia del Vangelo di
Giovanni datato al 117. Perciò, verso la data indicata, un manoscritto del
Vangelo di Giovanni era tanto diffuso da comparire in Egitto, usato per un
certo tempo e poi scartato per vari motivi, finendo in una discarica. La
scoperta più clamorosa del XX secolo è avvenuta nei pressi del Mar Morto, nel
1947 e anni seguenti, quando furono ritrovati alcuni rotoli di pelle col testo
di Isaia per intero e frammenti di molti altri testi della Bibbia: si sa con
certezza che gli Esseni, che avevano una comunità monastica in quella zona,
sigillarono quelle grotte al più tardi nell’anno 68. Un piccolo frammento di
papiro, di diciassette lettere greche distribuite su quattro righe, è stato
attribuito al Vangelo di Marco che perciò sarebbe stato presente all’interno di
una comunità non cristiana ancor prima dell’anno indicato.
Un poco alla volta si comprese che il
divario tra il Cristo della storia e il Cristo della fede poteva essere
colmato. Per esempio, nel Vangelo di Marco compare la vicenda della tempesta
sedata, affermando che Gesù dormiva a poppa della barca “su un cuscino” (Cfr Mc 4, 38). La notizia è del tutto
inutile, ma secondo molti critici è frutto di “autopsia” ossia di aver visto la
scena e perciò di poterla riferire con l’evidenza della memoria visiva. Quando
Andrea e Giovanni andarono per la prima volta a casa di Gesù, ricordano che
“era circa l’ora decima” (cfr Gv 1,
39), ossia le quattro del pomeriggio, ancora una volta si tratta di una notizia
inutile, che può avere origine dalla memoria fortemente suggestionata
dall’evento, piuttosto che dalla libera invenzione della fantasia di un
romanziere.
Attualmente nessuno storico mette in
dubbio l’esistenza storica di Cristo, anche se sono molti coloro che negano la
sua natura divina, anche per giustificare la mancata adesione al cristianesimo.
Si trascura il fatto che il metodo storico-critico, o quello della misurabilità
scientifica, possono applicarsi solamente a realtà fisiche che escludono la
loro dipendenza da realtà non misurabili. Il dato fondamentale della Bibbia è
che tutte le cose sono state create da Dio. Negando Dio come elemento non
misurabile, segue che le scienze positive non tengano in alcun conto tale
ipotesi e reagiscono vivacemente a ogni intrusione del soprannaturale
all’interno della loro disciplina. La fisica, che tra le scienze della natura
appare la più avanzata, afferma di poter spiegare l’universo con le ordinarie
leggi finora trovate. La cosmologia riesce a immaginare tutto l’universo concentrato
in una sfera del diametro di un pallone di calcio, alla temperatura di duecento
miliardi di gradi, con pressioni da capogiro, con uno scarto di poche frazioni
di secondo prima del grande scoppio da cui ha avuto origine tutto l’universo.
Se si arrischia a suggerire che questa mirabile costruzione dell’intelligenza
umana esige una razionalità superiore, ossia postula un progetto circa
l’universo dotato delle leggi di sviluppo appena accennate, esplode la protesta
di gran parte degli scienziati che ribadiscono le tesi del caso, della
necessità, dell’evoluzione, del successo degli eventi favorevoli alla vita ecc.
La difesa della concezione atea viene condotta con metodi fideistici,
dimenticando che fin dai tempi di Kant, se non si può dimostrare con la ragione
l’esistenza di Dio, perché non si tratta di un problema fenomenico che ammette
prova evidente, a minor ragione si può dimostrare la non esistenza di Dio, dal
momento che ancora una volta non si tratta di un problema fenomenico con
soluzione fisica. La termodinamica che ammette solamente il passaggio del più
caldo al meno caldo, col principio dell’entropia affermante che l’universo è
destinato a bruciare tutti i combustibili con una fine vicina allo zero
assoluto rimane il fondamento della cosmologia attuale: perciò l’ipotesi di un
universo eterno, come pensavano gli antichi, con perenne ritorno all’identico,
cade. Rimane da spiegare questa grandiosa fiammata da cui tutto deriva,
destinata a spegnersi tra alcuni miliardi di anni, senza causa plausibile della
sua esistenza, in luogo del nulla che sarebbe molto più semplice da ammettere.
Il papa Benedetto XVI, il maggiore teologo
del XX secolo, si colloca alla fine della parabola descritta dalla cultura
occidentale a partire dalla fine del secolo XVIII. Nei due secoli successivi è
stato celebrato il trionfo delle scienze positive che hanno indotto l’uomo a
ritenersi signore della natura, in grado di padroneggiare l’incredibile forza
contenuta nell’atomo, ossia ancora una volta l’uomo ha cercato affermarsi come
uguale a Dio. Con l’ingegneria sociale si è voluto creare l’uomo nuovo che fa a
meno di Dio, a costo di orrori inenarrabili che avrebbero dovuto strappare ogni
dipendenza dell’umanità da Dio. La caduta delle ideologie del XX secolo non ha
segnato il ritorno dell’umanità a Dio, bensì ha preso a percorrere la parabola
del nichilismo, riservando la razionalità di tipo matematico alle scienze della
natura (con descrizioni fisico-matematiche che la gente non comprende),
lasciando in tutto il resto l’umanità in preda ai capricci di una libertà senza
vincoli considerata l’unico valore da difendere. Perciò, è in un ambiente come
quello descritto che il papa Ratzinger ha proposto i suoi tre volumi sul
mistero di Gesù di Nazaret. In modo brillante ha esaminato e risolto le
contraddizioni storiche avverse ad ammettere la sua esistenza in terra e la sua
divinità in quanto Figlio di Dio, una pretesa inaudita che esige l’assenso di
fede, ossia credere in forza del fatto che Dio è amore e che non può
imbrogliare i suoi fedeli. Non si crede perché si è compreso fino in fondo
qualcosa, bensì perché si ha fiducia in chi propone l’atto di fede perché da
lui non può venire inganno.
Rimane da completare il quadro. Tre sono
le religioni monoteistiche. Alcuni affermano che, senza saperlo, esse adorano
lo stesso Dio. Forse è vero che le tre religioni monoteistiche - cristiani,
ebrei, musulmani - dovrebbero unire i loro sforzi avendo un nemico comune,
l’ateismo, ma non si può affermare che sono varianti della stessa religione.
L’ebraismo
ha rifiutato Cristo come se fosse un sobillatore del popolo: egli è stato
condannato a morte come bestemmiatore, anche se nel corso del processo non
furono trovati testimoni attendibili. Finì per prevalere la considerazione
politica ossia esser meglio che uno solo, anche se innocente, perisse per il
popolo, piuttosto che subire la distruzione del popolo. Il tentativo di
liberarsi dai Romani, iniziato nel 66 e concluso drammaticamente nel 70 al
tempo di Tito e Vespasiano, comportò la distruzione del popolo ebraico e la sua
dispersione (diaspora) nel mondo. Per gli ebrei attuali, Cristo rimane un
semplice uomo che tuttavia ha impartito un insegnamento del tutto analogo a
quello dei maggiori rabbini della sua epoca. Gli ebrei pii perciò, senza
rinnegare le vere e proprie calunnie contenute nel Talmud, rifiutano Cristo perché non ha collocato in primo piano, la
sua famiglia e il suo popolo. Esistono, a rigore, gli ebrei “messianici”, che
riconoscono il Cristo come il Messia e che però vogliono rimanere ebrei e non
essere chiamati cristiani, anche perché non sono ben visti dagli ebrei
ortodossi e vivono un po’ nascostamente.
I
musulmani rifiutano Cristo, ma ammettono che è
stato un grande profeta, onorano sua madre Maria, proclamandola vergine, ma non
Madre di Dio: se i cristiani si sottomettessero agli islamici, potrebbero
continuare a esistere, anche se sarebbero considerati in errore nell’interpretare
la Bibbia. Infatti, l’ultimo e supremo profeta, è stato Maometto, dopo il quale
non è ammissibile alcuna nuova rivelazione. I musulmani non concedono altra
lettura del Corano che non sia la sua
ripetizione letterale, non importa se compresa o meno dal fedele, che con atti
esterni deve limitarsi a confermare la sua condizione di sottomesso all’Islam.
Perciò è implicita la teoria della doppia verità: se tutto ciò che è contenuto
nel Corano è vero, qualora le scienze
trovassero qualcosa in contrasto col Corano
o nel Corano, si deve ammettere che le due verità non possono essere
considerate contrapposte, ma debbono vivere entrambe. Un atteggiamento questo
che di fatto ha paralizzato da sempre la filosofia e la teologia islamiche.
Il cristianesimo, o per meglio
dire il cattolicesimo, stante il
declino di quasi tutte le comunità protestanti uscite dalla rivoluzione di
Lutero, ha accettato la sfida del metodo storico-critico e i tre volumi di papa
Benedetto XVI su Gesù possono testimoniare la piena plausibilità della fede
cattolica che resiste ad ogni confronto con le scienze della natura, con la
filosofia, nel caso che ciò avvenga senza pregiudizi.
La mentalità astorica
Nel
corso del XX secolo il contesto culturale ha vissuto un profondo cambiamento,
ma se da un lato il pericolo di una riduzione della storia ad una analisi
neutrale dei documenti è stato in parte superato dagli stessi storici,
dall’altro questo stesso atteggiamento, ancora presente, ha finito per produrre
una mentalità astorica. Non si tratta più solo di affrontare una storiografia
ostile al cristianesimo e alla Chiesa, ma sempre di più una mentalità per la
quale la storia è qualcosa di “inutile”.
“Oggi è la storiografia stessa ad
attraversare una crisi più seria, dovendo lottare per la propria esistenza in
una società plasmata dal positivismo e dal materialismo. Entrambe queste
ideologie hanno condotto ad uno sfrenato entusiasmo per il progresso che,
alimentato da spettacolari scoperte e successi tecnologici, malgrado le
disastrose esperienze del secolo scorso, determina la concezione della vita di
ampi settori della società. Il passato appare, così, solo come uno sfondo buio,
sul quale il presente e il futuro risplendono con ammiccanti promesse […]. Tipico
di questa mentalità è il disinteresse per la storia […]. Ciò produce una
società che, dimentica del proprio passato e quindi sprovvista di criteri
acquisiti attraverso l’esperienza, non è più in grado di progettare un’armonica
convivenza e un comune impegno nella realizzazione di obiettivi futuri. Tale
società si presenta particolarmente vulnerabile alla manipolazione
ideologica.[…]. Prodotto inevitabile di tale sviluppo è una società ignara del
proprio passato e quindi priva di memoria storica. […]. Come la perdita della
memoria provoca nell’individuo la perdita dell’identità, in modo analogo questo
fenomeno si verifica per la Società nel suo complesso”. (Benedetto XVI, “Discorso al Pontificio Comitato di Scienze
storiche”, 7 marzo 2008)
Tenendo
presente queste parole di Benedetto XVI, si capisce bene perché è di vitale
importanza, per il nostro presente, conoscere bene la nostra storia e quella
del pensiero occidentale. La singola persona e analogamente il popolo
cristiano, che non conosca adeguatamente
la propria tradizione è come se non avesse consistenza culturale e quindi
responsabilità (di trasmettere ai propri figli e agli altri il patrimonio
culturale ereditato). Privare una persona del significato della sua storia e
della sua cultura è il primo passo per iniziare a renderla schiava (dei mass
media per esempio) e di non avere presenza significativa e incisiva nella
società. Sarà ridotta a pura istintività e reattività irriflessiva di fronte ai
problemi della vita e dei rapporti con gli altri. Sarà un uomo o un popolo che
agisce senza sapere le ragioni del suo agire e che così perde la comprensione
del valore della propria vita. La sua esistenza rischia di essere senza
significato per se e per gli altri. (Tratto da: Luigi Negri “Il cammino della Chiesa” ed. Ares Milano
2015)
"Dominus Iesus" di Joseph Card. Ratzinger
Al Prefetto Joseph Card. Ratzinger siamo debitori di quel contributo fondamentale per la ripresa
di identità dell’avvenimento cristiano
che è la Dichiarazione "Dominus Iesus" circa l'unicità e
l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, per
chiarire la posizione della fede cattolica nei confronti delle filosofie e
delle pseudo religioni con le quali ci stiamo confrontando nel modernismo.
Riportiamo qui alcuni suoi passi.
1.
Il Signore
Gesù, prima di ascendere al
cielo, affidò ai suoi discepoli (tutti
noi) il mandato di annunciare il Vangelo al mondo intero e di battezzare
tutte le nazioni: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni
creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà
condannato» (Mc 16,15-16);
«Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate
tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io
sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18-20; cf. anche Lc 24,46-48; Gv17,18; 20,21; At 1,8).
2.
La Chiesa, nel corso dei secoli, ha proclamato e
testimoniato con fedeltà il Vangelo di Gesù. Al termine del secondo millennio
cristiano, però, questa missione è ancora lontana dal suo compimento. È per
questo più che mai attuale oggi il grido dell'apostolo Paolo sull'impegno
missionario di ogni battezzato: «Non è infatti per me un vanto predicare il
vangelo; è una necessità che mi si impone: guai a me se non predicassi il
vangelo!» (1 Cor9,16). Ciò spiega la particolare attenzione che il
Magistero ha dedicato a motivare e a sostenere la missione evangelizzatrice
della Chiesa, soprattutto in rapporto alle tradizioni religiose del mondo. […]
Proseguendo su questa linea, l'impegno ecclesiale di annunciare Gesù Cristo,
«la via, la verità e la vita» (Gv 14,6),
si avvale oggi anche della pratica del dialogo interreligioso, che certo non sostituisce, ma accompagna la missio ad gentes. […]. Tale
dialogo, che fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa, comporta un atteggiamento di comprensione e
un rapporto di conoscenza reciproca e di mutuo arricchimento, nell'obbedienza
alla verità e nel rispetto della libertà.
3.
[…] Questa dichiarazione
interviene per richiamare ai Vescovi, ai teologi e a tutti i fedeli cattolici
alcuni contenuti dottrinali imprescindibili, che possano aiutare la riflessione
teologica a maturare soluzioni conformi al dato di fede e rispondenti alle
urgenze culturali contemporanee. […] Per questo la Dichiarazione riprende la
dottrina insegnata in precedenti documenti del Magistero, con l'intento di
ribadire le verità , che fanno parte del patrimonio di fede della Chiesa.
4.
Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi
messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare
il pluralismo religioso, non solo de
facto ma anche de iure (o di principio). Di
conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere
definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede
cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato
dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù
di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo,
l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione
salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità , pur nella
distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza
nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo.
Le radici di queste affermazioni sono da
ricercarsi in alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che
ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata. Se ne possono
segnalare alcuni: la convinzione della inafferrabilità e inesprimibilità della
verità divina, nemmeno da parte della rivelazione cristiana; l'atteggiamento
relativistico nei confronti della verità , per cui ciò che è vero per
alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale che si pone tra
mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo
di chi, considerando la ragione come unica fonte di conoscenza, diventa «
incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la
verità dell'essere» [8]; la difficoltà a comprendere e ad accogliere la
presenza di eventi definitivi ed escatologici nella storia; lo svuotamento
metafisico dell'evento dell'incarnazione storica del Logos eterno, ridotto a
mero apparire di Dio nella storia; l'eclettismo di chi, nella ricerca
teologica, assume idee derivate da differenti contesti filosofici e religiosi,
senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica, né alla loro
compatibilità con la verità cristiana; la tendenza, infine, a leggere e
interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione e dal Magistero della
Chiesa.
In base a tali presupposti, che si
presentano con sfumature diverse, talvolta come affermazioni e talvolta come
ipotesi, vengono elaborate alcune proposte teologiche, in cui la rivelazione
cristiana e il mistero di Gesù Cristo e della Chiesa perdono il loro carattere
di verità assoluta e di universalità salvifica, o almeno si getta su di essi
un'ombra di dubbio e di insicurezza.
5.
Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si
sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo
e completo della rivelazione di Gesù Cristo.
Deve essere, infatti, fermamente creduta l'affermazione che nel mistero di
Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, il quale è « la via, la verità e la vita » (Gv 14,6), si dà la rivelazione della
pienezza della verità divina: « Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e
nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia
rivelare » (Mt 11,27); «
Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del
Padre, lui lo ha rivelato » (Gv 1,18);
« È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi
avete in lui parte alla sua pienezza » (Col 2,9‑10).
Fedele alla parola di Dio, il Concilio
Vaticano II insegna: « La profonda verità , poi, sia su Dio sia sulla
salvezza dell'uomo, risplende a noi per mezzo di questa rivelazione nel Cristo,
il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione ». E
ribadisce: « Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli
uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3,34)
e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo
il quale si vede il Padre (cf. Gv 14,9), col fatto stesso della sua
presenza e manifestazione di Sé, con le parole e con le opere, con i segni e
con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione
dai morti e, infine, con l'invio dello Spirito di verità compie e completa la
rivelazione e la conferma con la testimonianza divina [...]. L'economia
cristiana, dunque, in quanto è l'alleanza
nuova e definitiva, non passerà mai, e non si dovrà attendere alcuna nuova
rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro
Gesù Cristo (cf. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13) ».
Per questo l'enciclica Redemptoris missio ripropone alla Chiesa il compito
di proclamare il Vangelo, come pienezza della verità : « In questa Parola
definitiva della sua rivelazione, Dio si è fatto conoscere nel modo più pieno:
egli ha detto all'umanità chi è. E questa autorivelazione definitiva di Dio è
il motivo fondamentale per cui la Chiesa è per sua natura missionaria. Essa non
può non proclamare il vangelo, cioè la pienezza della verità che Dio ci ha
fatto conoscere intorno a se stesso» Solo la rivelazione di Gesù Cristo,
quindi, « immette nella nostra storia una verità universale e ultima, che
provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai ».
6.
È quindi contraria alla fede della Chiesa la tesi circa il
carattere limitato, incompleto e imperfetto della rivelazione di Gesù Cristo,
che sarebbe complementare a quella presente nelle altre religioni.
13. È anche
ricorrente la tesi che nega l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di
Gesù Cristo. Questa posizione non ha alcun fondamento biblico. Infatti, deve
essere fermamente creduta,
come dato perenne della fede della Chiesa, la verità di Gesù Cristo, Figlio di
Dio, Signore e unico salvatore, che nel suo evento di incarnazione, morte e
risurrezione ha portato a compimento la storia della salvezza, che ha in lui la
sua pienezza e il suo centro.
16. Il Signore Gesù,
unico Salvatore, non stabilì una semplice comunità di discepoli, ma costituì la
Chiesa come mistero salvifico:
Egli stesso è nella Chiesa e la Chiesa è in Lui (cf.Gv 15,1ss.; Gal 3,28; Ef 4,15-16; At 9,5); perciò, la pienezza del
mistero salvifico di Cristo appartiene anche alla Chiesa, inseparabilmente
unita al suo Signore. Gesù Cristo, infatti, continua la sua presenza e la sua
opera di salvezza nella Chiesa ed attraverso la Chiesa (cf.Col 1,24-27), che è suo Corpo (cf. 1 Cor 12, 12-13.27; Col 1,18). E così come il capo e le
membra di un corpo vivo pur non identificandosi sono inseparabili, Cristo e la
Chiesa non possono essere confusi ma neanche separati, e costituiscono un unico
« Cristo totale ». Questa stessa inseparabilità viene espressa nel Nuovo
Testamento anche mediante l'analogia della Chiesa come Sposa di Cristo (cf. 2 Cor 11,2; Ef 5,25-29; Ap 21,2.9
17. Esiste quindi
un'unica Chiesa di Cristo, che sussiste nella Chiesa Cattolica, governata dal
Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui [58]. Le Chiese che,
pur non essendo in perfetta comunione con la Chiesa Cattolica, restano unite ad
essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e la
valida Eucaristia, sono vere Chiese particolari [59]. Perciò anche in queste
Chiese è presente e operante la Chiesa di Cristo, sebbene manchi la piena
comunione con la Chiesa cattolica, in quanto non accettano la dottrina
cattolica del Primato che, secondo il volere di Dio, il Vescovo di Roma
oggettivamente ha ed esercita su tutta la Chiesa [60].
Invece le comunità ecclesiali che non
hanno conservato l'Episcopato valido e la genuina e integra sostanza del
mistero eucaristico [61], non sono Chiese in senso proprio; tuttavia i
battezzati in queste comunità sono dal Battesimo incorporati a Cristo e,
perciò, sono in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa [62]. Il
Battesimo infatti di per sé tende al completo sviluppo della vita in Cristo
mediante l'integra professione di fede, l'Eucaristia e la piena comunione nella
Chiesa [63].
« Non possono, quindi, i fedeli
immaginarsi la Chiesa di Cristo come la somma – differenziata ed in qualche
modo unitaria insieme – delle Chiese e Comunità ecclesiali; né hanno facoltà di
pensare che la Chiesa di Cristo oggi non esista più in alcun luogo e che,
perciò, debba esser soltanto oggetto di ricerca da parte di tutte le Chiese e
comunità » [64]. Infatti «gli elementi di questa Chiesa già data esistono,
congiunti nella loro pienezza, nella Chiesa Cattolica e, senza tale pienezza,
nelle altre Comunità » [65]. «Perciò le stesse Chiese e comunità separate,
quantunque crediamo che abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non
sono affatto spoglie di significato e di peso. Poiché lo Spirito di Cristo non
recusa di servirsi di esse come strumenti di salvezza, il cui valore deriva
dalla stessa pienezza della grazia e della verità che è stata affidata alla
Chiesa Cattolica» [66].
18. La missione
della Chiesa è « di annunciare il regno di Cristo e di Dio e di instaurarlo tra
tutte le genti; di questo Regno essa costituisce sulla terra il germe e
l'inizio » [68]. Da un lato, la Chiesa è « sacramento, cioè segno e strumento
dell'intima unione con Dio e dell'unità del genere umano » [69]; essa è quindi
segno e strumento del Regno: chiamata ad annunciarlo e ad instaurarlo.
Dall'altro lato, la Chiesa è il « popolo adunato dall'unità del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo » [70]; essa è dunque « il regno di Cristo già
presente in mistero » [71], costituendone perciò il germe e l'inizio. Il Regno di Dio
ha infatti una dimensione escatologica: è una realtà presente nel tempo, ma la
sua piena realizzazione arriverà soltanto col finire o compimento della storia
[72].
23.
La
presente Dichiarazione, nel riproporre e chiarire alcune verità di fede, ha
inteso seguire l'esempio dell'Apostolo Paolo ai fedeli di Corinto: « Vi ho
trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto » (1 Cor 15,3). Di fronte ad alcune
proposte problematiche o anche erronee, la riflessione teologica è chiamata a
riconfermare la fede della Chiesa e a dare ragione della sua speranza in modo
convincente ed efficace.
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nell'Udienza concessa
il giorno 16 giugno 2000 al sottoscritto Cardinale Joseph Ratzinger,
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, con certa
scienza e con la sua autorità apostolica ha ratificato e confermato questa
Dichiarazione, decisa nella Sessione Plenaria, e ne ha ordinato la
pubblicazione.
[…] In tanta confusione di opinioni, Ci reca un po' di consolazione
il vedere coloro che un tempo erano stati educati nei principî del
razionalismo, ritornare oggi, non di rado, alle sorgenti della verità rivelata,
e riconoscere e professare la parola di Dio, conservata nella Sacra Scrittura,
come fondamento della Teologia. Nello stesso tempo però reca dispiacere il
fatto che non pochi di essi, quanto più fermamente aderiscono alla parola di
Dio, tanto più sminuiscono il valore della ragione umana, e quanto più
volentieri innalzano l'autorità di Dio Rivelatore, tanto più aspramente
disprezzano il Magistero della Chiesa, istituito da Cristo Signore per
custodire e interpretare le verità rivelate da Dio. Questo disprezzo non solo è
in aperta contraddizione con la Sacra Scrittura, ma si manifesta falso anche
con la stessa esperienza. Poiché frequentemente gli stessi
"dissidenti" si lamentano in pubblico della discordia che regna fra
di loro nel campo dogmatico, cosicché, pur senza volerlo, riconoscono la
necessità di un vivo Magistero.
Ora queste tendenze, che più o meno deviano dalla retta
strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi e dai teologi
cattolici, che hanno il grave còmpito di difendere le verità divine ed umane e
di farle penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono conoscere bene
queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare se prima non sono
bene conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni si
nasconde un po' di verità, sia infine, perché gli stessi errori spingono la
mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche che teologiche.
Se i nostri cultori di filosofia e di teologia da queste
dottrine, esaminate con cautela, cercassero solo di cogliere i detti frutti,
non vi sarebbe motivo perché il Magistero della Chiesa avesse a interloquire.
Ma, benché Noi sappiamo bene che gli insegnanti e i dotti cattolici in genere
si guardano da tali errori, è noto però che non mancano nemmeno oggi, come ai
tempi apostolici, […] coloro che, amanti più del conveniente delle novità e
timorosi di essere ritenuti ignoranti delle scoperte fatte dalla scienza in
quest'epoca di progresso, cercano di sottrarsi alla direzione del sacro
Magistero e perciò sono nel pericolo di allontanarsi insensibilmente dalle
verità Rivelate e di trarre in errore anche gli altri. […] "Humani Generis" - Roma,
22 del mese di Agosto dell'anno 1950
PROGRAMMA incontri della quarta tappa:
l'eclissi della ragione
- 4t-1-La reazione a Hegel: Schopenhauer e Kierkegaa...
- 4t-2-La sinistra hegeliana: Feuerbach e Marx
- 4t-3-Positivismo e Darwinismo
- 4t-4-Spiritualismo e Psicanalisi
- 4t-5-Nietzsche: la morte di Dio
- 4t-6-Nietzsche: l'oltreuomo
- 4t-7-La Fenomenologia di Husserl
- 4t-8-Heidegger e l'esistenzialismo
- 4t-9-Idealismo italiano
- 4t-10-Neopositivismo e Pragmatismo americano
- 4t-11-La Scuola di Francoforte e Popper
- 4t-12-L'Ermeneutica di Gadamer e Benedetto XVI
Nessun commento:
Posta un commento